Aggiornamento - Civile

Cass. Civ., sez. I, Sent. 5 marzo 2004, n. 4520, sull’efficacia del contratto istitutivo di un pegno rotativo

 

 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il dr. Sergio Bottega, agente di cambio in Venezia, fu dichiarato fallito dal tribunale di quella città con sentenza del 7 agosto 1995.
Il curatore del fallimento rilevò che il dr. Bottega, in data 19 aprile 1994, aveva costituito un pegno su titoli di stato, in favore del Banco di Napoli, a garanzia dello scoperto di un conto corrente a lui intestato, per un importo di complessive £. 5.484.000.000; ma che siffatti titoli, posti in gestione centralizzata presso la Banca d'Italia, nel luglio 1995 erano risultati in parte diversi e di minore ammontare rispetto a quelli originariamente costituiti in pegno. Rilevò, inoltre, che il Banco di Napoli, in data 5 maggio 1995, aveva concesso al dr. Bottega un finanziamento in marchi tedeschi per un importo corrispondente a £. 2.019.600.000, ma che poi, appreso della sospensione dell'agente di cambio per irregolarità ad opera della Consob, aveva revocato l'affidamento ed aveva proceduto alla vendita dei titoli, così da estinguere le passività accumulate.
Sulla scorta di tali premesse, con atto notificato il 22 maggio 1998, il curatore citò in giudizio il Banco di Napoli dinanzi al tribunale di Venezia e chiese: che fosse dichiarata la nullità o l'inopponibilità del pegno acceso nell'aprile del 1994 per mancata individuazione dei titoli che ne avevano formato oggetto; che fosse accertata l'illiceità della vendita dei suaccennati titoli, in quanto eseguita per ripianare un debito da finanziamento in valuta, diverso da quello per il quale il pegno era stato costituito; che l'atto costitutivo del pegno fosse revocato, sussistendo le condizioni previste dall'art. 67 della legge fallimentare, con conseguente condanna del Banco di Napoli a restituire i titoli ricevuti ed i relativi frutti. Chiese, inoltre, ma in via subordinata, che fosse revocato, ai sensi del citato art. 67 della legge fallimentare, anche il pagamento del finanziamento in valuta sopra menzionato e che, quindi, l'istituto di credito convenuto fosse condannato a corrispondere al fallimento l'importo di £. 1.988.357.455, oltre agli interessi ed al risarcimento del danno per svalutazione monetaria.
Il Banco di Napoli, dopo essersi costituito in giudizio per resistere alle domande contro di esso proposto, con una prima memoria depositata il 14 novembre 1998 produsse copia dell'estratto conto il cui scoperto era stato garantito con il pegno costituito in data 19 aprile 1994: con una successiva memoria del 17 febbraio 1999 depositò copia di lettere dalle quali risultava la concessione in pegno di ulteriori titoli, da parte del medesimo dr. Bottega, in data 28 dicembre 1994.
La curatela fallimentare eccepì l'inopponibilità di questo ulteriore pegno per difetto di data certa.
Il tribunale, con sentenza del 10 marzo 2000, dopo aver rilevato che l'originario pegno, costituito il 19 aprile 1994, risultava estinto già nel luglio di quello stesso anno, ritenne che il successivo contratto di pegno, stipulato tra le medesime parti il 28 dicembre 1994, fosse privo di data certa; ne dichiarò poi d'ufficio la nullità, per insufficiente determinazione dei titoli dati in garanzia, o comunque l'inopponibilità al fallimento, con conseguente condanna del Banco di Napoli alla restituzione dei titoli e dei frutti.
Il Banco di Napoli propose appello, negando che il giudice avesse il potere di pronunciarsi d'ufficio sulla validità e sull'opponibilità di un contratto di pegno diverso da quello cui la parte attrice si era riferita in citazione. Insistette nel sostenere, comunque, la validità e la certezza della data del contratto in questione.
Il fallimento ripropose, anche in forma di appello incidentale, le domande e le eccezioni tutte già formulate in primo grado.
