Aggiornamento - Amministrativo |
CONSIGLIO DI STATO,
ADUNANZA PLENARIA - sentenza 23 marzo 2011 n. 3 sul superamento della
pregiudizialità amministrativa e sul regime del risarcimento danni a seguito
del C.P:A. FATTO Il Fallimento della società
s.r.l. Rem, appaltatrice da lungo tempo dei lavori di realizzazione e
manutenzione di opere ed impianti elettrici per conto dell’Enel, espone
che durante l’esecuzione dei lavori di potenziamento di linea elettrica
di cui al contratto di appalto del 21 settembre 1998 si era verificato un
incidente mortale a danno di un proprio dipendente, a seguito del quale
l’Enel, al quale il sinistro era addebitabile, le aveva comminato, con
determinazione della Direzione Distribuzione Campania in data 30 settembre
1999, la sospensione degli inviti a gare d’appalto nell’intero
ambito territoriale di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal
1° ottobre 1999. Con atto di citazione
notificato il 6 maggio 2002 la società Rem conveniva l’Enel davanti al
Tribunale civile di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni cagionati
dalla disposta esclusione dalle gare d’appalto. Con sentenza n. 6221
del 25 maggio 2004 il Tribunale dichiarava la propria carenza di
giurisdizione in ragione della riconducibilità della res litigiosa
alla sfera di cognizione del Giudice amministrativo. Il Fallimento Rem
proponeva, quindi, ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale
della Campania con il quale chiedeva l’annullamento
dell’illegittima determinazione dell’Enel ed il risarcimento dei
danni cagionati da detto provvedimento. Con la sentenza impugnata
il Giudice di prime cure ha dichiarato irricevibile la domanda di
annullamento del provvedimento, in quanto proposta, anche a considerare come dies
a quo la data dell’atto di citazione davanti al Tribunale civile,
ad oltre due anni di distanza e ha negato l’errore scusabile facendo
leva sul rilievo che il ricorso al Tribunale Amministrativo è stato proposto
a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione della sentenza declinatoria
della giurisdizione civile. Il Giudice di primo grado
ha, poi, respinto la domanda risarcitoria tracciando una parabola
argomentativa nel corso della quale ha riconosciuto che la pretesa
risarcitoria può essere azionata indipendentemente dalla previa impugnazione
dell’atto illegittimo ma ha ritenuto che la mancata reazione al
provvedimento lesivo si fosse nella specie risolta in una sostanziale
acquiescenza del danneggiato, configurando una condotta omissiva apprezzabile
alla stregua dell’art. 1227 del codice civile. Con l’atto di appello
il Fallimento ha chiesto la riforma di detta sentenza sostenendo che, con
riguardo ad una controversia attribuita alla giurisdizione esclusiva, ratione
materiae, del giudice amministrativo, non opera il regime decadenziale
proprio della giurisdizione di legittimità; e che, comunque, le oscillazioni
registratesi in sede giurisprudenziale in ordine al riparto della
giurisdizione avrebbero giustificano l’applicazione dell’istituto
dell’errore scusabile ingiustamente negata dal Tribunale. L’appellante ha poi
contestato che la mancata impugnazione del provvedimento amministrativo possa
costituire fattore ostativo alla favorevole valutazione della domanda
risarcitoria. In particolare, parte
ricorrente ha osservato che, a fronte dell’integrazione di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art.
2043 c.c., l’eventuale acquiescenza addebitabile al danneggiato può al
più comportare, ai sensi dell’art. 1227, capoverso, del codice civile,
una diminuzione dell’importo del risarcimento, ma non può escluderlo in
via integrale come erroneamente ritenuto dal Tribunale. Si è costituita
l’Enel Distribuzione s.p.a., la quale, dopo aver rappresentato, in
fatto, che la sentenza del Tribunale di Salerno citata dalla controparte ha
accertato gravi infrazioni alle norme di sicurezza anche da parte dei
dipendenti della società Rem, tali da assumere ruolo di concausa nella
dinamica dell’incidente mortale, ha contrastato, in punto di diritto,
tutte le pretese avversarie chiedendo il rigetto dell’appello. Con la decisione parziale
n. 2436/2009 la VI Sezione di questo Consiglio, ribadita la sussistenza della
giurisdizione del giudice amministrativo, ha confermato la statuizione di
irricevibilità della domanda impugnatoria proposta con il ricorso di prime
cure. In ordine alla domanda
risarcitoria riproposta in appello, la Sezione, ravvisando la sussistenza di
un contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto, di particolare
importanza, relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e iniziativa
risarcitoria, ha rimesso la decisione della controversia all’Adunanza
plenaria, ai sensi dell’art. 45, comma 2, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054,
come sostituito dall’art. 5 legge 21 dicembre 1950, n. 1018 (oggi art.
