Aggiornamento - Civile

Cass., Sez. I Civ., 11 giugno 2004, n. 11097 sulla natura costitutiva della revocatoria fallimentare e relative conseguenze in caso di revoca dei pagamenti

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. - I ricorsi principali e incidentale vanno riuniti perché rivolti contro una sentenza non definitiva e una sentenza definitiva emesse nel medesimo giudizio.
5. - Va quindi esaminata l’eccezione di inammissibilità dei ricorsi principali, sollevata dalla curatela sin dai controricorsi, per non avere la controparte dato dimostrazione del potere di rappresentanza della banca in capo ai funzionari che congiuntamente hanno sottoscritto le procure ai difensori (dottori Gianfranco Pino e Roberto Gambaro quanto al ricorso n. 23608/2000 R.G. e dottori Franco Scarnecchia e Gianfranco Pino quanto al ricorso n. 434/2003 R.G.).
La banca ha risposto producendo ritualmente documenti a dimostrazione dell'allegato potere rappresentativo (precisamente: delibera del Consiglio di amministrazione della Banca di Roma s.p.a. in data 28 dicembre 1998 concernente "Deleghe di poteri: conferimento di poteri di firma sociale"; delibera del Consiglio di amministrazione del Banco di Santo Spirito s.p.a. - precedente denominazione della Banca di Roma - in data 20 luglio 1992 concernente “Attribuzione di poteri di firma di rappresentanza” a tutti i dirigenti e funzionari indicati nell'elenco allegato alla stessa delibera; estratto dell’“elenco firme autorizzate” della Banca di Roma; statuto di quest'ultima), nonché eccependo, a sua volta, l'inammissibilità del rilievo avversario, in quanto generico e non argomentato.
La curatela, pur in presenza di detta produzione documentale, con le successive difese (v., in particolare, la prima memoria ex art. 378 c.p.c.) ha insistito nel suo rilievo, osservando: che l'unica vigente delibera del Consiglio di amministrazione attributiva dei poteri di rappresentanza è quella del 28 dicembre 1998, che reca - letteralmente – “il nuovo testo integrale della “disciplina dei poteri di firma sociale per gli atti correnti e di ordinaria gestione” come di eseguito riportato”, cosicché essa supera e sostituisce la precedente delibera del 1992; che alla delibera del 1998 non è allegato alcun elenco nominativo dei soggetti investiti del potere rappresentativo; che, dunque, difetta la prova che i firmatari congiunti delle procure speciali a ricorrere per cassazione fossero, al momento della sottoscrizione delle stesse, investiti dal relativo potere, giacché il loro nome non figura in alcun elenco a quella data in vigore (risalendo ad epoca precedente - precisamente all'ottobre 1995 - anche l'estratto dell'“elenco firma autorizzata” prodotto da controparte), né è provato che, alternativamente, gli stessi appartenessero, sempre a quella data, a categorie di dipendenti investiti del potere di firma; che, inoltre, neppure può farsi qui applicazione dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità che esclude la necessità della specifica verifica del potere rappresentativo laddove questo sia già stato esercitato dalla stesse persone, in precedenti gradi del giudizio, senza che la controparte abbia sollevato in proposito contestazioni, atteso che, nella specie, la banca nei precedenti gradi del giudizio non era mai stata rappresentata dagli stessi odierni autori delle procure ad litem (in primo grado era stata rappresentata dai sigg. Monsello a Casaleggio, vice direttori dalla filiale di Genova del Banco di Roma; in appello dai sigg. Bacchetti e Pino, rispettivamente vice direttore e procuratore della filiale genovese del Banco, anche dopo l'incorporazione del Banco di Roma nel Banco di Santo Spirito, quindi denominatosi Banca di Roma; in sede di riassunzione del processo di appello, interrotto per morte del difensore, dal Presidente pro tempore).
