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| Aggiornamento - Amministrativo | 
| CONSIGLIO
  DI STATO, ADUNANZA PLENARIA – sentenza 13 aprile 2015 n. 4 sul risarcimento
  danni e annullamento del provvedimento FATTO Con ordinanza
  di remissione alla Adunanza Plenaria n. 284 del 2015
   La dottoressa
  Lorella Giammaria, attuale appellante, partecipava a concorso pubblico per
  titoli ed esami avente ad oggetto la copertura di
  tre posti di funzionario tecnico di ragioneria (all’epoca VIII
  qualifica funzionale, ai sensi del d.P.R. 25 giugno 1983 n.347), dei quali
  uno riservato al personale interno, indetto dal Comune de L’Aquila, con
  deliberazione della Giunta Comunale n.1363 del 26 agosto 1997. Nel bando di
  concorso era previsto, tra le altre cose, all’art. 6
  il programma di esami, stabilendo che sarebbero state svolte due prove
  scritte, una in materia di legislazione amministrativa e tributaria
  concernente gli enti locali, e la seconda in materia di diritto
  amministrativo e tributario con particolare riferimento agli enti locali. In relazione alla
  nomina della commissione esaminatrice, l’art. 8 del bando rinviava alla
  normativa vigente; l’art. 9 del bando precisava che avrebbero
  conseguito l’ammissione al colloquio orale i candidati che avessero
  riportato in ciascuna prova scritta la valutazione di almeno 7/10. Con nota del
  28 aprile 1999 del presidente della commissione esaminatrice, la signora
  Giammaria veniva informata di avere ottenuto il
  punteggio di 4/10 per il suo elaborato relativo alla prima prova scritta e di
  6/10 per l’elaborato relativo alla seconda prova scritta e quindi di
  non essere stata ammessa a sostenere la prova orale. L’attuale
  appellante riferiva di avere chiesto in data 15 maggio 1999 accesso alla
  documentazione amministrativa relativa al concorso e di avere constatato che la votazione insufficiente le era stata
  attribuita da una commissione d’esame da lei ritenuta non costituita
  secondo la disciplina prevista dall’art. 37 del Regolamento organico
  del personale del Comune e che, in violazione dell’art. 46 dello stesso
  regolamento, la commissione non aveva provveduto alla previa determinazione
  dei criteri e delle modalità di valutazione delle prove sostenute. Proponeva
  quindi ricorso sub. R.G.N. 469 del 1999 innanzi al T.A.R. per
  l’Abruzzo, sede de L’Aquila, chiedendo
  l’annullamento del provvedimento recante la sua mancata ammissione alle
  prove orali, nonché delle deliberazioni della Giunta Comunale n.565 del 21
  maggio 1998 e n. 979 del 14 luglio 1998, recanti la nomina della commissione
  esaminatrice, nonché degli atti della procedura concorsuale e, segnatamente,
  dei verbali della commissione esaminatrice n. 1 del 30 settembre 1998, n.2
  del 7 ottobre 1998 e n. 8 del 28 aprile 1999. Con il
  ricorso di primo grado venivano dedotte le seguenti
  censure: 1) violazione dell’art. 37 del Regolamento organico del
  Personale in vigore presso il Comune de L’Aquila, degli artt. 1 e 8 del
  bando, per illegittimità della composizione della commissione, in quanto il
  funzionario “esperto” componente della commissione, prescelto tra
  i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, non apparteneva, come invece
  prescritto, alla qualifica funzionale superiore rispetto a quella relativa al
  posto messo a concorso, non essendo un dirigente; 2) violazione
  dell’art. 46 del regolamento non avendo la commissione previamente
  stabilito, nella prima riunione, i criteri di valutazione delle prove
  scritte; 3) eccesso di potere per illogicità manifesta e contraddittorietà. La ricorrente
  concludeva per l’accoglimento del ricorso, con
  ogni consequenziale statuizione in ordine alle spese ed onorari del giudizio;
  si costituivano i controinteressati Elena Sico e Paolo Costanzi, eccependo
  preliminarmente l’inammissibilità del ricorso e chiedendo la sua
  reiezione; non si costituiva il Comune. Con la
  sentenza di primo grado n. 69 depositata in data 5 marzo 2002, l’adito
  Tribunale respingeva il ricorso, prescindendo dall’esame
  dell’eccezione di inammissibilità, ritenendo
  che: a) in ordine al primo motivo, dal certificato rilasciato dal Dirigente
  amministrativo del Comune di Roseto degli Abruzzi, amministrazione di
  appartenenza dell’esperto componente della commissione, depositato in
  data 3 novembre 2001, si evince che la stessa, dott. Rosaria Ciancaione, con
  atti sindacali in data 25 giugno 1998, 11 dicembre 1998 e 9 febbraio 1999, è
  stata nominata Dirigente di Ragioneria ed è tuttora (era) in servizio in
  qualità di dirigente Direttore di ragioneria; gli atti formali di incarico,
  ancorchè non costituenti formali atti di nomina, tuttavia sono idonei a
  supportare la qualità di “esperta” di una Commissione per
  l’esperienza e la capacità professionale acquisite e riconosciute,
  dovendosi quindi ritenere che sostanzialmente l’art. 37 esige garanzie
  sostanziali del soggetto alla sua idoneità a svolgere la funzione di esperto
  nell’ambito della commissione e quindi, avendo la nominata dott.