99 del codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104). Le parti hanno, quindi,
depositato memorie con le quali hanno ulteriormente illustrato le rispettive
tesi difensive. All’odierna udienza
la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO 1. La Sezione rimettente
sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria la questione relativa ai
rapporti tra domanda di annullamento e domanda di risarcimento con riguardo
ad una fattispecie nella quale viene chiesto il ristoro dei danni cagionati
da un provvedimento di sospensione dalle gare non impugnato nel termine
decadenziale. 2. E’ noto che, con
la storica sentenza 22 luglio 1999, n. 500, le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione hanno riconosciuto l’ammissibilità della tutela risarcitoria
degli interessi legittimi. L’art. 7 della legge
21 luglio 2000, n. 205, nel novellare l’art. 7, comma 3, della legge 6
dicembre 1971, n. In questo quadro,
l’elaborazione delle condizioni, processuali e sostanziali, che
governano la tutela risarcitoria degli interessi legittimi è stata al centro
di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale. E’ stato, in
particolare, oggetto di approfondita analisi il tema della pregiudizialità
della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno. 2.1. A favore della tesi
dell’autonomia delle due azioni si è pronunciata la Cassazione a
Sezioni unite la quale, con ordinanze nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006
rese in sede di regolamento di giurisdizione, ha affermato che la domanda di
risarcimento può essere proposta innanzi al giudice amministrativo anche in
difetto della previa domanda di annullamento dell’atto lesivo, per cui
una declaratoria di inammissibilità della domanda risarcitoria motivata solo
in ragione della mancata previa impugnazione dell’atto, concretizza
diniego della giurisdizione sindacabile da parte della Corte di cassazione ex
artt. 360, comma 1, n. 1 e 362 c.p.c.. Siffatta conclusione è
stata ribadita dalla Sezioni Unite con le sentenze 23 dicembre 2008, n.
30254, 6 settembre 2010, n. 19048, 16 dicembre 2010, n. 23595 e 11 gennaio
2011, n. 405. Detta ultima pronuncia ha peraltro puntualizzato che il diniego
di giurisdizione che consente il sindacato della Cassazione è riscontrabile
nelle sole ipotesi in cui il Consiglio di Stato neghi la tutela risarcitoria
per il solo fatto della mancata impugnazione del provvedimento amministrativo
e non anche in quelle in cui il Giudice amministrativo pervenga ad una
pronuncia sfavorevole di merito in ragione della valutazione in ordine
all’assenza, in concreto, dei presupposti sostanziali all’uopo
necessari (nel caso di specie il Consiglio di Stato non aveva ravvisato
l’illegittimità della statuizione amministrativa asseritamene
produttiva del danno). 2.2. Con la decisione
dell’Adunanza plenaria 22 ottobre 2007, n. 12 questo Consiglio di Stato
ha, invece, confermato il principio della pregiudizialità della domanda di
annullamento rispetto alla tutela risarcitoria, già espresso
dall’Adunanza plenaria con la decisione n. 4 del 2003. La decisione di rimessione
ha puntualmente riepilogato gli argomenti posti a sostegno del permanere
della pregiudizialità sulla base dei seguenti punti, relativi: - alla stessa struttura del
processo amministrativo e alla tutela in esso erogabile, dove, in armonia con
gli artt. 103 e 113, co. 3, Cost., sia nella giurisdizione di legittimità,
che in quella esclusiva, viene in considerazione in via primaria la tutela
demolitoria e solo in via consequenziale ed eventuale quella risarcitoria,
come inequivocabilmente stabilito dall’art. 35, co.1, 4 e 5, d.lgs. n.
80 del 1998; - alla cosiddetta
presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e della connessa
efficacia ed esecutorietà, che si consolida in caso di omessa impugnazione o
di annullamento d’ufficio (v. legge 11 febbraio 2005, n. 15); - all’articolazione
della tutela sopra ricordata che, in entrambi i casi, concerne la stessa
illegittimità del provvedimento, con la conseguenza che il danno ingiusto non
può essere configurato a fronte di un’illegittimità del provvedimento
che, per l’assolutezza della cennata presunzione è, de jure,
irreclamabile; - all’assenza della
condizione essenziale dell’ingiustizia del danno, impedita dalla persistenza
di un provvedimento inoppugnabile (o inutilmente impugnato); - alla concreta equivalenza
del giudicato che, rilevando l’inesistenza dell’appena ricordata
condizione, dichiari l’improponibilità della domanda con il giudicato
che, pronunciandosi nel merito, dichiari infondata - e questa volta con
pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 cod.proc.civ.-
la domanda per difetto della denunziata illegittimità; - ai limiti del potere
regolatore della Corte di Cassazione (Sez. un., 19 gennaio 2007, n. 1139; 4
gennaio 2007, n. 13) che, secondo il correlato avvertimento della Corte
Costituzionale (sent. 12 marzo 2007, n. 77), “con la sua pronuncia può
soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il
Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la
controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al
contenuto (di merito o di rito) di tale decisione”. Ad analogo
principio, prosegue la Corte, “si ispira l’art. 386 c.p.c.
applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, co.1,
c.p.c., disponendo che la decisione sulla giurisdizione è determinata
dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non
pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità
della domanda”; - alla correlata verifica
degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte di Cassazione secondo
cui l’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa
agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario
di disapplicarlo. Secondo tale approccio
interpretativo, l’applicazione del principio della pregiudizialità
processuale conduce alla soluzione, in rito, dell’inammissibilità della
domanda risarcitoria non accompagnata o preceduta dalla sperimentazione del
rimedio impugnatorio entro il prescritto termine decadenziale di sessanta
giorni dalla piena conoscenza del provvedimento illegittimo foriero
dell’effetto lesivo. 3. Va, a questo punto,
osservato che sui termini del dibattito è destinata ad incidere, a regime, la
disciplina dettata dal codice del processo amministrativo di cui
all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, entrato in
vigore il 16 settembre 2010 (art. 2). L’art. 30 del codice
ha infatti previsto, ai fini che qui rilevano, che l’azione di condanna
al risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma (comma 1) entro
il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il
fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno
deriva direttamente da questo (comma 3, primo periodo). La norma, da leggere in
combinazione con il disposto del comma 4 dell'art. 7 – il cui inciso
finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto
il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali
consequenziali siano introdotte in via autonoma - sancisce, dunque,
l’autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento
rispetto al rimedio impugnatorio. Detta autonomia è confermata,
per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che considera il
giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice
amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente
avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento; e, per altro
verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l’accertamento
dell’illegittimità a fini meramente risarcitori allorquando la
pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il
ricorrente. Questo reticolo di norme
consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi
sistemi di tutela, con l'affrancazione del modello risarcitorio dalla logica
della necessaria "ancillarità" e “sussidiarietà”
rispetto al paradigma caducatorio. 3.1. Il riconoscimento
dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si
inserisce - in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia
di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati
dall’art. 1 del codice oltre che dei criteri di delega fissati
dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - in un ordito normativo
che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato
dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela
dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio
della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di
annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art.
30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità del provvedimento
amministrativo ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di
silenzio-inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (cd. azione
di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo
accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio (art. 31, commi da Deve, inoltre, rilevarsi
che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto
esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e
sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità
amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere
l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile
dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione
di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti
(sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di
accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si
stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di
misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr.,
già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15
aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717). In definitiva, il disegno
codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art.
44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. Di qui, la trasformazione
del giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga l’ostacolo dato
dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica
amministrazione, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne
la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con
salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto
regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa
sostanziale azionata. Alla stregua di tale
dilatazione delle tecniche di protezione, viene confermata e potenziata la
dimensione sostanziale dell’ interesse legittimo in una con la
centralità che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione
soggettiva. Come osservato dalle
Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo
non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di
legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né
si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione
amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente
sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse
materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di
sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse
oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio. L'interesse legittimo va,
quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in
relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere
pubblicistico, che si compendia nell'attribuzione a tale soggetto di poteri
idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere
possibile la realizzazione o la difesa dell'interesse al bene. Anche nei riguardi della
situazione di interesse legittimo, l'interesse effettivo che l'ordinamento
intende proteggere è quindi sempre l'interesse ad un bene della vita che
l’ordinamento, sulla base di scelte costituzionalmente orientate
confluite nel disegno codicistico, protegge con tecniche di tutela e forme di
protezione non più limitate alla demolizione del provvedimento ma miranti,
ove possibile, alla soddisfazione completa della pretesa sostanziale. In questo quadro normativo,
sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse
legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, risulta
coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro
patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del
provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione
impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo
rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con
chiarezza superato. L’autonomia
dell’azione si apprezza, con argomento a contrario, se si rileva
che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30,
salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo
(segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti
soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle
domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e
seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad
altra azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia
che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile
se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di
annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex
art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma
rispetto al rimedio caducatorio. 3.2. Va, peraltro,
osservato che il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di
rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza
eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di
escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo
ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva
reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso. L'art. 30, comma 3, del
codice dispone, infatti, al secondo periodo, stabilisce che, nel determinare
il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e
il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”. La disposizione, pur non
evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del
codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela
previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti,
dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di
solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno
evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede
l'omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da
considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e
consistenza del pregiudizio risarcibile. Operando una ricognizione
dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di
auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola
secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od
omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della
diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati
evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità
relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non”
: Cass., sezioni unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n.
6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi
dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle
conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul
versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come
fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di
tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle
posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti
dannosi. Va aggiunto che la latitudine
del generale riferimento ai mezzi di tutela e al comportamento complessivo
consente di soppesare l’ipotetica incidenza eziologica non solo della
mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa
attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali
la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa
finalizzati alla stimolazione dell’ autotutela amministrativa (cd. invito
all’autotutela). Va, del pari, apprezzata
l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non
eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla
vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui
all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2
Cost. La rilevanza sostanziale
delle condotte negligenti, eziologicamente pregnanti, è confermata anche
dall’art. 124 del codice del processo amministrativo e dell’art.
