Aggiornamento - Civile

Cass. Civ., sez. I, 19 marzo 2004,5539, sull’inefficacia del contratto simulato, sull’inammissibilità della prova testimoniale tra le parti per la simulazione del prezzo e sulla non illiceità civilistica del contratto in frode al fisco

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 31 dicembre 1993 il sig. Lorenzo Patrignani cedette al fratello Luciano la propria quota di partecipazione nella società Eredi di Patrignani Solideo di Patrignani Lorenzo & C.. Nel contratto di canalone fu indicato il prezzo di £. 1.000.000, ma il sig. Lorenzo Patrignani, assumendo essere stato in realtà pattuito il maggior corrispettivo di £. 70.000.000, di cui sole £. 17.000.000 effettivamente versato dall'acquirente, con atto notificato il 24 gennaio 1997 citó in giudizio il fratello dinanzi al Pretore di Pesaro per sentirlo condannare in proprio favore al pagamento delle ulteriori rate di prezzo già scadute, ammontanti a complessive £. 39.000.000, oltre agli interessi ed al risarcimento del maggior danno per svalutazione monetaria.
Il sig. Luciano Patrignani resistette alla pretesa del fratello ed il pretore, con sentenza depositata il 4 maggio 1998, avendo ritenuto inammissibili le prove testimoniali dedotte dall'attore e tardiva la documentazione da costui prodotta in causa, rigettò la domanda compensando le spese di lite.
Chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione proposta dal sig. Lorenzo Patrignani, il Tribunale di Pesaro, con sentenza resa pubblica il 26 aprile 2000, confermò integralmente la decisione di primo grado e condannò l'appellante al pagamento delle spese del gravame. Ritenne infatti il tribunale che il disposto dell'art. 1417 c.c. non consentisse di dare ingresso alla prova testimoniale formulata dall'attore per far valere la simulazione tra le parti senza che fosse configurabile una ragione di illiceità, del contratto dissimulato; ed aggiunse che neppure poteva esser presa in considerazione la documentazione versata in atti a dimostrazione di un preteso principio di prova scritta, essendo la relativa produzione intervenuta dopo la precisazione della conclusioni e quindi quando era ormai scaduto il termine perentorio fissato dall'art. 184 c.p.c..
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il sig. Lorenzo Patrignani, prospettando tre motivi d'impugnazione.
Il sig. Luciano Patrignani ha resistito Con controricorso illustrato da successiva memoria.
All'esito dell'odierna udienza il difensore della ricorrente ha anche depositato osservazioni scritto in replica alle conclusioni del pubblico ministero.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente, in primo luogo, denuncia la violazione degli artt. 1417 e 2722 c.c. (nonché difetti di motivazione dell'impugnata sentenza) sostenendo che - contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale - dette norme non impedirebbero di dare la prova per testimoni di una pattuizione intesa a celare una parte del contatto.
In secondo luogo, lamentando la violazione degli artt. 1414, 1417, 2124 c.c., 112, 115 e 184 c.p.c., il ricorrente afferma che il tribunale avrebbe dovuto prendere in esame il principio di prova scritta documentato in atti, giacché nessuna eccezione era stata a suo tempo sollevata dal convenuto in ordine alla regolarità e tempestività della relativa produzione.
In terzo luogo, facendo riferimento all'art. 91 c.p.c. si duole della condanna alle spese dell'appello.
2. Il procuratore generale ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità del primo motivo di ricorso, concernente la mancata ammissione dei capitoli di prova testimoniale dedotti nel giudizio di merito, per non essere stati tali capitoli compiutamente riportati nel ricorso medesimo.
L'eccezione non appare tuttavia fondata.