  Ciancaione effettivamente espletato funzioni dirigenziali, ella abbia l’esperienza
  sostanziale richiesta; b) il secondo motivo era da respingere perché ritenuto
  infondato, in quanto la predeterminazione dei criteri di valutazione delle
  prove (non dei titoli, che risultano nella fattispecie determinati nel
  verbale n. 1 del 30 settembre 1998) di un concorso non può considerarsi
  elemento imprescindibile ai fini della legittimità concorsuale, poiché
  trattasi di attività rimessa alla discrezionalità amministrativa, quando la
  valutazione avvenga mediante l’attribuzione di punteggio numerico, configurandosi
  questo come esternazione della valutazione tecnica compiuta dalla
  Commissione; in sostanza veniva ritenuto sufficiente il voto numerico; c)
  veniva dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, perché pretendeva
  una rivalutazione di merito degli elaborati, riservata alla discrezionalità
  tecnica della commissione e sindacabile solo in termini limitati di manifesta
  irrazionalità ed ingiustizia; venivano compensate le spese. Con
  l’appello proposto r.g.n. 9166 del 2002 l’appellante chiedeva la
  riforma della sentenza appellata, riproponendo anche
  nel presente grado le prime due censure sopra descritte e riferendo le sue
  censure anche alle considerazioni argomentative contenute nella sentenza di
  rigetto. Si sono
  costituiti i signori Costanzi Paolo e Sico Elena, replicando ai motivi
  avversari e chiedendo il rigetto dell’appello. Con ordinanza
  collegiale n. 1170 del 13 marzo 2014  Il Comune provvedeva a tale incombente in data 23 aprile 2014 e
  provvedeva a costituirsi nel presente grado chiedendo il rigetto
  dell’appello. Alla udienza
  pubblica del 9 luglio 2014 la causa veniva decisa. In ordine al secondo
  motivo,  Pertanto,
  differentemente dal primo giudice,  L’ordinanza
  di remissione ritiene che, pur avendo la parte formalmente impugnato gli atti
  della procedura concorsuale chiedendone
  l’annullamento, l’adito giudice amministrativo potrebbe,
  basandosi su una valutazione di tutte le circostanze, mutando d’ufficio
  la domanda, disporre unicamente il risarcimento del danno, senza il previo
  annullamento degli atti illegittimi; in tal senso varrebbero i principi di
  giustizia richiamati dalla sentenza del Consiglio di Stato sezione sesta n.