La Corte d'Appello di Venezia, con sentenza depositata il 24 luglio 2002, premesso che le domande avanzate in primo grado dalla curatela non erano riferibili al contratto di pegno del 28 dicembre 1994, ha ritenuto che non potesse il tribunale dichiarare d'ufficio la nullità di tale contratto senza così violare il principio di corrispondenza tra quanto richiesto e quanto pronunciato. Esaminando le domande ribadite in secondo grado dal fallimento, la corte si è però ugualmente soffermata a valutare se il pegno da ultimo menzionato avesse o meno il requisito della data certa, e lo ha escluso ritenendo a tal fine insufficiente il timbro postale apposto su documenti spediti dalla banca a sé medesima. Ne ha dedotto che l'estinzione dei debiti del dr. Bottega, mediante la vendita dei titoli ordinata dal debitore e conseguente accredito del ricavato sul conto corrente a lui intestato, non potesse trovare nel precedente rapporto di pegno una valida giustificazione, trattandosi oltre tutto di debiti non garantiti da quel pegno. Ha perciò giudicato che, ricorrendo tutte le condizioni a tal fine richieste dall'art. 67, comma 2, l. fall., dovesse essere accolta la domanda subordinata con cui la curatela aveva chiesto la revoca del pagamento; e quindi, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dopo aver disatteso le altre domande del fallimento, ha revocato unicamente l'anzidetto pagamento di £. 1.988.375.455 ed ha condannato il Banco di Napoli a corrispondere alla controparte la somma di
€. 1.026.910,20, oltre agli interessi ed alle spese di entrambi i gradi del giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Banco di Napoli, prospettando due motivi di censura.
Resiste la curatela del fallimento, formulando altresì ricorso incidentale articolato in sei motivi (l'ultimo dei quali condizionato), cui il banco di Napoli a propria volta replica con controricorso.
Entrambe le parti, hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi proposti avverso il medesimo provvedimento debbono preliminarmente essere riuniti, come prescrive l'art. 335 c.p.c..
2. Per ragioni di ordine logico appare preferibile esaminare anzitutto i primi quattro motivi del ricorso incidentale, che tutti in vario modo attengono alle domande proposte in via principale dalla curatela del fallimento nell'atto introduttivo del giudizio al fine ultimo di conseguire la restituzione dei titoli costituiti in pegno dal dr. Bottega.
2.1. Il fallimento si duole, in primo luogo, della violazione degli artt. 112 e 183 c.p.c., nonché 2797 c.c..
La doglianza si riferisce al mancato esame nel merito delle domande con cui lo stesso fallimento aveva inteso far accertare la nullità, o l'inopponibilità alla massa, dell'originario pegno costituito dal dr. Bottega nell'aprile del 1994. Il tribunale, prima, e la corte d'appello, poi, hanno ritenuto tali domande superate dalla circostanza che quel pegno si era estinto già nel luglio dello stesso anno, per avvenuto pagamento del debito a garanzia del quale era sorto. Il fallimento assume, però, che un'accezione in tal senso non era stata tempestivamente sollevata dalla difesa di parte convenuta e censura l'impugnata sentenza sotto due profili: per aver affermato che l'indicata circostanza integrava un fatto costitutivo della domanda e non postulava quindi un onere di formale eccezione da parte del convenuto; per aver ravvisato, comunque, la proposizione implicita della relativa eccezione nella mera produzione di documenti inerenti alla situazione del conto corrente acceso dal dr. Bottega presso il Banco di Napoli.
2.1.1. Il primo dei prospettati profili di doglianza - certamente ammissibile, perché riferito ad una questione già a suo tempo prospettata nella comparsa di costituzione in appello del fallimento - non è fondato (e ciò rende superfluo l'esame del secondo profilo).
La sopravenuta inesistenza o la cessazione degli effetti di un atto giuridico costituiscono certamente oggetto di necessaria eccezione da parte del convenuto, se gli effetti di quell'atto siano stati posti dall'attore a fondamento di una propria pretesa nei riguardi del convenuto medesimo. Quando, invece, come nel presente caso, l'azione sia volta a far accertare l'invalidità o l'inefficacia di un atto, la circostanza che questo sia tuttora in essere o che lo siano i suoi effetti costituisce uno dei presupposti indispensabili per dare senso alla domanda ed all'interesse che la muove. Ne consegue che il rilievo della compiuta estinzione degli effetti dell'atto, in quest'ultima ipotesi, se immediatamente ricavabile dalle risultanze istruttorie, deve essere operato anche d'ufficio e non postula l'esistenza di una tempestiva eccezione della controparte, contrariamente a quanto sostenuto dalla curatela fallimentare.