La banca, con la memoria ex art. 370 c.p.c. depositata il 20 ottobre 2003 (in termini, dato che il 19 ottobre, data di scadenza naturale del termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione del 24 ottobre, era domenica), a sua volta replica: che l’“attribuzione dei poteri di rappresentanza” ai suoi funzionari è contenuta nella delibera del 1992, cui è allegato anche l'elenco nominativo dei funzionari investiti di tali poteri, nel quale figurano i dott. Pino, Gambaro e Scarnecchia, firmatari della procure ad litem relative ai ricorsi per cassazione; tale attribuzione di poteri non è mutata nel tempo, perché la delibera del 1998 reca soltanto la nuova "disciplina" dei poteri di firma, ma non l'attribuzione di essi, come si ricava già dalla intitolazione della delibera ed è confermato dall'ultimo passaggio della medesima, secondo cui "la presente deliberazione annulla e sostituisce la precedente disciplina della firma sociale"; che i contrari rilievi della curatela sono tardivi, in quanto formulati soltanto con la memoria ex art. 378 c.p.c..
6. - Ad avviso del Collegio, anzitutto non hanno pregio le obiezioni di genericità e tardività dei rilievi avversari formulati, dalla ricorrente. Infatti quelle rassegnate, sul punto in esame, con i controricorsi e le memorie della curatala non sono eccezioni in senso proprio, bensì mere contestazioni o difese (nessun fatto nuovo é stato aggiunto, ma semplicemente sono state contestate le affermazioni di controparte), tempestivamente svolte in limine dalla parte interessata; né l'originario rilievo di difetto di potere rappresentativo dei funzionari, sino a quel momento solo assai genericamente affermato nei ricorsi, avrebbe potuto o dovuto essere più specifico.
Per l'esame del merito della questione sollevata, è necessario dare contezza più diffusamente del contenuto della delibera del Consiglio di amministrazione della Banca di Roma in data 28 dicembre 1998.
L'atto, con il quale il consiglio "delibera […] il nuovo testo integrale della ‘disciplina dei poteri di firma sociale per gli atti correnti e di ordinaria gestione’ come di seguito riportato”, premette anzitutto il testo dell’art. 22 dello statuto sociale, in base al quale il Presidente ha la rappresentanza legale della società, mentre “il Consiglio di amministrazione può […] attribuire la firma sociale a dirigenti, funzionari e dipendenti della Società, con determinazione dei relativi poteri, dei limiti e delle modalità di esercizio”.
Stabilisce, quindi, l'attribuzione della firma sociale, in particolare (punto 2 della delibera), "ai Dirigenti, ai Funzionari, al personale inquadrato nella IV Area Professionale e ad altro personale appositamente identificato dalla Banca, in forma comunque abbinata tra loro, per i seguenti atti; a) cause attive e passive nonché procedure di qualsiasi natura in qualunque grado davanti a qualsiasi giurisdizione civile, anche volontaria, penale, amministrativa e speciale, nonché atti giudiziali, stragiudiziali e negoziali inerenti e conseguenti comprese le rinunce agli atti, all'azione e ai danni", e inoltre per una serie di atti di natura sostanziale specificamente indicati alle lettere successive, tra i quali talune operazioni di importo unitario superiore a £. 50 milioni e altre di importo superiore a £. 1.500 milioni (lett. h); mentre per tutti gli atti correnti e di ordinaria gestione non previsti al punto 2 e per quelli specificatamente previsti alla lett. h) di tale punto, ma di importo inferiore al limite ivi indicato, alle stesse categorie di personale la firma è attribuita singolarmente, ossia non in forma abbinata (punto 3).
Gli ultimi tre capoversi della delibera, infine, recitano:
"La facoltà di firma sociale di cui alla presente disciplina é esercitata dal personale abilitato nell'ambito delle proprie autonomie ovvero in esecuzione di delibere adottate da chi ne ha la facoltà.
Nei confronti dei terzi, comunque, la firma – apposta secondo i limiti e le modalità sopra previste – fa fede dell’esistenza dei relativi poteri, indipendentemente dalla unità operativa di assegnazione.
La presente deliberazione annulla e sostituisce la precedente disciplina della firma sociale”.
