Corte di
Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 16 luglio – 14 agosto 2020, n. 17183 l’obbligo di mantenimento cessa in
relazione alla raggiunta capacità di mantenersi, che deve essere
presunta oltre i trenta anni, quando una persona normale deve presumersi
autosufficiente
Viene proposto ricorso da P.M. , sulla
base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di
Firenze del 29
marzo 2018, la quale, in riforma della decisione del Tribunale di
Grosseto che aveva ridotto l’assegno di mantenimento in favore della
medesima per il figlio A. da Euro 300,00 ad Euro 200,00 mensili, ha revocato
con decorrenza dal 1
dicembre 2015 l’assegno medesimo, nonché
l’assegnazione della ex casa familiare.
2. - La sentenza
impugnata. La corte territoriale, per quanto ancora rileva in questa sede, ha
ritenuto che l’obbligo di
mantenimento cessa in relazione alla raggiunta
capacità di mantenersi, che deve essere presunta oltre i trenta anni, quando
una persona normale deve presumersi autosufficiente da ogni punto di
vista, anche economico, salvi comprovati deficit, come avviene in tutte le
parti del mondo, ma meno in Italia; nè la mancanza
congiunturale del lavoro, in dati momenti storici, equivale ad incapacità di
mantenersi, potendo essa riguardare anche persone più avanti con l’età
(come lo stesso padre sessantenne, che è stato costretto a tornare dalla
anziana madre, dopo la chiusura del negozio di ferramenta), senza che ciò
faccia sopravvivere l’obbligo parentale di mantenimento, il quale
altrimenti si trasformerebbe in una copertura assicurativa. Altro è
l’obbligo alimentare, che resta perennemente in vita tra congiunti ed è
reciproco.
In particolare, il figlio maggiorenne della coppia (33 anni nel (…)) ha da tempo concluso gli studi ed ha trovato
occupazione precaria come insegnante supplente, conseguendo redditi modesti,
ma significativi; anche la coabitazione con la madre si è rarefatta,
recandosi egli in una diversa provincia per insegnare. Onde egli,
eventualmente riducendo le proprie ambizioni adolescenziali, è tenuto a
trovare il modo di auto-mantenersi, risultato che dipenderà dall’impegno
profuso per incrementare le supplenze o integrare le proprie entrate con ogni
opportunità disponibile.
3. - Profili di inammissibilità dei motivi. I due
motivi, che affrontano entrambi la questione dei limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, possono essere
trattati congiuntamente.
Essi sono in parte inammissibili ed in parte
infondati: la prima statuizione coglie i motivi, laddove essi intendono
ripetere un giudizio sul fatto o censurano affermazioni che non sono proprie
della corte d’appello, ma del giudice di primo grado, quale il
riferimento ad un reddito annuo di oltre ventimila Euro.
4. - Infondatezza dei motivi: il diritto al mantenimento del figlio
maggiorenne. L’assunto della ricorrente, in punto di diritto, è che il
figlio maggiorenne, quando non goda di redditi
sufficienti per provvedere al suo mantenimento, abbia sempre e per sempre il
diritto di ricevere tali mezzi dai genitori: ciò, in ragione della mera
circostanza che egli non abbia ancora raggiunto la completa indipendenza
economica nello specifico lavoro prescelto (nella specie, insegnante di
musica), adeguato alle sue aspirazioni ed idoneo ad inserirlo, col dovuto
prestigio, nel contesto economico-sociale.
Tale assunto è infondato.
4.1. - Le norme positive. Il dovere di mantenimento dei figli ha assunto
connotati nuovi sin dalla riforma di cui alla L. 8 febbraio 2006, n. 54, che
con l’art. 155-quinquies c.c., ha dettato una disposizione ad hoc
"in favore di figli maggiorenni".
La norma, abrogata dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n.
154, art. 106, ma è stata trasposta nell’art. 337-septies c.c., da esso
introdotto.
Da allora, dunque, sussistono modalità diverse per
l’adempimento del dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda che
questi sia un minore (art. 337-ter) o un maggiorenne ma non indipendente
economicamente (art. 337-septies).
Il quadro normativo era, dunque, anteriormente
costituito dall’art. 155-quinquies c.c., introdotto dalla L. n. 54 del
2006, secondo cui "Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in
favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di
un assegno periodico".