Né varrebbe obiettare che anche la sopravvenuta estinzione del pegno avrebbe potuto giustificare, in astratto, una domanda di restituzione dei titoli consegnati alla banca per costituire la garanzia in concreto non escussa, giacché ciò implicherebbe, con ogni evidenza, una causa petendi diversa da quella in concreto prospettata.
E' poi appena il caso di aggiungere che l'ulteriore obiezione avanzata dalla curatela dal fallimento nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. - obiezione secondo la quale anche i fatti di per sé rilevabili d'ufficio ad opera del giudice postulerebbero il preventivo e tempestivo adempimento dell'onere di allegazione della parte - configura una doglianza diversa da quella contenuta nel ricorso, e non può quindi esser presa in esame, essendo consentito in detta memoria illustrare i motivi d'impugnazione già prospettati ma non anche introdurre motivi o profili di censura nuovi.
2.2. Il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta la violazione degli artt. 2786 e segg. c.c., oltre che vizi di motivazione della sentenza impugnata, pone l'accento sul nesso che esisterebbe tra il primo atto di costituzione di pegno, risalente all'aprile del 1994, ed il successivo atto del dicembre dello stesso anno.
La corte d'appello, come s'è detto, ha distinto nettamente tali atti ed ha ritenuto che le domande di nullità ed inopponibilità del pegno, proposte dal fallimento attore, fossero riferibili solo al primo di essi (che, tuttavia, aveva orami cessato di operare), non potendo quindi il giudice pronunciare d'ufficio anche in ordine al secondo. E tale affermazione la corte ha corroborato con il rilievo che il pegno del dicembre 1994 non costituiva una mera variazione di quello precedente, in guisa di "pegno rotativo", non essendovi corrispondenza tra il valore dei titoli dati in garanzia nell'uno e nell'altro caso.
Il fallimento obietta che, per realizzarsi la fattispecie del c.d. "pegno rotativo", è necessario che i beni costituiti in garanzia al posto di quelli originari abbiano un valore (non già corrispondente, bensì) non superiore ai primi: donde l'errore, o comunque il vizio d'insufficiente motivazione, in cui sarebbe incorsa la corte territoriale.
2.2.1. La censura non coglie nel segno.
Questa corte ha ripetutamente affermato che è legittimo il c.d. "pegno rotativo", che si realizza quando nella convenzione costitutiva della garanzia le parti prevedano la possibilità di sostituire i beni originariamente costituiti in garanzia, con la conseguenza che la sostituzione posta non determina effetti novativi sul rapporto iniziale, a condizione che risulti da atti scritti aventi data certa, che avvenga la consegna del bene e che il bene offerto in sostituzione abbia un valore non superiore a quello sostituito (Cass., 27 settembre 1999, n. 10685; e Case., 28 maggio 1998, n. 5264).
Ciò che è decisivo, perché possa realizzarsi una simile situazione e perché possa riconoscersi l'unitarietà della fattispecie negoziale, é dunque, anzitutto, l'esistenza di una convenzione che preveda un siffatto meccanismo di sostituzione dei beni dati in pegno, ferme poi restando le ulteriori suindicate condizioni. Ma la curatela del fallimento ricorrente non postula neppure di aver dedotto l'esistenza di una simile originaria convenzione o, comunque, di aver fornito elementi di fatto - dei quali la corte di merito avrebbe immotivatamente trascurato l'esame - idonei a dimostrarla. Anzi, nell'esposizione dei fatti contenuta nel controricorso, si indica con chiarezza che oggetto del primo pegno erano unicamente i "titoli che a quell'epoca risultavano depositatati".
La sola questione del rapporto di valore esistente tra i beni costituiti in pegno in momenti diversi non appare, pertanto, dotata di quel carattere di decisività indispensabile per dare fondamento al dedotto motivo di ricorso.
2.3. Con il terzo mezzo, la curatela, lamentando vizi di motivazione e la violazione dell'art. 184-bis c.p.c., censura l'interpretazione meramente letterale data dalla corte d'appello alla domanda di nullità o revoca del pegno.