L'esegesi del testo consente anzitutto di sgomberare il campo dalla tesi di parte ricorrente secondo cui detta delibera si limiterebbe a sancire la sola
"disciplina" del potere di rappresentanza (volontaria), restando la individuazione dei soggetti cui tale potere è attribuito (l’“attribuzione”, cioè, del potere) affidata alla precedente delibera del Consiglio di amministrazione del Banco di Santo spirito del 1992 e all'elenco nominativo alla stessa allegato. Il chiaro tenore dell'ultimo capoverso sopra riportato (“annulla e sostituisce la precedente disciplina”) e la preliminare definizione dello stesso testo quale “nuovo testo integrale” di tale disciplina non possono conciliarsi con la tesi in esame, anche perché sia nell'una che nell'altra delibera il personale investito dei poteri di rappresentanza non è individuato nominativamente, bensì per categorie (dirigenti, funzionari, ecc.) e gli elenchi allegati alla delibera del 1992 hanno, chiaramente, mera funzione ricognitiva (anche tale delibera, infatti, prevede "l'attribuzione dei poteri firma sociale […] a tutti i dirigenti e funzionari attualmente abilitati alla firma sociale nonchè ai quadri attualmente preposti a dipendenze presso il Banco di Roma - di cui all'allegato elenco che si acquisisce agli atti del Consiglio al n. 56/92 - che, sotto la […] data del 1° agosto 1992, diverranno dipendenti della Banca di Roma, società per azioni”, e che “inoltre - al fine di agevolare la certificazione dei poteri verso l'esterno - il Consiglio conferma l'attribuzione di poteri di firma sociale a tutti i dirigenti, funzionari e quadri attualmente abilitati alla firma sociale presso il Banco di Santo Spirito, dal 1° agosto 1992 Banca di Roma, società per azioni - di cui all'allegato elenco che si acquisisce agli atti del Consiglio al n. 57/92”).
Va osservato, piuttosto, che non è condivisibile neppure la tesi della curatela controricorrente, secondo cui non sarebbe stata offerta la prova che i dottori Pino, Gambero e Scarnecchia, autori delle procure ad litem, appartenessero, alla data delle stesse, a categorie di dipendenti investiti del potere di firma. Tale prova è, invece, costituita dall'elenco n. 56/92 allegato alla delibera del 1992, che li menziona nella categoria dei funzionari, mentre nessun indizio è in atti che essi abbiano perso tale qualità successivamente.
Ciò non vuol dire, però, che sia stata offerta la prova della effettiva titolarità, in capo ai detti funzionari, del potere di rappresentanza processuale della banca.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (condiviso, anzi anticipato, dalla dottrina), la rappresentanza processuale volontaria può essere conferita soltanto a chi sia investito di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince dall'art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari dell'investitura processuale, soltanto il "procuratore generale e quello preposto a determinati affari".
Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 4666 del 1998, seguita da numerose pronunce conformi, in particolare della Sezione Lavoro), dando continuità a tale orientamento anche all'esito di una rinnovata verifica dei suoi presupposti, ne hanno indicato il fondamento nel principio, stabilito dall'art. 100 c.p.c., dell'interesse ad agire (e a contraddire), inteso non soltanto come obbiettiva presenza o probabilità della lite, ma altresì come "appartenenza" della stessa a chi agisce, "nel senso che la relazione della lite con l'agente debba consistere in ciò che l'interesse in lite sia suo". L'art. 77 c.p.c., nel contemplare la possibilità di attribuire ad altri il potere di stare in giudizio in nome e per conto dell'interessato, tempera, quindi, il rigore di quel principio, e l’art. 100 c.p.c., letto in combinazione con il predetto articolo, indica la "necessità che chi agisce abbia rispetto alla lite una posizione particolare che la norma stessa non definisce, ma che può desumersi dalle ipotesi individuate dall'art. 77, sì da condurre all'affermazione di una regola generale per cui il diritto di agire spetta a chi abbia il potere di rappresentare l'interessato [...] o nella totalità dei suoi affari (procuratore generale) o in un gruppo omogeneo di questi, paragonabile ad un'azienda commerciale o ad un suo settore (institore)". Tale principi, poi, riguardano anche la rappresentanza volontaria conferita dal rappresentante legale di società di capitali, cui si applicano anche a dispetto di eventuali clausole contrarie dello statuto, le quali sarebbero nulle per contrasto con norma imperativa attinente all'ordine pubblico processuale.