  2755 del 2011 che, pure in controversia in materia ambientale e in
  applicazione di principi del diritto europeo, ha statuito il potere del
  giudice amministrativo di non disporre l’annullamento dell’atto
  illegittimo, quando nessun vantaggio arrechi al ricorrente né ne derivi alcun
  beneficio agli interessi pubblici; in tale senso varrebbero anche i principi
  di proporzionalità, equità e giustizia, che debbono permeare anche la
  giustizia amministrativa, oltre che l’attività della pubblica
  amministrazione. L’ordinanza
  di rimessione aggiunge che, se l’appellante avesse formulato espressa
  domanda di risarcimento derivante dalla illegittimità
  della procedura concorsuale conclusasi nell’anno 1999, il giudizio
  avrebbe potuto concludersi con l’accoglimento della domanda
  risarcitoria, senza necessità di provvedere all’annullamento degli atti
  impugnati, potendo il giudice “modulare” la tutela, in
  considerazione del danno sociale che deriverebbe da un eventuale annullamento. E’
  vero, osserva l’ordinanza di rimessione, che il lungo tempo trascorso
  non costituisce in sé una giusta ragione per non disporre
  l’annullamento; tuttavia, ciò sarebbe possibile su questioni che
  riguardano le persone fisiche e le loro attività lavorative (si direbbe
  l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 36 Cost.),
  valutando che l’annullamento, mentre sottrarrebbe un bene della vita
  essenziale ad uno o più controinteressati
  incolpevoli, neppure attribuirebbe al ricorrente se non una chance o una mera
  possibilità di rinnovazione procedimentale. A tal fine
  menziona giurisprudenza che legge il comma 3
  dell’art. 34 del cod. proc. amm. – che prevede che “quando nel corso del giudizio,
  l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il
  ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se
  sussiste l’interesse a fini risarcitori” – nel
  senso che non debba esservi una espressa richiesta dell’interessato
  (così Cons. Stato, V, 12 maggio 2011, n.2817) perché vi è sempre un quid di
  accertamento, perché il più comprende il meno, perché la norma utilizza una
  espressione vincolante e quindi la sussistenza dell’interesse può
  essere compiuta d’ufficio anche in assenza di domanda, a fronte di
  contrari precedenti (così Cons. Stato, V, 14 dicembre 2011, n.6539 e 6
  dicembre 2010, n.8550) secondo i quali incombe sempre sulla parte istante
  l’onere di allegare i presupposti per la successiva azione risarcitoria
  (così, Cons. Stato, V, 28 dicembre 2012, n.6703) e quindi di proporre espressamente,
  se pure non formalisticamente ma in sostanza, la domanda di accertamento
  dell’illegittimità o di manifestare un interesse al solo accertamento,
  a successivi fini risarcitori. Alla udienza di
  discussione del 25 marzo 2015 la causa, previa discussione, è stata
  trattenuta in decisione. In sede di
  discussione l’avvocato di parte appellante ha ribadito
  le sue conclusioni e l’interesse della parte assistita
  all’annullamento degli atti impugnati; la difesa dei controinteressati
  ha concluso nel senso che siano condivise le conclusioni proposte dalla
  ordinanza di rimessione. DIRITTO 1. La parte
  ha chiesto e continuato a chiedere l’annullamento degli atti della
  procedura concorsuale, comprensivi del giudizio
  negativo nei suoi confronti e della graduatoria pubblicata; nelle conclusioni
  dell’appello ha espresso tale richiesta di annullamento (“che la sentenza appellata venga annullata o
  quantomeno riformata, disponendosi in accoglimento del ricorso al Tar la
  rinnovazione degli atti della procedura concorsuale con ogni consequenziale
  statuizione anche in ordine al pagamento delle spese del doppio grado di
  giudizio”), chiedendo, come visto, anche, nel petitum, la “rinnovazione” della procedura
  concorsuale; nella memoria depositata in data 8 gennaio 2014, la parte appellante
  afferma che il lungo tempo trascorso dalla proposizione dell’appello
  non ha inciso negativamente sulla posizione, sussistendo ancora interesse
  alla decisione di merito e all’annullamento dei provvedimenti
  impugnati. Tale
  posizione è stata ribadita in sede di udienza di
  discussione. A fronte di detta domanda, l’ordinanza di
  rimessione pone la questione se, ritenuta la fondatezza del gravame, sia dato
  al giudice amministrativo emettere ex
  officio una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento,
  tenuto conto degli effetti particolarmente pregiudizievoli di
  quest’ultimo nei confronti delle altre parti interessate, anche in relazione al tempo trascorso dalla emanazione degli
  atti impugnati. 2. L’Adunanza plenaria ritiene che la tesi
  contenuta nell’ordinanza di rimessione non può essere
  condivisa e ciò: a) sulla base del principio della domanda, che regola
  anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia
  amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità
  – di stretta interpretazione – di tipo oggettivo; c) per la non
  mutabilità ex officio del
  giudizio di annullamento una volta azionato; d) per la non pertinenza degli
  argomenti e dei precedenti richiamati. 3. Con riguardo agli argomenti testuali, vale
  quanto previsto dal codice del processo amministrativo e, in virtù del rinvio
  esterno ai sensi dell’art. 39 cod. proc. amm.,
  anche quanto prevede il codice di procedura civile. L’articolo 29 c.p.a.,
  proseguendo nella tradizione delle precedenti leggi processuali (T.U.