Quella domanda, a detta della medesima curatela, pur se contenente un'indicazione errata circa la data del pegno (19 aprile 1994), avrebbe dovuto essere logicamente pur sempre riferita al pegno avente ad oggetto i titoli che poi il Banco di Napoli aveva proceduto a vendere per soddisfare le proprie ragioni creditorie. Ed, in ogni caso, poiché il predetto errore nell'indicazione della data del pegno era dipeso da inesatte comunicazioni provenienti dal medesimo Banco di Napoli, rettificate solo dopo che era scaduto il termine processuale utile per modificare la domanda proposta dal fallimento, la corte territoriale avrebbe dovuto accogliere l'istanza di rimessione in termini, che non era stata esaminata.
2.3.1. Nemmeno tale motivo di ricorso può essere accolto.
E' principio consolidato quello per cui l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua reale portata costituiscono un'operazione riservata al giudice di merito, il cui giudizio, risolvendosi in un tipico accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo del controllo della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (cfr., ex multis, Cass., 3 marzo 2001, n. 3094; e Cass., 14 aprile 1999, n. 3678).
Ora, è vero che, nell'esercizio del potere d'interpretazione o qualificazione della domanda, il giudice di merito non è vincolato in modo assoluto dalle parole adoperate dalla parte e non deve necessariamente attenersi solo alla lettera degli atti in cui le domande risultino articolate (Cass. 5 ottobre 2002, n. 14303; e Cass., 20 marzo 1999, n. 2574). Ma non può dubitarsi che la prima e più pertinente interpretazione resta pur sempre quella che fa riferimento alle espressioni usate da chi la domanda ha formulato: onde un'interpretazione che su tale base si fondi, ove non sussistano elementi di contraddizione o di grave ambiguità semantica, o comunque tali da far apparire evidente che le parole hanno tradito l'intenzione di chi le ha adoperate, non può dirsi sol per questo illogica, insufficiente o contraddittoria.
Nel caso in esame, la corte d'appello ha testualmente richiamato nella propria sentenza il tenore letterale della domanda formulata dalla curatela del fallimento, ha sottolineato l'inequivoco riferimento contenuto in tale domanda all'atto costitutivo di pegno del 19 aprile 1994 ed ha reputato un siffatto riferimento evidentemente troppo preciso ed esplicito da consentire una diversa e più ampia lettura. Si tratta, perciò, di una valutazione adeguatamente motivata, che non può essere rimessa in discussione nell'ambito del giudizio di legittimità.
Non è poi esatto che la corte d'appello abbia omesso di pronunciarsi sull'istanza di rimessione in termini, proposta dalla medesima curatela fallimentare ai sensi dell'art. 184-bis c.p.c., risultando invece che tale istanza è stata espressamente respinta per difetto dei relativi presupposti (si veda l'incipit di pag. 10 della sentenza impugnata).
2.4. Il quarto motivo del ricorso incidentale si sofferma sull'assunto, fatto proprio dalla corte d'appello, secondo cui, in difetto di una domanda della curatela attrice specificamente riferibile al pegno costituito nel dicembre 1994, male aveva fatto il tribunale a pronunciare d'ufficio la nullità di tale pegno. Nel denunciare la violazione dell'art. 1421 c.c., la ricorrente assume invece che, essendo stata l'esistenza del predetto pegno del dicembre 1994 dedotta in causa dal Banco di Napoli in via di eccezione, era del tutto legittimo che il giudice ne rilevasse anche d'ufficio la nullità.
2.4.1. La doglianza è palesemente infondata.
E' sufficiente al riguardo rilevare come, tanto dalla narrativa dell'impugnata sentenza quanto dall'esposizione dei fatti contenuta nelle premesse del medesimo ricorso incidentale, non si ricavi affatto l'esistenza di un'eccezione del Banco di Napoli, fondata sull'atto di pegno del dicembre 1994, in forza della quale sarebbero state respinte le domande della curatala attrice riferite invece al precedente pegno dell'aprile di quello stesso anno.
S'è già detto che quelle domande sono state disattese in entrambi i gradi del giudizio di merito - d'ufficio, prima ancora che per effetto di eccezione di parte convenuta - per avere ormai da tempo il primo di tali pegni cessato di esplicare ogni effetto a causa dell'estinzione dei crediti da esso garantiti. L'esistenza del secondo pegno (quello del dicembre 1994) non ha quindi in alcun modo formato oggetto di un'eccezione sollevata nella presente causa per paralizzare le domande proposte in via principale dalla curatela attrice nell'atto introduttivo del giudizio (e neppure - come meglio si vedrà esaminando il ricorso proposto dal Banco di Napoli avverso l'accoglimento della domanda subordinata di revoca dei pagamenti - cosa risulta decisiva in tale ulteriore prospettiva). Escluso, quindi, che le domande di parte attrice fossero riferibili a detto secondo pegno, difettava ogni presupposto perché il giudice adito potesse dichiararne d'ufficio la nullità o l'inopponibilità.