E' ben noto l'orientamento costante di questa corte secondo cui il ricorso per cassazione, nel caso in cui si censuri con esso l'omessa ammissione di prove testimoniali da parte dal giudice di merito, deve contenere a pena di inammissibilità - in ossequio al principio di autosufficienza - l'indicazione del capitolato di prova (cfr., tra le tante, Cass. 9 maggio 2000, n. 5876). Tuttavia occorre rilevare come, nel presente caso, il vizio dedotto dal ricorrente non afferisca ad un difetto di motivazione in cui il giudice di merito sarebbe incorso nel vagliare il contenuto di uno specifico capitolato di prova testimoniale per decidere sull'inammissibilità o irrilevanza di esso (nel qual caso è indubbio che il suaccennato principio di autosufficienza avrebbe reso necessaria l'esposizione nel ricorso del contenuto di detto capitolato di prova). Il ricorrente qui invece si duole di un errore di diritto che il giudice di merito avrebbe commesso escludendo la possibilità stessa per la parte di avvalersi del mezzo della prova testimoniale in relazione al thema decidendum dedotto in causa; un asserito errore che, dunque, ha impedito già in sede di merito qualsiasi esame del concreto contenuto dei capitoli di prova articolati dall'attore.
Il vizio di legittimità così denunciato non si ricollega dunque in alcun modo allo specifico contenuto di quei capitoli di prova, ma si colloca invece su un piano logico preliminare alla relativa valutazione di merito. Per giudicare dell'esistenza di un tal vizio non si richiede quindi che questa corte, attraverso la lettura del ricorso, sia resa edotta del modo in cui la prova è stata formulata. Perciò la mancata riproduzione dei capitoli di prova nel ricorso non ne intacca la autosufficienza.
3. Il primo motivo di ricorso è dunque ammissibile. Non è però fondato.
Questo collegio non ignora l'esistenza di un filone giurisprudenziale, sviluppatosi nel corso di un notevole arco di tempo, secondo il quale, nell'ipotesi di simulazione relativa parziale, il contratto conserva inalterati i suoi elementi, ad eccezione di quello interessato dalla simulazione, con la conseguenza che, non essendo esso né nullo nè annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione potrebbero essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai contraenti. Donde la conseguenza che la prova per testimoni della simulazione del prezzo della vendita non incontrerebbe fra le parti i limiti dettati dall'art. 1417 c.c., nè contrasterebbe col divieto posto dall'art. 2722 c.c., in quanto la pattuizione di celare una parte del prezzo non potrebbe essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale o funzionale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto. La relativa prova avrebbe, insomma, scopo e natura semplicemente integrativi, e ció consentirebbe di darla anche mediante deposizioni testimoniali (si vedano Cass. n. 4366 del 1978, n. 5975 del 1987, n. 526 del 1998, n. 3857 del 1996, n. 11055 del 1999 e n. 10009 del 2003).
Siffatto orientamento non incontra però il favore di una parte rilevante della dottrina, la quale afferma invece l'applicabilità del divieto disposto dall'art. 2722 c.c. alla pattuizione di un prezzo diverso da quello apparente e sostiene l'inammissibilità tra le parti della prova per testi di tale accordo, perché esso comunque integra un fenomeno simulatorio. Ed, in effetti, gli argomenti sui quali si basa la giurisprudenza sopra richiamata non paiono in grado di reggere ad un più approfondito esame critico.
Per una corretta impostazione del problema è opportuno prendere le mosse dal disposto dell'art. 2722 c.c.. Tale norma esclude che tra le parti si possa dare per testimoni la prova di un patto aggiunto o contrario al contenuto di un documento, ove si alleghi che la stipulazione del patto sia stata anteriore o contemporanea alla redazione del documento medesimo. Al pari che in tutte le altre disposizioni sui limiti della prova testimoniale, traspare qui un certo grado di ragionevole diffidenza del legislatore nei riguardi di un tale genere di prova, soprattutto quando essa sia volta a sormontare risultanze assai meno controvertibili quali quelle documentali. E' chiaro, cioè, l'intento di impedire che rapporti giuridici tra le parti, quando documentalmente provati, possano essere alterati da prove per testi, appunto perché quante non offrono la stessa garanzia di veridicità di quella documentale e perché non è logico presumere che, una volta scelta la via della documentazione degli accordi contrattuali tra esse intercorsi, le parti ne abbiano affidato la modifica ad intesa meramente verbali. Sicchè ben si comprende anche la ragione del superamento dal suindicato limite alla prova testimoniale quando, nei casi specificamente contemplati dal successivo art. 2724, quella negativa presunzione possa invece essere superata.