243 bis del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12
aprile 2006, n. 163. La prima disposizione
sancisce, al comma 2, questa volta recando un riferimento esplicito alla
normativa civilistica, che “la condotta processuale della parte che,
senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma Inoltre, l’art. 243
bis del codice dei contratti pubblici, aggiunto dall’art. 6 del decreto
legislativo 20 marzo 2010, n. 53, come modificato dall’art. 3
dell’ allegato 4 allo stesso decreto legislativo n. 104/2010, nel
disciplinare l’istituto dell’informativa in ordine
all’intento di proporre ricorso giurisdizionale, stabilisce, al comma
5, che l’omissione della comunicazione di cui al comma 1, finalizzata
alla stimolazione dell’autotutela, costituisce comportamento valutabile
ai sensi dell’art. 1227 del codice civile. Dall’esame coordinato
delle richiamate disposizioni si evince che il legislatore, se da un lato non
ha recepito il modello della pregiudizialità processuale della domanda di
annullamento rispetto a quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di
apprezzare la rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che
abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti
dannosi. In tal modo il codice ha
suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici
registratisi in subiecta materia tra le due giurisdizioni e, in parte,
anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in definitiva, ha mostrato
di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale
al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una
soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento
di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto
da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per
escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento. E tanto sulla scorta di una
soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità,
della domanda avente ad oggetto danni che l’impugnazione, se proposta
nel termine di decadenza, avrebbe consentito di scongiurare. 4. L’Adunanza
Plenaria, consapevole dell’inapplicabilità delle norme del codice,
entrato in vigore il 16 settembre 2010, ad una fattispecie ed ad un giudizio
risalenti ad epoca anteriore, reputa, tuttavia, che la disciplina ora
analizzata, nella parte che rileva ai fini della risoluzione della presente
controversia, pervenga ad una soluzione convincente delle divergenze
interpretative, estensibile a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di
principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in
vigore del codice. Reputa, infatti, questo
Consiglio che entrambi i principi affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010
– quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e
quello dell’operatività di una connessione sostanziale di tipo causale
tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria – fossero ricavabili
anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del
codice. 5. La mancanza di una
pregiudizialità di stretto rito è desumibile dalla ricordata autonomia, sul
piano dell’oggetto e dell’effetto, dell’iniziativa
impugnatoria rispetto al rimedio risarcitorio, tale da escludere che, per
definizione e in astratto, una sentenza che condanni al risarcimento del
danno cagionato dal provvedimento si risolva nella caducazione degli effetti
dell’atto e, quindi, in una non ammissibile elusione del termine
decadenziale, con frustrazione dell’esigenza di certezza dei rapporti
giuridici amministrativi perseguita dalla previsione di detto termine. Si consideri poi, a
conferma della diversità e della non automatica sovrapponibilità delle regole
di validità del provvedimento rispetto a quelle di liceità del fatto, che il
danno non è di norma cagionato dal provvedimento in sé inteso ma da un fatto,
ossia da un comportamento, in seno al quale rilevano anche le condotte
precedenti e successive all’atto. In caso di fatto illecito non viene
allora in rilievo una mera illegittimità del provvedimento in sé ma
un’illiceità della condotta complessiva riguardo alla quale assume
rilievo centrale il giudizio sintetico-comparativo di valore
sull’ingiustizia del danno nonché la valutazione della rimproverabilità
soggettiva del contegno. In definitiva,
nell’ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla liceità
dell’agere amministrativo, l’omessa impugnazione del provvedimento
non può essere adeguatamente affrontata in termini processuali come
condizione di ammissibilità della domanda per via dell’estensione
analogica di un termine decadenziale previsto per l’impugnazione,
termine per sua natura eccezionale e, quindi, sottoposto al rispetto di un
canone di stretta interpretazione. Di tanto è consapevole lo stesso
legislatore che, proprio nell’assunto della non estensibilità del
termine decadenziale che governa il rimedio impugnatorio ad una domanda che
ha un diverso oggetto e mira a produrre un diverso effetto, ha previsto, per
il futuro, un autonomo termine decadenziale per l’actio damni
proposta a tutela di interessi legittimi, pari a centoventi giorni, a fronte
del temine di prescrizione quinquennale sancito, in via generale, per i fatti
illeciti, dall’art. 2947 c.c. La mancata operatività di
una pregiudizialità processuale si coniuga con gli arresti della prevalente
giurisprudenza comunitaria che considerano la domanda di annullamento e
quella di risarcimento rimedi autonomi pur se escludono la favorevole
valutazione della domanda risarcitoria quando essa mascheri un’ormai
tardiva azione di annullamento, così come negano la risarcibilità dei danni
che sarebbero stati evitati con la tempestiva impugnazione (Corte Giust. 28
aprile La soluzione adottata dal
diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia, nel senso dell’autonomia processuale delle due tecniche di
protezione, assume un rilievo pregnante nel nostro ordinamento alla luce
dell’art. 1 del codice del processo amministrativo che richiama
espressamente i principi della Costituzione e del diritto europeo volti ad
assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva. La soluzione è suffragata
anche dall’evoluzione della legislazione nazionale - registratasi già
prima dal codice del processo amministrativo e da questo armonicamente
portata a compimento - in ordine alle tecniche di tutela dell’interesse
legittimo ed al sistema delle invalidità nel diritto amministrativo. La tesi della necessaria
subordinazione della tutela risarcitoria alla tutela di annullamento è,
infatti, non in linea con la tendenza legislativa a superare il modello
dell’esclusività della tutela impugnatoria con la conseguente
ammissione di tecniche di tutela dell’interesse legittimo anche
dichiarative (art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241/1990,
in materia di azione di nullità) e di condanna (art 2, comma 8, di tale legge
e art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. Si deve, in particolare,
osservare, a conferma del superamento della centralità della tutela di
annullamento ove siano percorribili altre e più appropriate forme di tutela,
che l’art. 21 octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n.
241, introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. Sullo stesso solco si pone
il citato art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo-
richiamato, nel rito dei contratti pubblici, dall’art. 125, comma 3- ,
il quale stabilisce che “quando nel corso del giudizio l’annullamento
del provvedimento non risulti più utile per il ricorrente il giudice accerta
l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse a fini
risarcitori”. La diposizione consente che
un’azione costitutiva di annullamento, non più supportata dal necessario
interesse, sia convertita in un’azione meramente dichiarativa di
accertamento dell’illegittimità, da far valere in un (anche successivo)
giudizio di risarcimento. Si recepisce, in sostanza,
l’indirizzo ermeneutico, già tracciato da questo Consiglio (sez. V, 16
giugno 2009, n. 3849), secondo cui, a fronte della domanda di annullamento
inidonea a soddisfare l’interesse in forma specifica (nella specie
veniva in considerazione un provvedimento di espropriazione relativo ad aree
non più restituibili in quanto irreversibilmente trasformate), la pronuncia -
nel caso in parola motivata con riguardo alla regula iuris sottesa
agli artt. 2058 e 2933 c.c. - deve limitarsi ad un accertamento
dell'illegittimità, senza esito di annullamento, ai soli fini della tutela risarcitoria
invocabile con riguardo agli eventuali danni patiti per effetto
dell'esecuzione del provvedimento impugnato. Va, da ultimo, osservato
che l’autonomia del mezzo impugnatorio quale strumento idoneo a
soddisfare in modo adeguato la pretesa azionata anche in caso di preclusione
della tutela di di annullamento, è stata di recente ribadita dalla Corte
Costituzionale con la sentenza 11 febbraio 2011, n. 49, che ha respinto la
questione di legittimità costituzionale sollevata, rispetto ai parametri di cui
agli art. 2, 24, 103 e 113 della Costituzione, nei confronti dell’art.
2, commi 1, lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge 19
agosto 2003, n. 220, convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella
parte in cui detta una normativa che riserva al giudice sportivo la
cognizione delle controversie relative alle sanzioni disciplinari non
tecniche inflitte ad atleti, tesserati associazioni e società sportive,
sottraendola al giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su
diritti ed interessi legittimi. Al par. 4.5. della
motivazione, la sentenza della Consulta ha posto a fondamento della
statuizione di rigetto il rilievo che la mancata praticabilità della tutela
impugnatoria non toglie che le situazioni di diritto soggettivo o di interesse
legittimo siano adeguatamente tutelabili innanzi al giudice amministrativo,
munito oltretutto di giurisdizione esclusiva in subiecta materia,
mediante la tutela risarcitoria. Si supera così
l’impostazione tradizionale che vedeva l’annullamento quale sanzione
indefettibile a fronte del riscontro di un vizio di legittimità, dandosi vita
ad un sistema delle tutele duttile, che consente un accertamento non
costitutivo dell’illegittimità, a fini risarcitori. In definitiva,
l’evoluzione del diritto amministrativo, già nel sistema normativo
anteriore al codice del processo amministrativo, si è orientata in senso
opposto alla praticabilità di una soluzione rigidamente processuale che
imponga la proposizione del ricorso di annullamento quale condizione per accedere
alla tutela risarcitoria anche quando la sentenza costitutiva non sia, o non
sia più, necessaria ed utile per soddisfare l’interesse sostanziale al
bene della vita. 6. La soluzione esposta si
pone in linea di continuità con il più recente orientamento interpretativo di
questo Consiglio (sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3059; sez. V, 3 febbraio 2009,
n. 578; sez. VI, 21 aprile 2009, n. 24363; sez V, 3 novembre 2010, n. 7766),
che ha spostato l’indagine sul rapporto tra azione di danno e domanda
di annullamento dal terreno processuale al piano sostanziale, pervenendo alla
condivisibile conclusione che la mancata promozione della domanda
impugnatoria non pone un problema di ammissibilità dell’actio damni ma
è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria. L’Adunanza Plenaria,
sviluppando queste coordinate ermeneutiche alla luce dei principi ricavabili
anche dal sopravvenuto codice del processo amministrativo, reputa che
l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere svolto, piuttosto che
sul piano dell’ingiustizia del danno valorizzato dalle pronunce in
esame, su quello della causalità. Detta indagine consente, in
modo più appropriato, di introdurre il necessario temperamento
all’autonomia processuale delle tutele cogliendo la dipendenza sostanziale,
come fatto da apprezzare in concreto, tra rimedio impugnatorio e azione
risarcitoria. In questo quadro, le
esigenze di preservazione della stabilità dei rapporti pubblicistici e di
prevenzione di comportamenti opportunistici, perseguite dalla giurisprudenza
anche di questa Adunanza Plenaria con l’affermazione del principio
della pregiudizialità ed evidenziate in modo puntuale nell’ordinanza di
rimessione, possono allora essere soddisfatte, in modo più convincente, con
l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti del codice
civile in materia di causalità giuridica. 7. Assume rilievo, in
particolare, il più volte citato disposto dell’art. 1227, comma 2, del
codice civile - norma applicabile anche in materia aquiliana per effetto del
rinvio operato dall’art. 2056 - che, dando seguito ad un principio già
affermato dalla dottrina francese ottocentesca, considera non risarcibili i
danni evitabili con un comportamento diligente del danneggiato. L’Adunanza,
riprendendo le indicazioni già in precedenza fornite, reputa che la regola
della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del
provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di
tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30,
comma 3, del codice del processo amministrativo, sia ricognitiva di principi
già evincibili alla stregua di un’ interpretazione evolutiva del
capoverso dell’articolo 1227 cit. 7.1. Come è noto, le regole
di cui al primo e al secondo comma dell’art. 1227 disciplinano i due
diversi segmenti del nesso causale in materia di illecito civile. In particolare, il comma Il comma 2, invece,
operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223
c.c, regola il secondo stadio della causalità (c.d. causalità giuridica),
relativo al nesso tra danno-evento (o evento-inadempimento contrattuale) alle
conseguenze dannose da esso derivanti. In questo quadro la norma
introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del
quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito
se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo
correttezza. Si vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante
dall'inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta conseguenza
dell'altrui colpa. Sul piano teleologico, la
prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei
rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici che
intendano trarre occasione di lucro da situazioni che hanno leso in modo
marginale gli interessi dei destinatari tanto da non averli indotti ad
attivarsi in modo adeguato onde prevenire o controllare l’evolversi
degli eventi (cfr., per ulteriori applicazioni del principio di causalità
ipotetica, artt. 1221, comma 1 e 1805, comma 2 c.c., 369 cod nav.). L’articolo 1227,
capoverso, costituisce allora applicazione del più generale principio di
esclusione della responsabilità ogni volta in cui si provi, in base ad un
giudizio ipotetico più che strettamente causale, che il danno prodottosi non
rappresenta una perdita patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in
quanto l’avrebbe egualmente subita o perché avrebbe potuto evitarla. La giurisprudenza e la
dottrina hanno nel tempo dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i
confini dell’impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un
altrui comportamento illecito. Risulta così superato il
tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della