3. Passando ora all'esame del ricorso principale, proposto dal Banco di Napoli, va rilevato subito che entrambi i motivi in cui esso si articola riguardano passi dell'impugnata sentenza concernenti il secondo dei due pegni cui sopra s'è fatto ripetutamente cenno (quello datato 28 dicembre 1994).
Come s'è già dianzi più volte ricordato, il giudice di primo grado, pur escludendo che le domande proposte dal fallimento attore potessero esser riferite a tale secondo atto di pegno, aveva ritenuto di poterne dichiarare d'ufficio la nullità e l'inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali. La corte d'appello é stata però di diverso avviso, espressamente escludendo l'ammissibilità di una pronuncia d'ufficio della nullità. Ciò nondimeno, essa ha poi esaminato l'eccezione della curatela fallimentare circa difetto di data certa dei documenti in cui era consacrato il menzionato atto di pegno, ed ha stimato che quei documenti non fossero opponibili al fallimento; e da tale inopponibilità, come si legge alla pag. 13 (ult. periodo) dell'impugnata sentenza, ha fatto discendere la conseguenza per cui "non può nemmeno esser ritenuto sul piano logico-giuridico che sia fondato l'assunto del Banco secondo il quale vi sarebbe stata la relativa escussione, con la vendita dei titoli nel mese di luglio del 1985 (rectius: 1995), peraltro per adempimento di obbligazioni con lo stesso non garantite (v. il contratto di finanziamento in valuta del 5.5.1995 e contratto costitutivo di pegno datato 28.12.1994 a garanzia di scoperti del c/c)". Affermazione che, a propria volta, prelude all'esame - ed al successivo accoglimento - della subordinata domanda di revoca (ex art. 67, comma 2, l. fall.) dell'operazione mediante la quale il Banco di Napoli, venduti i predetti titoli, ha soddisfatto i propri crediti nei confronti del dr. Bottega.
Ora, con il primo dei due motivi del ricorso principale, il Banco di Napoli denuncia la contraddizione in cui la corte territoriale sarebbe incorsa, dichiarando l'inopponibilità di un atto di pegno che essa stessa aveva riconosciuto non essere oggetto di alcuna domanda da parte della curatela attrice, con conseguente violazione del principio per il quale il giudice non può pronunciare oltre i limiti del richiesto. Ed il ricorrente aggiunge che analogo vizio inficerebbe la revoca del pagamento, disposta ai sensi dell'art. 67, secondo comma, l. fall., giacché la curatela attrice aveva invece fatto riferimento, nella propria domanda subordinata, alla diversa ipotesi contemplata dal primo comma di detto articolo.
Il secondo motivo del medesimo ricorso principale investe, invece, il merito della questione trattata dalla corte d'appello nei termini sopra riferiti. Il ricorrente, denunciando la violazione dell'art. 2704 c.c., insiste infatti nel sostenere che l'apposizione del timbro postale sul corpo stesso del documento contenente la dichiarazione negoziale vale a conferire data certa a tale dichiarazione; e comunque si duole della mancata ammissione della prova testimoniale dedotta a conferma della data figurante sull'atto.
3.1. Il ricorso così articolato - che ben può essere esaminato unitariamente - è in massima parte inammissibile e, per il resto, infondato.
3.1.1. Il profilo d'inammissibilità investe le censure rivolte contro la dichiarazione d'inopponibilità al fallimento dell'atto di pegno del quale ora si discute. Occorre infatti considerare che l'ampio excursus con cui la corte veneta ha argomentato il proprio convincimento in ordine al difetto di data certa del documento contrattuale cui prima s'è fatto cenno non mette capo ad alcun decisum che specificamente riguardi questo tema (ciò che, effettivamente, sarebbe stato inconciliabile con la precedente affermazione della stessa corte circa l'impossibilità di dichiarare d'ufficio la nullità di quell'atto, non toccato da alcuna domanda di parte attrice; tanto meno si sarebbe potuto allora dichiararne d'ufficio l'inopponibilità).