Prevede ora l’art. 337-septies c.c., comma 1,
che il giudice "valutate le circostanze, può disporre in favore dei
figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno
periodico" (l’articolo è stato aggiunto dal D.Lgs.
28 dicembre 2013, n. 154, art. 55, decreto che ha, nel contempo, abrogato
l’altra disposizione).
Peraltro, occorre sin d’ora osservare come la questione si ponga in generale,
fuori dalla specifica situazione di una crisi coniugale; dove, sovente, il
reale conflitto che emerge e gli interessi sottesi, che impropriamente
giocano un ruolo, sono quelli tra i genitori, non
con il figlio maggiorenne ormai adulto.
E l’estraneità del tema al rapporto fra i genitori risulta
in modo incontrovertibile dal diritto positivo: l’assegno "è
versato direttamente all’avente diritto", salvo diversa
determinazione del giudice (art. 337-septies c.c., comma 2).
Uno è l’elemento indeterminato della fattispecie, dalla cui
integrazione discende il diritto all’assegno per il figlio ed il corrispondente obbligo in capo al genitore: la
qualità dell’essere il primo "non indipendente
economicamente". Il vero elemento discretivo è, tuttavia, un altro: esso
risiede nell’uso del verbo "può", che indica mera
possibilità, accanto al criterio generale ed usuale
della "valutazione delle circostanze". Peraltro, è pur vero che,
come in altre disposizioni, in cui il legislatore utilizza detto verbo
servile, alla raggiunta prova della integrazione
delle circostanze che fondano il diritto, il giudice sarà tenuto a disporre
l’assegno in discorso.
Si tratta, dunque, di un tipico giudizio discrezionale, rimesso al prudente
apprezzamento del giudice del merito. Qui si apprezza il ruolo che
l’ordinamento, in tutte le norme di mero standard, assegna al giudice
del caso concreto.
Peraltro, la necessaria valutazione fattuale non esclude che, in ordine al diritto al mantenimento in capo al figlio
maggiorenne a carico del genitore, la Corte detti, in coerenza al proprio compito di nomofilachia ex art. 65 ord. giud., alcuni parametri di riferimento, a fini di
uniformità, uguaglianza e più corretta interpretazione ed applicazione della
norma. Ciò è quanto, appunto, questa Corte negli anni ha compiuto.
4.2. - I precedenti. Sono stati già affermati, infatti, dalla Suprema Corte
alcuni condivisibili principi.
4.2.1. - In via generale, si è, anzitutto, precisato
come la valutazione delle circostanze, che giustificano il permanere dell’obbligo
dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, conviventi o no con i
genitori o con uno d’essi, vada effettuata dal giudice del merito caso
per caso (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. 6 aprile 1993 n. 4108, in tema di
assegnazione della casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni; si
veda pure Cass. 12 marzo 2018, n. 5883).
Si è pure condivisibilmente osservato come il
relativo accertamento non possa che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle occupazioni ed al
percorso scolastico, universitario e post-universitario del soggetto ed alla
situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore
nel quale il medesimo abbia indirizzato la propria formazione e la propria
specializzazione, investendo impegno personale ed economie familiari (Cass.
26 gennaio 2011, n. 1830).
È stato puntualizzato, inoltre, come la valutazione debba necessariamente
essere condotta con "rigore proporzionalmente crescente, in rapporto
all’età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto
oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura" (Cass. 22 giugno 2016, n.
12952; Cass. 7 luglio 2004, n. 12477) e che, oltre tali "ragionevoli
limiti", l’assistenza economica protratta ad infinitum
"potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo
di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani" (Cass. 6
aprile 1993 n. 4108, in
motivazione, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con
i figli maggiorenni; concetto ripreso es. da Cass. 22 giugno 2016, n. 12952).
Questa Corte, pertanto, ha già operato un’interpretazione del sistema
normativo, che pone una stretta e necessaria correlazione tra diritto-dovere
all’istruzione ed all’educazione e
diritto al mantenimento: sussiste "il diritto del figlio
all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e
di un percorso formativo, "tenendo conto" (e, a norma dei novellati
art. 147 c.c. e art. 315-bis c.c., comma 1, "nel rispetto...")
delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, com’è reso palese dal
collegamento inscindibile tra gli obblighi di mantenimento, istruzione ed
educazione". Dunque, ha concluso la Corte, "la funzione
educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata
dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di
durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il
suo inserimento nella società" (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nonché
Cass. 22 giugno 20i.6, n. 12952,
in motiv.).