  Consiglio di Stato e legge TAR), dispone che la sanzione per i vizi di
  violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia
  l’annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel
  termine di sessanta giorni. L’illegittimità determina
  l’annullabilità (in potenza); l’azione di annullamento determina,
  su pronuncia del giudice, l’annullamento (in atto) degli atti impugnati. In caso di accoglimento del ricorso di
  annullamento (art. 34, comma 1, c.p.a. lettera a) il
  giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento
  impugnato. A sua volta l’art. 34
  esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione
  all’ambito della domanda di parte; si tratta, nel caso della
  giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione
  di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo
  oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per
  esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione
  sostitutiva dell’interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza
  o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali
  quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie
  in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli
  effetti della inefficacia del contratto). Del resto la regola secondo la quale nel processo
  amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto
  quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo, è
  stata ribadita dalle pronunce di questa stessa Adunanza plenaria n. 4 del 7
  aprile 2011 e n. 30 del 26 luglio 2012. 4. Ora, proprio in virtù di detto principio della
  domanda. non può ammettersi che in presenza di un
  atto illegittimo (causa petendi)
  per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne
  l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex
  officio del giudice. L’azione di annullamento si distingue,
  infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda, in quanto nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella
  seconda è l’illiceità del fatto; il petitum
  nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti
  impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma
  generica o specifica. Inoltre il risarcimento è disposto su “ordine” del giudice ed è
  diretto a restaurare la legalità violata dell’ordinamento, costituendo
  una situazione quanto più possibile pari o equivalente (monetariamente) o il
  più possibile identica a quella che ci sarebbe stata in assenza del fatto
  illecito; l’annullamento invece è una restaurazione dell’ordine
  violato “ad opera”
  del giudice. Al massimo, il giudice può non già “modulare” la forma di tutela
  sostituendola a quella richiesta, ma determinare, in
  relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del
  ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla
  prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale, “nella parte in cui prevede” o
  “non prevede“,
  oppure “nei limiti di interesse
  del ricorrente” e così via. Se poi la domanda di annullamento, con il suo
  effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico
  non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse
  lederlo (in realtà l’ordinanza di rimessione riconosce che non si verte
  in tale ipotesi), la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di
  accertamento, ma nell’altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto
  domanda di annullamento. Cosa diversa
  dall’accertamento del sopravvenuto difetto di interesse
  è, come proporrebbe invece l’ordinanza di rimessione, che sia il
  giudice ex officio a
  preferire la forma di tutela, facendo recedere l’interesse, a suo dire,
  indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di interessi (gli
  interessi dei controinteressati, l’interesse pubblico, il tempo,
  l’opportunità e così via). E’ vero
  che la pronuncia di improcedibilità del ricorso per
  sopravvenuta carenza di interesse è basata sull’accertamento della
  esistenza delle condizioni per l’adozione della decisione
  giurisdizionale domandata dal ricorrente a tutela di una concreta situazione
  giuridica di vantaggio, accertamento che deve essere compiuto dal giudice,
  anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (tra varie, Cons. Stato,
  IV, 22 marzo 2007, n.1407). Non è però
  consentito al giudice, in presenza della acclarata,
  obiettiva esistenza dell’interesse all’annullamento richiesto,
  derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità,
  proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa
  pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall’art. 99 c.p.c.