«diligenza» di cui all'art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo
(negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il
danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di
condotte di tipo positivo sostanziantisi in un facere. La
giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione in
parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la
causalità giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce
autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri
comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’ auto-responsabilità,
ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del
comma 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un
obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo
positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e
possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno). Tale orientamento si fonda
su una lettura dell'art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di
buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto,
del principio di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto
approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del
rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica
dell’inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell’illecito,
è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a
ridurre il danno. Un limite all'obbligazione
cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso
esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile
sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare
l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri
rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di
attività complesse, impegnative e rischiose. L'obbligo di cooperazione
gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti
fra gli obbligati, non comprende, pertanto, l’esplicazione di attività
straordinarie o gravose attività, ossia un "facere" non
corrispondente all' id quod plerumque accidit. (così, da ultimo,
Cass.civ., sez. I, 5 maggio 2010, n. 10895). 7.2. Resta allora da
vedere, venendo al tema oggetto del presente giudizio, se nel novero dei
comportamenti esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo sia
sussumibile, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., anche la
formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante
volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata
idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul
giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio. 7.2.1. L’Adunanza non
ignora che, secondo l’orientamento interpretativo tradizionalmente
prevalente, il comportamento operoso richiesto al creditore non
comprenderebbe l'esperimento di un'azione giudiziaria, sia essa di cognizione
o esecutiva, trattandosi di attività per definizione complessa e aleatoria,
come tale non esigibile in quanto esplicativa di una mera facoltà, dall'esito
non certo. Questo Consiglio reputa
tuttavia che tale indirizzo, laddove fissa, con affermazione perentoria ed
astratta, il principio dell’inesigibilità ex bona fide di
condotte processuali, meriti rivisitazione. In linea di principio va
osservato che il principio dell’insindacabilità delle scelte
giudiziarie, al di là dei limiti e dei divieti puntualmente stabiliti, è
interessato da un graduale ma chiaro superamento da parte della
giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione, propensa a sanzionare
le condotte processualmente scorrette con gli strumenti del divieto
dell’abuso del diritto, della clausola di buona fede e dell’exceptio
doli generalis. Va ricordata, al riguardo,
la sentenza della Cassazione, sezioni unite, 15 novembre 2007, n. 23726
(conf. sez. III 3 maggio 2008, n, 15476; sez. II, 27 maggio 2008, n. 13791),
che ha affermato il principio secondo cui il frazionamento giudiziale
(contestuale o sequenziale) di un credito unitario integra condotta contraria
alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere
inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, e si
risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda. Tale pronuncia afferma con
forza la vigenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni
posizione soggettiva, che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art.
1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti
processuali di esercizio del diritto. A questa stregua la
disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del
rapporto (sia pure nella fase patologica della coazione
all’adempimento), oltre a violare il generale dovere di correttezza e
buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve
anche in abuso dello stesso ed in una violazione del canone del giusto
processo. Viene così in rilievo una condotta che, pur formalmente conforme al
paradigma normativo, disattende il limite modale che impone al titolare di
ogni situazione soggettiva di non azionarla con strumenti, sostanziali e
processuali, che infliggano all’interlocutore un sacrificio non
comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito e ragionevole
interesse (v. sul concetto di limite modale, con particolare riguardo all’esercizio
del diritto di recesso nei rapporti negoziali, Cass., sez. III, 18 settembre
2009, n, 20106). Il divieto di abuso del
diritto si applica allora anche in chiave processuale: il creditore deve
evitare di esercitare un’azione con modalità tali da implicare un
aggravio della sfera del debitore, sì che il divieto di abuso del diritto
diviene anche divieto di abuso del processo Si giunge, così,
all’elaborazione della figura dell’abuso del processo quale
esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale
della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa (conf. Cass.,
sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, che applica il principio del divieto di
abuso del processo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali; per un
ancoraggio dell’abuso del processo, in correlazione agli artt. 24, 111
e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo, si vedano gli articoli
88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice
del processo amministrativo). Ai fini che qui
interessano, assume particolare rilievo la circostanza, sottolineata dalle
Sezioni Unite, che il divieto di abuso concerne, oltre che la fase
fisiologica del rapporto, anche quella patologica: il creditore, cioè, deve
cooperare col debitore non solo per agevolare l’adempimento, ma anche
per non aggravare la sua posizione una volta che si è verificata la
violazione dell’impegno obbligatorio. E tanto si ricava proprio dal
secondo comma dell’art. 1227 c.c., il quale impone a colui che abbia
subito l’inadempimento (o il fatto illecito) di porre in essere in base
a buona fede anche comportamenti attivi, entro i limiti del sacrificio non
apprezzabile, per evitare l’aggravamento del danno. 7.2.2. In definitiva, la
persuasiva elaborazione pretoria di cui si è dato conto mette in luce che il
divieto di tenere condotte contrarie a buona fede ha un ancoraggio
costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost, costituisce canone di
valutazione anche delle condotte processuali ed opera anche nella fase
patologica del rapporto obbligatorio. Ora, se si considera che,
alla stregua di questa recente e convincente lettura, l’obbligo di
cooperazione di cui al comma 2 dell’art. Si deve allora preferire al
tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sincadabilità delle
condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più
duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in
materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è
espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche
processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto. 7.2.3. Applicando detto
criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata impugnazione
di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento
contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva
reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato,
sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez.