Inoltre, è stato ormai chiarito che il progetto educativo ed
il percorso di formazione prescelto dal figlio, se deve essere rispettoso
delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, deve tuttavia essere
"compatibile con le condizioni economiche dei genitori" (Cass. 20
agosto 2014, n. 18076; nello stesso senso molte altre, ad es. Cass. 11 aprile
2019, n. 10207, non massimata).
A ciò, si aggiunge coerentemente che il matrimonio o, comunque, la formazione
di un autonomo nucleo familiare escludono
l’esistenza dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne:
posto che il matrimonio, come la convivenza, sono espressione di una
raggiunta maturità affettiva e personale, implicando di regola che nessun
obbligo di mantenimento possa sopravvivere (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830;
Cass. 17 novembre 2006, n. 24498).
Dunque, ormai è acquisita la "funzione
educativa del mantenimento", in una col "principio di autoresponsabilità", anche tenendo conto, di contro,
dei doveri gravanti sui figli adulti.
Si è anche osservato come il riconoscimento d’un diritto al
mantenimento protratto oltre tali i limiti in favore
dei figli conviventi e sedicenti non autonomi finirebbe per determinare una
"disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile" nei
confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza resi
autosufficienti, abbiano in seguito perduto tale condizione: solo i primi,
infatti, si gioverebbero della normativa sul mantenimento, più favorevole, mentre
per gli altri varrebbe solo il diritto agi alimenti (Cass. 7 luglio 2004, n.
12477).
Nessun rilievo ha la situazione economico-patrimoniale del genitore, posto
che, al contrario, il diritto e l’obbligo de quibus
si fondano sulla situazione del figlio, non sulle
capacità reddituali dell’obbligato: onde si è reputato inammissibile il
motivo che tendeva a denunziare l’omessa considerazione delle
"ottime condizioni economiche" del padre, il quale "era
titolare di diversi fabbricati e terreni e aveva acquisito bene in via
ereditaria" (Cass. 25 settembre 2017, n. 22314).
4.2.2. - Nell’inventario delle situazioni che sicuramente escludono il
diritto al mantenimento, questa Corte ne ha individuate diverse.
Si è, così, affermato che l’obbligo dei
genitori non possa protrarsi sine die e che, pertanto - a parte le situazioni di
minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall’ordinamento -
esso trovi il suo limite logico e naturale: allorquando i figli si siano già
avviati ad un’effettiva attività lavorativa tale da consentir loro una
concreta prospettiva d’indipendenza economica; quando siano stati messi
in condizioni di reperire un lavoro idoneo a procurar loro di che sopperire
alle normali esigenze di vita; od ancora quando abbiano ricevuto la
possibilità di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare
un’attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; o,
comunque, quando abbiano raggiunto un’età tale da far presumere il
raggiungimento della capacità di provvedere a se stessi; infine, vi sono le
ipotesi, che inducono alle medesime conclusioni, nelle quali il figlio si sia
inserito in un diverso nucleo familiare o di vita comune, in tal modo
interrompendo il legame e la dipendenza morali e materiali con la famiglia
d’origine (cfr., per tali concetti: Cass. 7 luglio 2004, n. 12477).
4.2.3. - Si nota, pertanto, già un’evoluzione del diritto vivente, con
riguardo alla ritenuta autonomia del figlio, che tiene conto del mutamento
dei tempi e sempre più richiama il principio dell’autoresponsabilità:
se, un tempo, vi era il riferimento ad una raggiunta
"capacità del figlio di provvedere a sé con appropriata collocazione in
seno al corpo sociale" (Cass. 10 aprile 1985, n. 2372) ed alla
"percezione di un reddito corrispondente alla professionalità
acquisita" (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830), in seguito le mutate
condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza
di autonomia "di ritorno" - a volte in capo allo stesso genitore,
come nel caso di specie - hanno ormai indotto a ritenere che l’avanzare
dell’età abbia notevole rilievo, giacché si discorre, come sopra
ricordato, di una "funzione educativa del mantenimento" e del
"tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella
società" (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076).