Alla luce di detto orientamento - cui il Collegio ritiene di uniformarsi - quanto qui dedotto da parte ricorrente appare del tutto insufficiente a supportare la pretesa sussistenza di un valido conferimento della rappresentanza processuale della banca, per il presente giudizio, ai funzionari che vi agiscono. Mancano, infatti, adeguato allegazioni circa la titolarità, da parte loro, di poteri di rappresentanza sostanziale, riguardanti il rapporto dedotto in causa, che presentino le caratteristiche sopra indicate (in concreto, preposizione ad un gruppo omogeneo di affari o settore aziendale): nel ricorso n. 23608/2000 R.G. vi è semplicemente un generico cenno alla qualità di "funzionari della Sede di Genova" della banca e, quanto al ricorso n. 434/2003, è, ancor più genericamente, indicata (nella procura a margine) la mera qualità di "quadri direttivi" della banca medesima.
Né la lacuna è colmata dall'esame dei documenti prodotti, e in particolare della delibera consiliare che disciplina l'attribuzione della firma sociale, la quale è redatta, come si é visto, in termini generali.
I ricorsi principali devono, in conclusione, essere dichiarati inammissibili per difetto del requisito della legittimazione processuale dei funzionari che hanno sottoscritto le procure ad litem.
7. - Passando all'esame del ricorso incidentale della curatela avverso la sentenza definitiva, è opportuno premettere le motivazioni con cui la Corte di appello respinge le richieste del fallimento, alle quali il ricorso si riferisce.
In sintesi, la Corte di merito:
- riduce a £ 84.943.151 (dalle £. 110.302.064 riconosciute in primo grado) il complessivo ammontare della rimesse revocabili ex art. 67 cpv. l. fall., ritenendo, in particolare, l'operatività della compensazione ex art. 1853 c.c., per complessiva £. 12.314.824, tra i saldi attivi del c/c n. 2651 e quelli passivi del conto anticipi n. 37421, eseguita dalla banca mediante tre giroconti dal primo al secondo; osserva, a tal proposito, che non era stato dimostrato - a differenza di quanto era avvenuto riguardo agli altri conti anticipi - lo stretto collegamento, a mezzo di mandati irrevocabili all'incasso, delle operazioni che avevano portato alla estinzione delle passività del conto anticipi 37421, e che pertanto, dovendosi ritenere l'autonomia dei due conti, i loro saldi potevano essere reciprocamente compensati, con conseguente esclusione della revocabilità delle relative operazioni;
- disattende la domanda del fallimento di vedersi riconosciuto il maggior danno ex art. 1224 c.c., in quanto la relativa domanda era stata proposta soltanto in sede di conclusioni finali in primo grado e la controparte non aveva, né espressamente, nè tacitamente, accettato il contraddittorio sulla stessa, e si era opposta, anzi, nella prima difesa esplicita costituita dalla comparsa conclusionale, alla sua introduzione nel giudizio, mentre all'udienza di precisazione delle conclusioni era rimasta in silenzio, il che di per sé non è significativo; e la specifica allegazione e dimostrazione in giudizio del danno ex art. 1224 c.c. era indispensabile, perché il credito restitutorio conseguente alla revoca di pagamenti ha natura di credito di valuta, non di valore;
- respinge, infine, la richiesta della curatela di riconoscimento degli interessi anatocistici, sul rilievo che sino alla sentenza costitutiva - ancorché retroattiva alla data della domanda - il credito conseguente al positivo esperimento dell'azione revocatoria è incerto, e ciò impedisce che gli interessi primari, per quanto maturino anche nel corso del giudizio a decorrere dalla domanda giudiziale, possano considerarsi scaduti - e dunque produrre ulteriori interessi - prima della pronuncia del giudice.