V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136) . Si deve, infatti,
considerare che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte
del danno, pur non essendo più l’unica tutela esperibile, è il mezzo di
cui l’ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un
provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest’ultimo produca
conseguenze dannose. Ne deriva che l’utilizzo del rimedio appropriato
coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della
tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno
possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce
del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame. Nella specie assume un
ruolo decisivo la considerazione, di tipo comparativo, che la tecnica di
tutela non praticata, quella di annullamento, se si eccettua il profilo del
termine decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli
richiesti per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più
semplice e meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro
della presenza di un vizio di legittimità invalidante senza postulare la
dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali
l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché
l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri
di cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile Si deve allora reputare che
la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non
(comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste
dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più
probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra
violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e,
per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta
omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una
domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di
annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento
complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e,
quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato
dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno
evitabile. A diversa conclusione si
deve invece pervenire laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio
sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in
quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista,
sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di
soddisfazione. Si consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui
il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una
modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del
processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente,
il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per
effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del
codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma
3, del codice del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento
non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento
del bene della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento
in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in
guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo profilo
del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale prima ricordata,
oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo
amministrativo. La soluzione esposta, che
riprende indicazioni già fornite dalla Corte di Cassazione nelle citate
ordinanze delle Sezioni Unite 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660, si pone in
linea con l’indirizzo sostenuto dalla prevalente giurisprudenza
comunitaria che, come in precedenza sottolineato, pur ammettendo la
proponibilità della domanda risarcitoria in via autonoma rispetto al rimedio
impugnatorio, considera nel merito infondata la pretesa al ristoro dei danni
che sarebbero stati evitati mediante la tempestiva impugnazione dell’atto
lesivo. Si sancisce in questo modo
un coordinamento, non processuale ma sostanziale, tra il rimedio caducatorio
e quello risarcitorio. In questi termini, come è stato efficacemente notato
in dottrina, si può parlare di un coordinamento delle tutele più che
di un coordinamento delle azioni. 7.2.4. Va soggiunto che la
mancata proposizione del ricorso per annullamento va apprezzata nel quadro di
una valutazione più ampia - oggi recepita dagli artt. 30 e 124 del codice del
processo amministrativo oltre che dall’art. 243 bis del codice
dei contratti pubblici- del comportamento complessivo della parte in seno al
quale detta omissione processuale si colloca. Andrà allora ponderata la
concorrente rilevanza eziologica spiegata dal mancato utilizzo di rimedi e di
condotte che, non implicando rilevanti costi e oneri, sono, a maggior
ragione, esigibili, alla stregua dei canoni ermeneutici sopra esposti, come
l’attivazione del rimedio dei ricorsi amministrativi e la proposizione
di tempestive istanze volte a sollecitare la rimozione o la modificazione in
autotutela del provvedimento illegittimo, in una agli ulteriori comportamenti
diligenti idonei ad incidere in senso favorevole sul rapporto amministrativo
oggetto del provvedimento illegittimo (cfr. art. 243 bis del codice dei
contratti pubblici). 8. Vanno, infine,
analizzati i profili processuali e probatori che connotano
l’applicazione al processo amministrativo della regula iuris
sottesa all’art. 1227, capoverso, del codice civile. Questa Adunanza reputa di
non diversi discostare e dall’orientamento già espresso dal Consiglio
(sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183) in merito alla necessità di adattare
l’applicazione della regola civilistica alle peculiarità del processo
amministrativo imperniato sul metodo acquisitivo che permea
l’operatività del principio dispositivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11
febbraio 2011, n. 924; vedi oggi l’art. 63, comma 2, del codice del
processo amministrativo). Si deve poi tenere conto della specificità del tema
probatorio in esame, il quale impinge in buona misura su quaestiones iuris
- quelle relative all’individuazione degli strumenti giuridici di