Infatti: "l’obbligo di mantenimento non
può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di
un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di
conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto. Sotto questo
profilo la crisi occupazionale giovanile conserva un’incidenza
nel senso di dare al parametro dell’adeguatezza un carattere relativo
sia in ordine al contenuto dell’attività lavorativa che del livello
reddituale conseguente. L’attesa o il rifiuto di occupazioni non
perfettamente corrispondenti alle aspettative
possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali
non incolpevoli" (Cass. 22 giugno 2016, n. 12952, in motiv.), in
quanto "il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei
limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo,
tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la
funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la
portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia
di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il
suo inserimento nella società" (Cass. 5 marzo 2018, n. 5088: pur
nell’ambito dell’affermazione secondo cui l’onere della
prova per sottrarsi all’obbligo di mantenimento del maggiorenne grava
sul genitore).
In sostanza, è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca
comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in
attesa dell’auspicato reperimento di un impiego più aderente alle
proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che
a qualsiasi lavoro sia adatti soltanto, in vece sua,
il genitore.
Un’analoga evoluzione di concetti, si noti, ha interessato il diritto
all’assegnazione della casa familiare, dove si afferma con maggior
rigore, nell’attuale diritto vivente, che "il ritorno, in una data
frazione temporale, deve non solo avvenire con cadenza regolare, ma anche
essere frequente, sicché non può affermarsi la convivenza del figlio che, in
una data unità temporale, particolarmente estesa, risulti
obiettivamente assente da casa, sia pure per esigenze lavorative o di studio,
e che sebbene vi ritorni regolarmente non appena possibile. L’assenza per tutto il periodo considerato e la rarità dei
rientri per quanto regolari, non possono essere controbilanciati dalla sola
ipotetica regolarità del ritorno, altrimenti il collegamento con
l’abitazione diverrebbe troppo labile, sconfinando nel mero rapporto di
ospitalità" (Cass. 17 giugno 2019, n. 16134, in motivazione,
la quale ha confermato il decreto di revoca dell’assegnazione della
casa coniugale, basato sull’accertato rientro della figlia, iscritta
all’università in altra città, nell’abitazione del genitore
divorziato solo per pochi giorni durante le vacanze natalizie, pasquali ed
estive), così superando il precedente più lato orientamento.
Ciò conferma come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e
dell’autoresponsabilità - e non solo quelli
del "diritto ad ogni possibile diritto" -
dall’assistenzialismo anche il nostro ordinamento giuridico proceda di
pari passo con l’evoluzione della società civile, pur corroborando tali
principi con l’applicazione razionale e perdurante del principio di
solidarietà ex art. 2 Cost..
4.2.4. - Invero, il principio delrautoresponsabilità"
ha fatto ampio ingresso nel nostro ordinamento, anche in
presenza di un diritto che chieda di essere affermato, ed, anzi,
proprio per rendere ragionevole e "sostenibile" qualsiasi diritto.
La pienezza della scelta esistenziale personale deve pur fare i conti nel
bilanciamento con le libertà e diritti altrui di pari dignità.
Nei precedenti di questa Corte, il principio di "autoresponsabilità"
è spesso richiamato, nei settori più diversi: a delimitare il diritto
soggettivo secondo ragionevolezza, alla stregua delle clausole generali della
diligenza e della buona fede. Si tratta di un principio sovente richiamato
nella giurisprudenza di questa Corte, man mano che l’evoluzione dei
tempi induce ad accentuare i legami tra la pretesa dei diritti e
l’adempimento dei doveri, indissolubilmente legati già nell’art. 2 Cost..
Detto principio si rinviene, infatti, in una pluralità di decisioni: sia
quanto ai rapporti personali, con riguardo ad esempio all’assegno di
divorzio (Cass. 9 agosto 2019, n. 21228; Cass. 29 agosto
2017, n. 20525; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926) o del separato con nuova
convivenza, che tale scelta consapevole abbia compiuto (Cass. 19 dicembre
2018, n. 32871; Cass. 27 giugno 2018, n. 16982).
Del pari, nei rapporti patrimoniali, dove si richiama l’autoresponsabilità dell’operatore qualificato, allorché sottoscriva la relativa dichiarazione nel
contratto d’investimento finanziario (Cass. 24 aprile 2018, n. 10115,
non mass.; Cass. 20 marzo 2018, n. 6962, non mass.); dell’acquirente
nel contratto di compravendita, dove viene esclusa la garanzia nel caso di
facile riconoscibilità dei vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art.