Il limite alla prova testimoniale di cui si sta discutendo, per le ragioni che vi sono sottese, è quindi destinato ad operare in qualsiasi caso si sostenga esservi una divaricazione tra il contenuto di un contratto, formalmente consacrato in un documento, ed una diversa pattuizione, ugualmente pregna di contenuto negoziale, che nel documento medesimo non sia riportata e di cui, tuttavia, si assuma osservi stata una stipulazione anteriori o contemporanea.
Il fenomeno della simulazione contrattuale, sia cosa assoluta o relativa, non esaurisce l'area di possibile applicazione di detto art. 2722, ma sicuramente ne occupa una larga parte. Ed, infatti, nel disciplinare ex professo i limiti della prova testimoniale dalla simulazione, il legislatore non ha dettato una disposizione in sè compiuta ad autosufficiente, ma si è unicamente preoccupato di chiarire, nell'art. 1417 c.c., che quella prova è ammessa senza limiti tanto nel caso di domanda proposta da creditori o da terzi quanto nell'ipotesi in cui, essendo proposta dalle parti, la domanda sia volta a far valere l'illiceità dal contratto dissimulato. I limiti cui il citato art. 1417 allude - e che consente di superare solo nelle suddette particolari situazioni - sono, ovviamente, quelli dettati dagli artt. 2721 e segg., od in particolare quelli già sopra richiamati a proposito dai patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
Stando così la cose, quando la prova tra le parti della simulazione di un contratto documentale non riguardi l'illiceità del contratto dissimulato, è evidente che essa incontra i suaccennati limiti di prova (vedi anche, in tal senso, Cass. n. 16021 del 2002 e n. 4073 del 1992). Ma appare difficile negare che tali limiti operino anche in presenza di una simulazione soltanto parziale, ogni qual volta questa si traduca nell'allegazione di un accordo ulteriore e diverso da quello risultante dal contratto, comunque destinato a modificare l'assetto degli interessi negoziali riportato nel documento sottoscritto dalle parti. Nè certo sarebbe ragionevole sostenere che la clausola di determinazione del prezzo non abbia rilevanza centrale nell'economia degli interessi regolati mediante un contratto di compravendita.
D'altronde, affermare che la pattuizione con cui le parti convengano un prezzo diverso da quello indicato nel documento contrattuale da esse sottoscritto non integrerebbe gli estremi di una vera e propria simulazione, avendo scopo meramente integrativo, non risolve in alcun modo il problema.
Se anche cosi fosse, infatti, resterebbe comunque difficilmente eludibile il rilievo per cui una tale pattuizione si pone in contrasto con il contenuto di un documento contrattuale contestualmente stipulato e, come tale, ricade nella previsione dell'art. 2722 c.c..
La differenza che l'orientamento giurisprudenziale qui non condiviso introduce - tra la prova della simulazione, soggetta agli anzidetti limiti legali, e la prova di patti meramente integrativi del contratto, che detti limiti non incontrerebbe perché quei patti difetterebbero di una propria autonomia strutturale o funzionale - non sembra perciò trovare un sufficiente appiglio: né nella lettera del citato art. 2722, che ai riferisce ai "patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento", e quindi anche a quelli di carattere integrativo se essi contengano elementi nuovi o contrastanti con quelli documentati; nè nella già richiamata ratio legis, che evidentemente abbraccia ogni ipotesi nella quale si pretenda di dare, per mezzo di testimoni, la prova di obblighi o diritti di portata diversa da quanto risulta da accordi consacrati in un documento e perciò dotati di un grado di certezza non superabile con quel genere di prova.
E’ dunque corretta l'affermazione del tribunale che ha negato ingresso alla prova testimoniale dedotta dall'attore (poi appellante) al fine di dimostrare che le parti avevano pattuito un prezzo di cessione delle quote sociali diverso da quello documentato.
E’ appena il caso di aggiungere che il giudice di merito ha altresì chiarito come neppure potesse nella specie invocarsi, al fine di superare gli anzidetti limiti di ammissibilità dalla prova testimoniale, il preteso carattere illecito della pattuizione dissimulata, tale non essendo quella eventualmente volta a frodare il fisco. A questo aspetto della questione si fa fugacemente accenno nel ricorso, ma senza formulare una censura dotata del necessario grado di specificità, onde su di essa non occorre qui ulteriormente soffermarsi.