  e del principio della corrispondenza previsto dall’art. 112 c.p.c. tra
  chiesto e pronunciato secondo cui “il
  giudice deve pronunciare su tutta ladomanda e non oltre i limiti di essa”,
  applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 cod. proc.
  amm. anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti
  nel vizio di extrapetizione. Non può
  neppure valere il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione, al
  c.d. principio di continenza, in quanto, se è vero che l’accertamento è
  compreso nell’annullamento (il più comprende il meno),
  l’accertamento a fini risarcitori è qualcosa di più o comunque di
  diverso dalla domanda di annullamento. 5. Nella
  specie ad opinione del Collegio deve ritenersi
  persistente tale interesse all’annullamento, nella forma di interesse
  strumentale (su tale nozione Ad. Pl. n. 11 del 10 novembre 2008) ad ottenere
  la rinnovazione della procedura concorsuale, sia perché tale persistenza è
  stata manifestamente ribadita nella memoria del gennaio 2014
  dell’appellante e in sede di discussione orale, sia perché, in esito
  del motivo di appello ritenuto fondato e per incidenza degli effetti del suo
  accoglimento sull’intero procedimento, per la ritenuta esigenza di
  predeterminazione dei criteri di valutazione degli esami, non può non procedersi
  alla rinnovazione dell’attività viziata (contemperando con il principio
  dell’utile per inutile non
  vitiatur). Non rileva, a
  tal fine, il tempo trascorso. Infatti la durata
  occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e
  inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che
  ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, se non a costo di infliggergli un
  doppio danno (sul principio del diritto al giusto processo in tempi
  ragionevoli, si veda l’art. 6 CEDU e, in campo nazionale, la legge c.d.
  Pinto n. 89 del 24 marzo 2001, sulla durata ragionevole dei giudizi). Non rileva,
  d’altro canto, neppure l’utilità più o meno
  ampia, che l’appellante possa ricevere da un eventuale annullamento, né
  possono avere rilievo le ragioni di inopportunità, in tale sede e fase, per i
  disagi causati ai controinteressati incolpevoli o la valutazione preminente
  dell’interesse pubblico, il quale coincide, in tale momento, con
  l’annullamento degli atti illegittimi impugnati. 7. Non sono d’altra parte di ausilio alla soluzione
  prospettata dall’ordinanza di rimessione i precedenti giurisprudenziali
  da essa menzionati. Quanto alla
  sentenza della VI Sezione n. 2755 del 2011, essa ha riconosciuto la potestà
  del giudice amministrativo, in presenza di
  determinati presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, di
  fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia
  di annullamento. Si tratta, dunque, di una questione ben diversa da quella
  posta nella presente fattispecie, nella quale, come si è più volte rimarcato,
  si controverte sulla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in
  giudizio. Ugualmente
  non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla
  possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al
  mero accertamento. Al di là della
  considerazione che tale potere di ufficio di accertare l’illegittimità
  a soli fini risarcitori non è del tutto pacifico (l’ordinanza di
  rimessione cita anche giurisprudenza più rigorosa sul punto), esso va
  necessariamente coniugato, se viene spiegata azione risarcitoria in quella
  sede (anche se in vero, essa potrebbe solo essere annunciata e proposta in
  sede successiva), con il principio dispositivo in ordine alla proposizione
  della domanda di risarcimento, sicchè la parte attrice deve sempre provarne
  gli elementi costitutivi (artt. 2043 e 2697 cod civ.). Soprattutto,
  le pronunce richiamate riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la
  domanda. Esse
  ritengono che ope iudicis
  si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la
  parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda
  espressamente. Tali pronunce
  si riferiscono alla situazione in cui, accertata in modo incontestabile, per
  mutamenti di fatto o di diritto la sopravvenuta carenza
  di interesse, si debba decidere se, per la pronuncia di mero accertamento,
  sia necessaria oppure no una apposita istanza della parte. Tali
  pronunce, come visto, tuttavia non incidono né sulla esigenza
  di previamente accertare se tale interesse a ricorrere o bisogno di tutela
  giurisdizionale (Rechtsschutzbedürfnis)
  continui a persistere anche dopo molto tempo, né sul potere, tipico del
  processo dispositivo, della parte di decidere, essa soltanto, e non il giudice
  di ufficio, se proseguire nella richiesta di annullamento di atti illegittimi
  sia pure a distanza di tempo, vantando ancora un meritevole bene della vita. 8. La
  modificazione degli effetti della domanda di