1491 c.c. (Cass. 6 febbraio 2020, n. 2756); quanto agli effetti della
trascrizione, agganciati all’autoresponsabilità
del trascrivente, con riguardo all’inesatta indicazione, nella nota,
delle generalità della persona contro cui si intenda trascrivere (Cass. 19
marzo 2019, n. 7680).
Il concetto è poi criterio cui ampiamente si fa ricorso, alla stregua della regola generale ex art. 1227 c.c., nelle decisioni sui
danni, fra gli altri, da fumo attivo (Cass. 10 maggio 2018, n. 11272; Cass.
30 luglio 2013, n. 18267; Cass. 4 luglio 2007, n. 15131; nonché Cass. pen. 21 giugno 2013, n. 37762; Cass. pen.
27 gennaio 2012, n. 9479; Cass. pen. 21 dicembre
2011, n. 11197), al lavoratore per l’omissione di cautele doverose
(Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 2018, n. 5007;
Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883 e
Cass. pen., sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 3616),
all’utente nel trasporto ferroviario (Cass. 27 aprile 2011, n. 9409);
per il concorso del danneggiato pur minorenne (Cass. 1 febbraio 2018, n. 248)
e per i danni cagionati dai cd. grandi minori, ai sensi dell’art. 2048
c.c. (Cass. 31 gennaio 2018, n. 2334); per la responsabilità da cose in
custodia ex art. 2051 c.c. si richiede, da parte del danneggiato,
l’adozione delle cautele normalmente attese (fra le tante, Cass. 1
febbraio 2018, n. 2480).
E non mancano numerose decisioni che adottano il criterio della
autoresponsabilità processuale: quanto
all’interpretazione dell’art. 37 c.p.c.
(Cass., sez. un., 20 aprile 2018, n. 9912; Cass., sez. un. 20 ottobre 2016,
n. 21260; Cass., sez. un., 29 marzo 2011, n. 7097; Cass., sez. un., 28
gennaio 2011 n. 2067; Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883), ed, ancora,
in tema di scelta del foro competente, di notificazione, di mancata
integrazione del contraddittorio, di appello incidentale ex art. 346 c.p.c., nella lettura dell’art. 547 c.p.c., sulla dichiarazione di terzo, per l’irripetibilità
delle spese eccessive o superflue di cui all’art. 92 c.p.c., comma 1, o nel giudizio di opposizione agli atti
esecutivi (rispettivamente, cfr. Cass. 16 luglio 2019, n. 19048; Cass. 26
settembre 2019, n. 24071; Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940 e Cass. 31
luglio 2019, n. 20726; Cass. 26 febbraio 2019, n. 5489; Cass. 5 ottobre 2018,
n. 24571; Cass. 12 giugno 2018, n. 15193); ed in tema di notifica nel
domicilio eletto dell’invito al pagamento del contributo unificato, la
stessa Corte costituzionale ha fatto ricorso al principio (Corte Cost. 29
marzo 2019, n. 67).
4.3. - I figli minorenni. Nella materia in esame, occorre ora ulteriormente
osservare come, alla stregua della lettera e della ratio
dell’art. 337-septies c.c., comma 1, la legge si
fondi sull’assunto secondo cui l’obbligo in questione permane a
carico dei genitori sino al momento in cui il figlio raggiunga la maggiore
età, alla stregua del dovere di mantenere e del diritto di essere mantenuto,
rispettivamente previsti dall’art. 147 c.c. (per gli adottivi, dalla L.
4 maggio 1983, n. 184, art. 48, comma 2) e art. 315-bis c.c., comma 1.
Tale obbligo economico viene configurato, in modo
paritario, unitamente ad altri essenziali diritti-doveri verso la prole:
ossia quelli di "istruire, educare e assistere moralmente i figli".
Così come il dovere di educare a tutte le esigenze della vita e di procurare
un’istruzione ai figli - e, specularmente, di esigere la continuazione
negli studi oltre quelli dell’obbligo - può
ragionevolmente datarsi dalla nascita alla maggiore età del figlio, del pari
il dovere di mantenere i figli permane sicuramente fino a quella età, ai
sensi degli artt. 147 e 315-bis c.c..
4.4. - I figli maggiorenni. Da tale momento, subentra la diversa disposizione
"in favore dei figli maggiorenni", di cui all’art.
337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta essi siano
"non indipendenti economicamente": nella quale l’obbligo non
è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla
dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le "circostanze" del
caso concreto.