4. Neanche il secondo motivo di ricorso é accoglibile.
Il ricorrente afferma che la tardiva produzione di documenti nel giudizio di primo grado, dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 184 c.p.c., sarebbe dipesa dall'impossibilità di disporre di tali documenti in epoca precedente. Ma già il tribunale ha rilevato trattarsi di affermazione del tutto immotivata, né il ricorrente deduce o dimostra in questa sede di avere invece fornito in proposito elementi che il tribunale avrebbe omesso di valutare.
Il medesimo ricorrente sostiene però anche che, in ogni caso, l'inammissibilità dei documenti tardivamente prodotti non avrebbe potuto esser rilavata dal primo giudice, posto che nulla la controparte aveva al riguardo eccepito.
La tesi, però, non ha pregio. L'orientamento giurisprudenziale talvolta manifestatosi in passato, secondo cui, trattandosi di disciplina dettata nell'interesse delle parti, l'inosservanza delle disposizioni che delimitano il momento in cui è possibile produrre in giudizio documenti deve ritenersi sanata qualora la controparte non abbia sollevato la relativa eccezione in sede di discussione dalla causa dinanzi al collegio (cfr., tra le altre, Cass. n. 12139 del 2002 e n. 3892 del 2002), non può trovare applicazione anche nei procedimenti - come quello in esame - instaurati dopo il 30 aprile 1995, regolati dalle nuove disposizioni introdotte con legge n. 353 del 1990. E' noto, infatti, che con tali nuove disposizioni il legislatore ha inteso segnare più nette scansioni tra la fase processuale destinata all'individuazione del thema decidendum, quella in cui si deve definire il thema probandum ed il momento della successiva decisione. Assume particolare rilievo, in un simile contesto, la previsione del novellato art. 184 c.p.c., che non solo prevede l'eventuale assegnazione alla parti di un termine entro cui dedurre prove e produrre documenti, ma espressamente stabilisce il carattere perentorio di detto termine (art. cit., c. 2°). Il che vale a sottrarre siffatto termine alla disponibilità dello parti, stante il disposto dall'art. 153 c.p.c., come del resto implicitamente e confermato anche dal successivo art. 184-bis, che contempla la possibilità di rimessione in termini, ma solo ad istanza della parte interessata ed a condizione che questa dimostri di essere incorsa nella decadenza per una causa ad essa non imputabile.
Correttamente, quindi, il pretore ha considerato inutilizzabili i documenti prodotti dall'attore dopo la scadenza del termine anzidetto, ed altrettanto correttamente il tribunale ha rigettato il gravame con cui il medesimo attore si doleva di quella decisione.
Giova aggiungere che dalla motivazione della sentenza di secondo grado non si deduce che l'appellante abbia poi nuovamente prodotto i medesimi documenti anche nel giudizio d'appello. Neppure dal ricorso si ricava con chiarezza se una tale rinnovata produzione vi sia stata, ed in qual momento: vi si legge di una "documentazione depositata in secondo grado alla udienza di precisazione delle conclusioni e quindi oltre il termine di cui all'art. 184 c.p.c."; ma verosimilmente si tratta di un lapsus, intendendo il ricorrente riferirsi alla tardiva produzione effettuata in primo grado. Il che, per un verso, mette in dubbio la stessa ammissibilità della doglianza formulata al riguardo con l'atto d'appello (giacché non sussisteva comunque una ragione di rimessione al primo giudice, né quello di secondo grado, in difetto dei documenti in questione, avrebbe comunque potuto fondare su di essi l'eventuale accoglimento del gravame del merito) e, per altro verso, esclude si debba in questa sede affrontare la questione dell'ammissibilità di documenti nuovi in secondo grado, a norma dell'art. 345 c.p.c.: questione infatti non espressamente sollevata nel motivo di ricorso.
5 . L'ultimo motivo di ricorso è manifestamente infondato, perché la pronuncia del tribunale in tema di spese processuali, lungi dal contrastare col disposto dell'art. 91 C.p.c., ha fatto puntuale applicazione del criterio della soccombenza in detta norma enunciato.
6. Anche in considerazione della relativa novità (rispetto al precedente panorama giurisprudenziale) della decisione assunta in ordine al primo motivo di ricorso, stima equo la corte compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 10 dicembre 2003.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 19 MARZO 2004

 



 


 

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