tutela praticabili, al plausibile esito del ricorso per annullamento ed agli
sbocchi degli ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali- che soggiacciono
al principio iura novit curia. Si deve allora ritenere
che, sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed
oggi recepiti dall’art. 30, comma 3, del codice del processo
amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato a valutare, senza
necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli
elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del
ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di
tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una
logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente,
evitando in tutto o in parte il danno. Un rilievo significativo è
destinato ad assumere l’utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni
ex artt. 2727 e seguenti del codice civile, che consente di valutare se
l’apprezzamento dell’illegittimità dell’atto operato in
sede risarcitoria avrebbe portato anche all’annullamento dello stesso
– dato, questo, in linea generale presumibile, vista l’identità dell’oggetto
delle valutazioni - in modo da impedire, alla luce anche delle misure
provvisorie adottabili in corso di giudizio o ante causam, di mitigare
o ridurre il danno. 9. Si può a questo punto
esaminare il caso di specie in forza delle coordinate fin qui esposte. L’illegittimità del
provvedimento di sospensione dalle gare per nove mesi risulta acclarata in
ragione dell’assenza di un’adeguata istruttoria e del difetto di
una congrua motivazione in ordine all’effettiva addebitabilità a colpa
dell’impresa appaltatrice dell’incidente che ha indotto
l’ENEL Distribuzione s.p.a. all’adozione dell’atto lesivo. Deve allora darsi risposta
alla duplice domanda se la condotta dell’impresa abbia integrato
violazione del canone comportamentale cristallizzato dall’art. 1227,
comma 2, c.c. (oggi recepito dall’art. 30, comma 3, del codice del
processo amministrativo) ed abbia spiegato un effetto eziologico nella
produzione di un danno altrimenti evitabile. Il Consiglio, nel
confermare, con le seguenti integrazioni motivazionali la soluzione adottata
dal primo giudice, reputa che ad entrambi i quesiti vada data risposta
positiva. Quanto al primo aspetto
appare determinante la circostanza che, a fronte di un provvedimento adottato
il 30 settembre 1999, recante la sospensione degli inviti a gare
d’appalto nell’intero ambito territoriale di competenza per un
periodo di nove mesi a far data dal 1° ottobre 1999, l’impresa abbia
reagito con atto di citazione innanzi al Giudice civile solo il 6 maggio
2002, ossia ad oltre due anni e mezzo di distanza, per poi proporre ricorso
innanzi al Tribunale Amministrativo dopo oltre un anno dalla sentenza n. 6221
del 25 maggio n 2004 con la quale il Tribunale civile di Napoli aveva
dichiarato il difetto di giurisdizione. La totale inerzia osservata
dall’appellante, nella coltivazione di rimedi giudiziali e di
iniziative stragiudiziali, lungo tutto l’arco temporale nel corso del
quale l’atto ha spiegato il suo effetto inibitorio e per un ulteriore e
assai ampio spatium temporis, integra, alla luce della gravità degli
effetti lesivi denunciati, una chiara violazione degli obblighi cooperativi
che gravano sul creditore danneggiato. Detto aspetto è stato già apprezzato
dalla sentenza appellata e dalla decisione di rimessione che hanno affermato la
sussistenza della giurisdizione amministrativa e negato la concessione del
beneficio dell’errore scusabile alla luce di consolidati principi
giurisprudenziali che avevano affermato la natura autoritativa del potere
esercitato da ENEL e la qualificazione pubblicistica assunta da detto
soggetto in subiecta materia, oltre che in considerazione del ritardo
con il quale l’appellante ha riproposto la domanda risarcitoria innanzi
al giudice amministrativo. Quanto al profilo
eziologico, l’Adunanza, applicando le regole prima esposte che
presiedono al giudizio di causalità ipotetica in materia risarcitoria,
ritiene di poter concludere che i danni lamentati sarebbero stati in toto
evitati se l’impresa si fosse tempestivamente avvalsa degli strumenti
di tutela predisposti all’uopo dall’ordinamento ed avesse posto
in essere le ulteriori iniziative esigibili ex bona fide. Appare al
riguardo determinante la circostanza che il ricorrente non solo non abbia
proposto il ricorso giurisdizionale amministrativo, così vedendosi preclusa
la via delle misure provvisorie in corso di causa, ma non abbia neanche
sperimentato la via dei ricorsi amministrativi, così come non abbia compiuto
atti volti a stimolare l’autotutela al pari di atti di iniziativa
finalizzati a partecipare alle singole procedure di suo specifico interesse,
con conseguente contestazione dei puntuali provvedimenti di esclusione. L’Adunanza reputa che
la tempestiva utilizzazione di tali rimedi avrebbe consentito di ottenere
l’ammissione alle singole procedure e, quindi, di perseguire una tutela
specifica dell’interesse leso. Si deve allora convenire che il
comportamento dell’appellante ha assunto un ruolo eziologico decisivo
nella produzione di un pregiudizio che il corretto utilizzo dei rimedi
rammentati, inquadrato nella condotta complessiva esigibile, avrebbe
plausibilmente consentito di evitare, alla luce dei vizi denunciati, della
gravità del pregiudizio lamentato e del tasso di effettività della tutela che
i mezzi non sperimentati avrebbero consentito di ottenere. 10. Alla stregua delle
considerazioni che precedono l’appello deve essere respinto. La complessità delle
questioni di diritto affrontate e le oscillazioni interpretative che hanno
caratterizzato la giurisprudenza in materia giustificano, tuttavia, l’integrale
compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente
pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per
l'effetto, conferma la sentenza appellata. Spese compensate. Ordina che la presente
sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella
camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2011 con
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