Esso sarà quindi disposto - pena la superfluità della norma di riserva alla
decisione del giudice - non solamente e non
semplicemente perché manchi l’indipendenza economica del figlio
maggiorenne.
Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre,
invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione
circa l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento
inesistente.
Nel concetto di "indipendenza economica" questa Corte ha condivisibilmente ricondotto quanto occorre per
soddisfare le primarie esigenze di vita, secondo nozione ricavabile
dall’art. 36 Cost., dunque in presenza della
idoneità della retribuzione a consentire un’esistenza dignitosa (Cass.
11 gennaio 2007, n. 407). La legge, quindi, fonda l’estinzione
dell’obbligo di contribuzione dei genitori nei
confronti dei figli maggiorenni, in concomitanza all’acquisto della
capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al
raggiungimento della maggiore età.
Tale la conclusione appare coerente, sul piano assiologico,
con gli artt. 1, 4 e 30 Cost.: i primi due che
proclamano - addirittura in cima ai principi fondamentali della Repubblica -
essere questa "fondata sul lavoro"; il terzo che afferma il
"dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i
figli", secondo una correlazione ineliminabile fra funzione educativo-formativa ed obbligo di mantenimento.
Osservandosi dunque dalla dottrina, che si è occupata
ex professo dell’argomento, come, perché si dia un senso
all’obbligo economico a favore dei figli maggiorenni a carico dei
genitori, ormai non più titolari di poteri disciplinari e rappresentativi,
tale obbligo necessariamente si correla alla concreta condotta di impegno
nella personale formazione, o, dove terminata, nella ricerca di un impiego.
Si tratta, in sostanza, dell’applicazione del principio
dell’abuso del diritto, o, meglio, ricorrendo
alle clausole generali da tempo caratterizzanti il nostro ordinamento, della
buona fede oggettiva: il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non
può sorgere già "abusivo" o "di mala fede": onde, perché
esso sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica
non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad
instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse
per la ricerca della dovuta una indipendenza economica.
Al riguardo, questa Corte ha da tempo operato
condivisibili riferimenti ai principi predetti della
"ragionevolezza", della "normalità" e del divieto di
abuso del diritto (Cass. 20 agosto 2014, n. 18076; nonché Cass. 1 febbraio
2016, n. 1858).
Secondo il principio della autoresponsabilità
dei soggetti, più sopra richiamato.
Non è dunque necessaria una prescrizione legislativa, che, come da taluno in
dottrina aveva auspicato, fissi in modo specifico l’età in cui
l’obbligo di mantenimento del figlio viene meno: in quanto, sulla base
del sistema positivo, tale limite è già rinvenibile e risiede nel raggiungimento
della maggiore età, salva la prova (sovente raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per
l’esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in
fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di
un lavoro o sistemazione che assicuri l’indipendenza economica.
Il concetto è quello della cd. capacità lavorativa,
intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro
remunerato. Essa si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone
raggiunta l’autonomia ed attribuisce piena
capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode
della capacità di agire (e di voto): salva la prova di circostanze che
giustificano, al contrario, il permanere di un obbligo di mantenimento.
In mancanza, il figlio maggiorenne non ne ha diritto; ed,
anzi, può essere ritenuto egli stesso inadempiente all’obbligo, posto a
suo carico dall’art. 315-bis c.c., comma 4, di "contribuire, in
relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito,
al mantenimento della famiglia finché convive con essa".
4.5. - Fondamenti sostanziali del diritto al mantenimento del maggiorenne. I
criteri del diritto all’ulteriore mantenimento
sono quelli sopra esposti, come di seguito specificati in ordine alle diverse
circostanze, peraltro limitatamente a quelle afferenti l’odierno thema decidendum.
4.5.1. - La raggiunta età matura del figlio, in ragione dello stretto
collegamento tra doveri educativi e di istruzione,
da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro lato, assume rilievo
in sé (i primi non potendo che cessare ad un certo punto
dell’evoluzione umana): l’età maggiore, pertanto, tanto più
quando è matura - perché sia raggiunta, secondo l’id
quod plerumque accidit, quell’età in cui si cessa di essere
ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie
scelte di vita, anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne -
implica l’insussistenza del diritto al mantenimento.
4.5.2. - Con particolare riguardo all’attività di studio, occorre
osservare come sia del tutto corretto che tale opportunità venga dai genitori
offerta alla prole, atteso che l’ordinamento giuridico tutela le
esigenze formative e culturali (artt. 9, 30, 33 e 34
Cost.), comportando tale arricchimento personale anche un indiretto beneficio
alla società.