8. - Con il primo motivo del ricorso incidentale, il curatore del fallimento, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1853 c.c. e 56 e 67 cpv. legge fall., nonché vizio di motivazione, lamenta che la sentenza definitiva abbia respinto la domanda di revoca, ai sensi dell'art. 67 cpv. legge fall., di tre rimesse per complessive £ 12.314.824, affluite sul conto anticipi fatture n. 37421 dal conto ordinario n. 2651, avendo ritenuto operante la compensazione in difetto di prova dello stretto collegamento dei due rapporti a mezzo di mandati irrevocabili all'incasso. Sostiene il ricorrente che la Corte, ai fini della valutazione in ordine all'autonomia dei rapporti, non avrebbe dovuto limitarsi a verificare la sussistenza o meno dei mandati predetti, ma avrebbe dovuto incentrare l'attenzione sui rapporti bancari in sé, i quali avevano in effetti carattere unitario, e l'unitarietà del complesso rapporto banca-cliente, articolato in un conto corrente ordinario e più conti anticipi, era riconosciuta dalla stessa banca, come si ricavava da alcuni capitoli della prova testimoniale da essa articolata (capitoli che il ricorso riporta testualmente). Inoltre una banca, quando intenda avvalersi della compensazione tra saldi attivi e passivi di più conti, deve informare il correntista, e nella specie la banca non aveva "compensato" i saldi attivi e passivi, ma aveva effettuato movimenti di valuta da un conto all'altro. Di qui i vizi di violazione delle norme sopra indicate e di insufficiente motivazione sul punto dell'autonomia, o meno, dei rapporti tra i quali è stata applicata la compensazione, nonché di omessa motivazione sul fatto che la compensazione fosse stata o meno operata dalla banca.
9. - Le censure riguardanti la motivazione, logicamente preliminari a quelle di violazione di legge pure dedotte, non possono essere accolte. La sentenza impugnata, infatti, afferra l'autonomia dei due rapporti in esame, specificando che, riguardo ad essi, era mancata la prova, invece fornita riguardo agli altri conti, dello stretto collegamento tra le relative operazioni a mezzo dei mandati irrevocabili all'incasso. Il ricorrente lamenta, in sostanza, che la Corte non abbia tenuto conto di altri elementi (essenzialmente le asserite ammissioni di controparte) che avrebbero, invece, consentito di affermare quel collegamento per altra via.
Ma il dovere di motivazione non può essere dilatato sino a pretendere che la sentenza confuti espressamente tesi in fatto che neppure la parte interessata abbia prospettato. Il che è quanto si verifica nel nostro caso, in cui la prospettazione della tesi del carattere non autonomo dei conti n. 2651 e n. 37421, sulla base della unitarietà del complesso di tutti i rapporti di conto tra la banca e la cliente, non era stata sostenuta nel giudizio di merito (o, quantomeno, ciò non risulta dal ricorso, come invece avrebbe dovuto, per il principio di autosufficienza dello stesso). Il ricorso, invero, riporta testualmente il contenuto della terza comparsa conclusionale in grado di appello, nella quale il punto in questione veniva discusso, e in essa non vi è traccia della dedotta configurazione unitaria dei rapporti: si parla, invece, soltanto di "artificiosità", "illegittimità" e "callido modus operandi" della banca nell'accreditare le rimesse, relative al pagamento delle fatture, sul conto corrente ordinario 2651, per poi girocontarle sul conto anticipi 37421 a decurtazione del suo saldo passivo, onde impedire alla cliente di disporre del saldo attivo formatosi sul conto ordinario.
La censura, poi, di omessa motivazione in ordine alla effettiva intenzione della banca di procedere a compensazione, piuttosto che a semplici movimenti di valuta da un conto all'altro, sul presupposto - sembra di capire - della omessa comunicazione di tale intenzione alla società correntista, è inammissibile perchè deduce un fatto nuovo, mai discusso nel giudizio di merito.
Disattese le pregiudiziali censure di vizio di motivazione, resta escluso anche il conseguente lamentato vizio di violazione di legge.