  annullamento non può essere neanche giustificata con il richiamo alla
  disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (l’art. 264 del
  Trattato). L’art. 1 del c.p.a. afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela
  piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto
  europeo”, ma ciò avviene sulla base della specifica
  disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi
  applicazione alle regole processuali comunitarie. Non si
  tratterebbe qui di recepire principi del diritto
  comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità,
  l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il
  contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il
  giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. La
  problematica della limitazione degli effetti dell’annullamento, sorta e
  applicata in via eccezionale in quella sede soprattutto per i regolamenti,
  non è sufficiente a portare ad un parallelo con la
  giustizia amministrativa italiana, trattandosi di modelli giurisdizionali del
  tutto differenti (basti pensare alla serie di atti scrutinati dalla Corte di
  Giustizia, che possono essere atti del Parlamento piuttosto che della
  Commissione europea, della BCE, del Consiglio). Per completezza, si osserva che tale problematica, a prescindere
  dalle regole codicistiche, è stata affrontata in quel sistema dal Conseil
  d’Etat francese (Conseil d’Etat, 11 maggio 2004, Association AC),
  che ha fatto riferimento alle conseguenze manifestamente eccessive, ma
  limitando il potere officioso del giudice in casi del tutto eccezionali
  “à titre exceptionnel”
  e solo nei casi di atti di tale importanza da mettere in crisi il sistema di
  un settore dell’ordinamento, quindi tenendo conto degli effetti della
  “securité juridique”. 9. Ai sensi
  dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza
  Plenaria del Consiglio di Stato, investita della questione sopra esposta, in
  omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di
  regola decide la controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori
  esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti (così Consiglio di
  Stato, ad. Plen. 13 giugno 2012, n.22). D’altra
  parte, la questione sollevata dalla Sezione remittente di eventualmente non
  annullare per le ragioni sopra esposte, pur non rappresentata alla udienza precedente alle parti ai sensi
  dell’art. 73 comma 3, ove ritenuta questione “rilevata d’ufficio”
  perché riguardante gli eventuali poteri officiosi del giudice, è stata
  compiutamente rappresentata con la ordinanza di deferimento e quindi adeguatamente
  trattata dalle varie parti in sede di discussione dinanzi a questa Adunanza
  Plenaria. Avendo  Ritenendo
  pertanto di decidere nel merito la controversia sottoposta all’esame,
  sulla base delle sopra esposte considerazioni, va accolto l’appello
  proposto dall’appellante e, in riforma della sentenza appellata, va
  accolto il ricorso originario, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione,
  con la enunciazione del seguente principio di diritto:
  “Sulla base del principio della
  domanda che regola il processo amministrativo, il giudice amministrativo,
  ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare
  l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti
  illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia
  formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale
  persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi
  pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso
  dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in
  tutto o in parte, della procedura esperita”. La
  particolare complessità della vicenda, la sua risalenza nel tempo rispetto
  all’affermazione giurisprudenziale in modo chiaro della regola
  dell’esigenza della predeterminazione dei criteri delle prove rispetto alla amministrazione comunale e la mancanza di
  qualsivoglia imputabilità di comportamento in capo ai controinteressati
  (seppure essi fossero, naturalmente, a conoscenza della impugnativa del
  concorso già dalla proposizione avvenuta nel corso dell’anno 1999),
  giustificano la compensazione totale delle spese del doppio grado di
  giudizio. P.Q.M. Il Consiglio
  di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente
  pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,
  lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e, in conseguenza, in riforma
  dell’appellata sentenza, accoglie il ricorso originario ai sensi e nei
  limiti di cui in motivazione, annullando gli atti impugnati. Spese del
  doppio grado compensate. Ordina che la
  presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso
  in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2015 con
  l’intervento dei magistrati: DEPOSITATA IN
  SEGRETERIA il 13/04/2015. 
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