Quel che forma oggetto di decisione della corte d'appello è soltanto la revoca, ex art. 67, comma 2, l. fall., dell'operazione solutoria con cui la banca ha soddisfatto il proprio credito nei confronti del dr. Bottega. Ma tale pronuncia, benché l'impugnata sentenza sembri anzitutto farla discendere dai precedenti rilievi in tema d'inopponibilità al fallimento dell'atto di pegno, per difetto di data certa dell'atto medesimo, si fonda anche su un'ulteriore e diversa ragione, del tutto indipendente da quei precedenti rilievi.
La corte d'appello, infatti, ha espressamente affermato che il pagamento, poi revocato, realizzato "con la vendita dei titoli nel mese di luglio del 1985 (rectius: 1995)", non ha rapporto con il pegno di cui si discute, essendo intervenuto "peraltro per l'adempimento di obbligazioni con lo stesso non garantite", e tale affermazione é documentata col richiamo al contratto di finanziamento in valuta da cui il credito poi estinto ha avuto origine, da un lato, e quello all'atto costitutivo di pegno del dicembre 1994, dall'altro (si veda l'impugnata sentenza, pag. 13, in fine).
Stando così le cose, appare evidente che tale ultimo rilievo costituisce un'autonoma ratio decidendi, di per sé sola idonea a sorreggere la conclusione per la quale il contratto di pegno in questione non ostava all'accoglimento della domanda di revoca del pagamento realizzato mediante la vendita dei titoli, avendo la corte di merito accertato un difetto di corrispondenza tra le obbligazioni così estinte e quelle che il pegno era volto a garantire. Una ratio decidendi, questa, non specificamente impugnata dal ricorrente, che rende perció di fatto del tutto irrilevante la discussione sulla certezza della data di un atto di pegno, in quanto tale non oggetto di domande né di pronunce specifiche, e che - come la corte d'appello ha insindacabilmente accertato - non ha attinenza con il debito il cui pagamento é stato revocato dalla corte d'appello.
3.1.2. Quanto, invece, alla pronuncia di revoca di tale pagamento, le censure della banca ricorrente sono ugualmente inammissibili, laddove enunciano un'errata interpretazione del citato art. 67, comma 2, legge fall., senza in alcun modo specificare in che cosa il denunciato errore di diritto consisterebbe; e sono prive di fondamento laddove lamentano un vizio di extrapetizione, giacché, viceversa, dalla stessa narrativa dell'impugnata sentenza con chiarezza si desume come la curatela del fallimento avesse espressamente proposto, sia pure in via subordinata, anche una domanda di revoca dei pagamenti espressamente fondata sulla previsione del secondo comma dell'articolo sopra menzionato.
4. Le considerazioni appena svolte esonerano dall'esame del sesto motivo del ricorso incidentale, proposto dalla curatela del fallimento solo in via condizionata.
5. Resta però ancora da prendere in considerazione il quinto motivo di detto ricorso incidentale, col quale la curatela lamenta che la corte d'appello avrebbe violato l'art. 345 c.p.c., perché ha riformato il quantum delle spese processuali liquidate dal tribunale laddove il Banco di Napoli, nel proprio appello, si era lamentato unicamente del fatto che tali spese fossero state poste a suo carico.
5.1. Anche quest'ultima doglianza non è fondata.
Il giudice del gravame, quando riformi (sia pure solo parzialmente) la sentenza di primo grado, é tenuto a statuire sul carico delle spese ed a liquidarle con riguardo all'intero giudizio. Non é quindi prospettabile un giudicato parziale o alcuna altra preclusione che investa unicamente il quantum delle spese precedentemente liquidate dal primo giudice, non essendo ancora definito se e da chi esse siano dovute.
Ne deriva che non incorre in un vizio di ultrapatizione il giudice d'appello il quale, nel pronunciare sulle spese di entrambi i gradi del giudizio, provvede ex novo a liquidare anche quelle del primo grado, pur in assenza di uno specifico gravame della parte sul punto.
Per il resto, l'entità della liquidazione delle spese operata nel presente caso dalla corte veneta sfugge ad ogni possibile sindacato di legittimità, non essendo stata prospettata alcuna violazione delle tariffe forensi.
6. Il rigetto di entrambi i ricorsi induce a compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 20 ottobre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 5 MARZO 2004

 


 

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