10. - Con il secondo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1282 e 1283 c.c. e 345, primo coma, c.p.c., nonché vizio di motivazione, censura la sentenza definitiva della corte di appello per aver escluso il diritto del fallimento agli interessi anatocistici sul credito riconosciutogli a seguito del positivo esperimento dell'azione revocatoria. Lamenta che la Corte abbia erroneamente ritenuto che, per poter considerare scaduti gli interessi primari, agli effetti dell'art. 1283 c.c., occorra che il credito per capitale sia non soltanto liquido, ma anche “certo”, e che abbia, quindi, escluso che nella specie ricorresse il requisito della certezza - a causa delle contestazioni della banca nonché del carattere costitutivo dell'azione revocatoria - sino al momento della sentenza di revoca. Sostiene, invece, che non è concepibile che un credito liquido non sia altresì certo; che l'art. 1282 c.c., che disciplina gli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, prevede i soli requisiti della liquidità (nella specie riconosciuta dalla stessa Corte al credito del fallito) ed esigibilità, non quello della certezza; che la sentenza in materia di revocatoria fallimentare è bensì costitutiva, ma ha effetto retroattivo alla data della demanda; che, infine, la Corte di merito ha ignorato che la curatela aveva in grado di appello chiesto il riconoscimento degli interessi anatocistici anche con riguardo al periodo successivo alla sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 345, primo comma (ult. parte), c.p.c., ed ha implicitamente disatteso anche quest'ultima parte della domanda, che pure doveva accogliere sulla base della stessa (errata) impostazione che essa dava al problema; che sul punto la motivazione è stata completamente omessa e, per il resto, la stessa è insufficiente e contraddittoria, perché la conclusione cui perviene la Corte contrasta con la pur confermata tesi che gli interessi su un credito liquido maturano anche in corso di causa e stabilisce un parallelo del tutto inappropriato (quanto all'affiancamento del requisito della certezza a quelli della liquidità ed esigibilità del credito) con le regole della compensazione legale e, infine, perchè il rilievo attribuito dalla Corte alla mera contestazione del credito da parte del debitore (che praticamente non manca in nessuna causa) svuoterebbe di contenuto il già restrittivo art. 1283 c.c..
11. - Il motivo è infondata.
E' pacifico in causa che la sentenza di revoca di pagamenti ha carattere costitutivo, onde non è qui necessario ripercorrere i passaggi del conforme, consolidato indirizzo giurisprudenziale.
Il carattere costitutivo della sentenza comporta che soltanto quest'ultima produce l'effetto caducatorio dell'atto giuridico impugnato e che soltanto a seguito di essa sorge il conseguente credito del fallimento alla restituzione di quanto pagato dal fallito, e finché non é sorto il credito (restitutorio) per capitale, neppure sorge il credito accessorio degli interessi. Ne deriva che, sino alla sentenza di revoca del pagamento, non può parlarsi di interessi scaduti, onde non può farsi luogo all'anatocismo ai sensi dell'art. 1283, che presuppone la intervenuta scadenza degli interessi primari. Non è dunque questione di illiquidità o incertezza soggettiva del credito per (capitale o) interessi, bensì di mancata scadenza dello stesso.
Il ricorrente fa riferimento alla retroattività della sentenza di revoca alla data della domanda, ma invano.
Le sentenze costitutive non hanno normalmente efficacia retroattiva, bensì efficacia ex nunc, ossia dalla data del passaggio in giudicato, salvo che la legge disponga eccezionalmente in modo diverso (Cass. 1756/1967, 1968/1969, nonché, in fattispecie di revocatoria fallimentare, 629/1973 e 2754/1973). Ed effettivamente, con riguardo alla sentenza di revoca di pagamenti, è consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui gli interessi sul conseguente credito del curatore rientrano tra gli effetti restitutori rispetto ai quali la pronuncia retroagisce alla data della domanda (Cass. 3047/1982, 3657/1984, 3155/1997, 8703/1998, S.U. 437/200, 5843/2001). Del resto, gli interessi (semplici) con tale decorrenza sono stati riconosciuti dalla sentenza qui impugnata.
Ma la decorrenza degli interessi (retroattiva alla data della domanda) non va confusa con la scadenza, ossia con la data in cui gli stessi, dovendo essere pagati dal debitore, diventarlo esigibili. Nell'ipotesi di credito derivante da pronuncia giudiziale costitutiva, tale data non può che coincidere con la data della pronuncia stessa - ossia del passaggio in giudicato (non essendo sufficiente la sola, provvisoria pronuncia di prima grado, come invece sembra presupporre il ricorrente) - giacché solo in tale data, perfezionatosi l'accertamento giudiziale ed il suo effetto costitutivo, sorge il relativo obbligo (sulla esigibilità dei crediti restitutori alla data della sentenza costitutiva con effetti retroattivi v., in tema di risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, Cass. 2522/1970, 5426/1981 e 3288/1989). Occorre, in altri termini, tenere distinta la retroattività (eventuale) degli effetti patrimoniali della sentenza dalla irretroattività della pronuncia costitutiva.