Ciò vuol dire che, trascorso un lasso di tempo
sufficiente dopo il conseguimento di un titolo di studio, non potrà più
affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto: il diritto non
sussiste, cioè, certamente dopo che, raggiunta la maggiore età, sia altresì
trascorso un ulteriore lasso di tempo, dopo il conseguimento dello specifico
titolo di studio in considerazione (diploma superiore, laurea triennale,
laurea quinquennale, ecc.), che possa ritenersi idoneo a procurare un qualche
lavoro, dovendo essere riconosciuto al figlio il diritto di godere di un
lasso di tempo per inserirsi nel mondo del lavoro.
Tale regola vale in tutti i casi in cui il soggetto ritenga di avere concluso il proprio percorso formativo e non abbia,
pertanto, l’intenzione di proseguire negli studi per un migliore
approfondimento, in quanto il figlio reputi terminato il periodo di
formazione ed acquisizione di competenze.
La capacità di mantenersi e l’attitudine al lavoro sussistono
sempre, in sostanza, dopo una certa età, che è quella tipica della
conclusione media un percorso di studio anche lungo, purché proficuamente
perseguito, e con la tolleranza di un ragionevole lasso di tempo ancora per
la ricerca di un lavoro.
Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un
limite sulla base di un termine, desunto dalla
durata ufficiale degli studi e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane
laureato, in una data realtà economica, affinché possa trovare un impiego;
salvo che il figlio non provi non solo che non sia stato possibile procurarsi
il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che neppure un altro
lavoro fosse conseguibile, tale da assicurargli l’auto-mantenimento.
A ciò si aggiunga che, del pari, dovrà tenersi conto dell’adeguatezza e
ragionevolezza delle opzioni formative, operate dal
figlio, rispetto alle condizioni della famiglia, cui non è ammesso imporre un
contributo per essa eccessivamente gravoso e non rientrante nelle sue
concrete possibilità economiche, tenuto conto - secondo buona fede - della
non imposizione di un eccessivo sacrificio alle altrui esigenze di vita.
Occorre, altresì, considerare l’esistenza di provvidenze e sovvenzioni,
che lo Stato e molte istituzioni formative predispongono in favore degli
studenti meritevoli: i quali - laddove maggiorenni, che pretendano il
mantenimento dai propri genitori - potranno, in tal modo, agevolmente
dimostrare come la vincita, ad esempio, di una borsa di studio
palesi la proficuità della prosecuzione negli studi e la debenza, quindi, dell’intero mantenimento in
proprio favore.
Più in generale, pertanto, una maggiore tutela meriterà il figlio che
prosegua negli studi con impegno, diligenza e passione, rispetto a chi si
trascini stancamente in un percorso di "studi" nient’affatto
proficuo.
4.5.3. - Quanto al tipo di impiego desiderato, non
sussiste, nella dovuta ricerca dell’aspirato lavoro, un rigido vincolo
alla preparazione teorica in atto, dal momento che integra, invece, un dovere
del figlio la ricerca comunque dell’autosufficienza economica, secondo
un principio di autoresponsabilità nel contemperare
le aspirazioni di lavoro con il concreto mercato del lavoro.
Anzi, deve ritenersi che tale dovere sussista, vuoi ex ante, sin dagli esordi
del corso di studi, che il figlio ha l’onere di ponderare in
comparazione con le proprie effettive capacità personali, di studio e di impegno, oltre che con le concrete offerte ed
opportunità di prestazioni lavorative; vuoi ex post, quando esso si atteggia
quale dovere di ricercare qualsiasi lavoro e di attivarsi in qualunque
direzione sia necessario.
4.5.4. - Riassuntivamente, tra le evenienze che comportano il
sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non
autosufficiente, si pongono, fra le altre: a) la condizione di una peculiare
minorazione o debolezza delle capacità personali, pur non sfociate nei
presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci; b) la
prosecuzione di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma
l’esistenza di un iter volto alla realizzazione delle proprie
aspirazioni ed attitudini, che sia ancora
legittimamente in corso di svolgimento, in quanto vi si dimostrino effettivo
impegno ed adeguati risultati, mediante la tempestività e l’adeguatezza
dei voti conseguiti negli esami del corso intrapreso; c) l’essere
trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli
studi, svolti dal figlio nell’ambito del ciclo di studi che il soggetto
abbia reputato a sé idoneo, lasso in cui questi si sia razionalmente ed
attivamente adoperato nella ricerca di un lavoro; d) la mancanza di un
qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili
tentativi di ricerca dello stesso, sia o no confacente alla propria specifica
preparazione professionale.