La sentenza qui impugnata si è sostanzialmente attenuta a tali principi (il riferimento, invero equivoco, al requisito della certezza del credito va inteso come riferimento alla esistenza/scadenza) e va quindi confermata.
12. - Con il terzo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 184 c.p.c. e 1124, secondo comma, e 2043 c.c., nonché vizio di motivazione, si duole che la Corte di appello abbia disatteso, perché tardiva, la domanda di maggior danno da svalutazione monetaria delle somme oggetto di rimborso, formulata dal fallimento in sede di conclusioni finali in primo grado. Deduce che:
1) la Corte ha errato nell'escludere che su detta domanda controparte avesse accettato il contraddittorio, ritenendo che la mancata contestazione immediata della novità della domanda non avesse concretizzato “atteggiamento non oppositorio” - nel senso indicato da Cass. Sez. Un. 4712/1996 - all'esame della domanda nuova. Infatti il giudice avrebbe dovuto considerare le peculiarità del caso, e cioè che: all'udienza di precisazione delle conclusioni era presente il difensore della banca; le conclusioni erano state dettate a verbale; all'epoca si riteneva fermo il principio (poi modificato dalla citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte) secondo cui la mancata eccezione di novità della domanda formulata in sede di conclusioni finali equivaleva ad accettazione del contraddittorio, sicché la mancata formulazione dell'eccezione, nella consapevolezza di tali conseguenze, non poteva essere considerato silenzio privo di effetti;
2) l'obbligazione restitutoria conseguente all'utile esperimento dell'azione revocatoria fallimentare ha natura di debito di valore, derivando da atto illecito, onde neppure sarebbe stata necessaria la formulazione di specifica richiesta di rivalutazione, dovendo questa essere riconosciuta d'ufficio dal giudice, secondo un orientamento giurisprudenziale di legittimità che la curatela aveva anche invocato; la Corte di appello, però, errando, aveva ritenuto di uniformarsi al prevalente orientamento contrario.
13. - Il motivo va disatteso sotto entrambi i profili.
Quanto al primo, va osservato che le deduzioni del ricorrente si sostanziano nella pura e semplice richiesta, inammissibile in sede di legittimità, di ribaltare l'interpretazione data dalla Corte di merito al comportamento processuale della banca.
Quanto al secondo profilo, si rileva che la prospettazione della richiesta di rivalutazione monetaria come inerente alla natura di debito di valore dell'obbligazione della banca, in quanto derivante da fatto illecito, è inammissibile perché nuova. In proposito, va considerata la sostanziale diversità, sia per petitum che per causa petendi, tra la richiesta del maggior danno ai sensi dell'art. 1224 cpv. c.c. e la richiesta di rivalutazione concernente un credito di valore (cfr., da ultimo, Cass. 3607/1995, 3108/1999, 888/2002), pretendendo il creditore, nel primo caso, il ristoro del danno effettivamente subito, e avente la più varia consistenza (solo eventualmente coincidente con la svalutazione monetaria), a causa del ritardo nell'adempimento di un'obbligazione pecuniaria, regolata dal principio nominalistico, e, nel secondo, l'adeguamento all'effettivo valore della prestazione, costituente oggetto dell'obbligazione, della determinazione monetaria (variabile nel temo) di essa. Nella specie, le conclusioni finali rassegnate dalla curatela nel giudizio di appello contengono esclusivamente la richiesta di "maggior danno ex art. 1224 secondo comma c.c." (dunque sul fondamento di un credito di valuta), non la domanda di rivalutazione di un credito di valore derivante da fatto illecito.
14. - In conclusione, i ricorsi principali vanno dichiarati inammissibili ed il ricorso incidentale va rigettato; le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti per la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibili i ricorsi principali n. 23608/2000 R.G. e n. 434/2003 R.G. e rigetta il ricorso incidentale n. 2859/2003, compensando le spese processuali.
Così deciso in Roma il 24 ottobre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA L’11 GIUGNO 2004

 


 

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