Nella concreta valutazione di tali elementi, può essere
ragionevolmente operato dal giudice proficuo riferimento ai dati statistici,
da cui risulti il tempo medio, in un dato momento
storico, al reperimento di una occupazione, a seconda del grado di
preparazione conseguito.
4.6. - Conseguenze sull’onere della prova. Da
quanto esposto deriva che l’onere della prova
delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del
richiedente.
L’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggiore età del figlio;
in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice,
sulla base delle norme richiamate.
Ai fini dell’accoglimento della domanda, pertanto, è onere del
richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza
economica - che è la precondizione del diritto preteso - ma di avere curato,
con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica
e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro.
Non è dunque il convenuto - soggetto passivo del rapporto - onerato della
prova della raggiunta effettiva e stabile indipendenza economica del figlio,
o della circostanza che questi abbia conseguito un
lavoro adeguato alle aspirazioni soggettive.
Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito,
che, per essere vinta, necessita della prova delle
fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.
Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o
vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell’onere
probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie
sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od
impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da
rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in
giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova;
conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad
essa compete l’onere della prova, pur negativa (Cass. 25 luglio 2008,
n. 20484; nonché ancora Cass. 16 agosto 2016, n. 17108; Cass. 14 gennaio
2016, n. 486; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass., sez. un., 30 ottobre
2001, n. 13533; Cass. 25 luglio 2008, n. 20484; Cass. 1 luglio 2009, n.
15406).
4.7. - La prova presuntiva. Peraltro, le concrete situazioni di vita saranno
sovente ragione d’integrazione della prova presuntiva circa
l’esistenza del diritto, in quanto, ad esempio, incolpevole del tutto o
inesigibile sia la conquista attuale di una posizione lavorativa, che renda
il figlio maggiorenne economicamente autosufficiente.
Se, pertanto, sussista una condotta caratterizzata da intenzionalità (ad es.
uno stile di vita volutamente inconcludente e sregolato) o da colpa (come
l’inconcludente ricerca di un lavoro protratta all’infinito e
senza presa di coscienza sulle proprie reali
competenze), certamente il figlio non avrà dimostrato di avere diritto al
mantenimento.
Ne deriva che, in generale, la prova sarà tanto più lieve per il figlio,
quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne; di
converso, la prova del diritto all’assegno di mantenimento sarà più
gravosa, man mano che l’età del figlio aumenti, sino a configurare il
"figlio adulto", in ragione del principio dell’autoresponsabilità, con riguardo alle scelte di vita fino
a quel momento operate ed all’impegno profuso,
nella ricerca, prima, di una sufficiente qualificazione professionale e, poi,
di una collocazione lavorativa.
In particolare, tale onere della prova risulterà
particolarmente lieve in prossimità della maggiore età, appena compiuta, ed
anche per gli immediati anni a seguire, quando il soggetto abbia intrapreso,
ad esempio, un serio e non pretestuoso studio universitario: già questo
integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo per meglio
avanzare verso l’ingresso nel mondo del lavoro (e non solo).
4.8. - Volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento. Giova appena
aggiungere che la volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento da
parte del genitore, sia egli convivente o no, è ben
ammissibile anche al di fuori delle condizioni esposte.
Ciò, tuttavia, sulla base del diverso principio della libera
autodeterminazione delle opzioni proprie della
famiglia.
4.9. - L’obbligo degli alimenti. Altro è il
perdurare dell’obbligo degli alimenti.
La disciplina prevede che presupposto per il conseguimento dell’assegno
sia la mancanza dei mezzi necessari di sussistenza, nè
essi sono rinunciabili.
L’entità dell’assegno viene qui
commisurata ai bisogni primari ed essenziali, per tutto il tempo in cui ciò
sia necessario, posto che il relativo diritto viene meno solo se cessino i
requisiti richiesti per la sua erogazione; onde il genitore non interromperà
comunque l’adempimento della prestazione de qua, che permane dopo la
maggiore età.
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