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   Aggiornamento - Civile  | 
 
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   Cassazione civile, sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767 danno da nascita indesiderata Le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di contrasto, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, hanno affermato che: a) la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”. la causa, senza ulteriore
  istruttoria, veniva decisa con  compensazione delle spese. Il successivo gravame era respinto dalla Corte d'appello di Firenze con sentenza 15 maggio 2008. C21)3 La corte territoriale motivava che il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione a carico del sanitario su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) per ricorrere all'interruzione della gravidanza; che questa, nello spirito della legge, era consentita per evitare un pericolo per la salute della gestante e subordinata a requisiti specifici, in assenza dei quali l'aborto costituiva reato; che in particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, occorreva
  che la presenza di rilevanti anomalie nel feto determinasse un grave pericolo
  per la salute fisica o psichica della madre, su cui incombeva il relativo
  onere della prova (art.6 1.194/1978); che, sul punto, gli attori non
  avevano fornito neppure delle specifiche allegazioni, limitandosi ad
  affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante,
  se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza; né era
  ammissibile - che si doveva pure negare la legittimazione attiva della figlia
  minore, sulla base della prospettazione di un diritto a non nascere privo di
  riconoscimento nell'ordinamento giuridico; come pure l'ammissibilità del cd.
  aborto eugenetico, in assenza di alcun pericolo per la salute della madre,
  una volta esclusa ogni responsabilità del medico nella causazione della
  malformazione del feto. Avverso la sentenza, notificata il 6 ottobre 2008, i sigg. e in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore proponevano ricorso per cassazione, articolato in due motivi, notificato il 5 dicembre 2008. Deducevano la violazione degli articoli 1176 e 2236 cod. civ. e dell'art.&
  della legge 22 maggio 1978, n. 194, nel riversare sulla gestante l'onere
  della prova del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dipendente
  dalle malformazioni del nascituro: laddove l'impedimento all'esercizio del
  diritto di interrompere la gravidanza era di per sé sufficiente a integrare
  la responsabilità del medico con il conseguente suo obbligo al risarcimento; la violazione degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n. 405 nella negazione, alla figlia minore, del diritto ad un'esistenza sana e dignitosa: nella specie, compromessa dai pregiudizi correlati alla presenza di malformazioni genetiche. Resistevano congiuntamente l'Azienda iM, il dr. nonché, con distinto controricorso, il prof. I ricorrenti ed il prof. depositavano memoria illustrativa ex art.378 cod. proc. civ. La terza sezione civile, cui era stato assegnato il ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, rimetteva la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite. In particolare, il collegio poneva in evidenza che la tematica della cd. nascita indesiderata aveva dato luogo, in ordine alla questione dell'onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto (Cass. numero 6735/2002; Cass., sez.3, 29 luglio 2004 n. 14.488; Cass., sez.3, 4 gennaio 2010 n.13; Cass., sez.3, 10 novembre 2010 n.22.837; Cass., sez.3, 13 luglio 2011 n.15.386; cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzione semplice, ponendo a carico delta parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., sez.3, 2 ottobre 2012 n.16754; Cass., sez.3, 22 marzo 2013 n.7269; Cass., sez.3, 10 dicembre 2013 n. 27.528; Cass., sez.3, 30 maggio 2014 n.12.264). 
 Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all'udienza del 22 settembre 2015 sulle conclusioni del Procuratore generale e dei difensori in epigrafe riportate. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione di legge nel riparto dell'onere della prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro. Punto di partenza della relativa disamina è l'interpretazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza), che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all'aborto, legittimando l'autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, pur nel rispetto di condizioni rigorose, espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza. Il diniego, in linea di principio, dell'interruzione di gravidanza come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite, e "a fortiori" in funzione eugenica, emerge, infatti, inequivoco già dall'art.1, contenente l'enunciazione solenne della gerarchia dei valori presupposta dal legislatore, rivelatrice della natura eccezionale delle ipotesi permissive; fuori delle quali l'aborto resta un delitto ("Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite"). In particolare, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza
  delle condizioni ivi rigorosamente tipizzate ha non solo efficacia esimente
  da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto
  all'autodeterminazione della gestante di optare per l'interruzione della
  gravidanza (art.6: "L'interruzione
  volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere
  praticata: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la
  vita della donna; quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a
  rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo
  per la salute fisica o psichica della donna"). Il dettato normativo trova rispondenza assiologica nel principio costituzionale di non equivalenza tra la salvezza della madre, già persona, e quella dell'embrione, che persona deve ancora diventare (Corte cost. 18 febbraio 1975 n.20). In questa cornice normativa, la censura dei ricorrente qui in scrutinio ripropone l'annoso problema del riparto dell'onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit. Con l'espressione wrongful life si indica, invece, la causa petendi dell'azione esercitata in proprio dal figlio: sintagmi, inaugurati - sembra - dalla Appellate Cort dell'Illinois nella sentenza 3 Aprile 1963, Zepeda v. Zepeda, in un caso in cui l'attore aveva convenuto, per danni, il padre, responsabile di averlo condannato ad una vita infelice, quale figlio illegittimo). L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle
  condizioni di cui all'art.6, imputabile a negligente carenza informativa da
  parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante,
  profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul
  quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue
  richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia
  espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa
  prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile
  sulla salute del feto. Occorre però che l'interruzione
  sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che
  sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le
  rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave
  pericolo per la salute fisica o psichica della donna - giacché, senza il
  concorso di  Oltre a ciò, dev'essere altresì provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti. Sotto questo profilo, il thema
  probandum è costituito da un fatto complesso; e cioè, da un accadimento
  composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la
  rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico,
  il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva
  di quest'ultima. In tale evenienza, può essere impossibile fornire la dimostrazione
  analitica di tutti gli eventi o comportamenti che concorrano a comporre la
  fattispecie: onde, il problema si risolve ponendo ad oggetto della prova
  alcuni elementi che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dai quali sia
  perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell'intero
  fatto complesso. Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato - ove il
  convenuto non dia per pacifiche le componenti di fatto essenziali della
  fattispecie - è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un
  fatto psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un
  atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti. L'ovvio problema che ne
  scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione
  immediata e diretta; sicché non si  Il passo successivo consiste nell'applicare la concezione quantitativa
  o statistica della probabilità, intesa come frequenza di un evento in una
  serie di possibilità date: espressa dall'ormai consolidato parametro del "più probabile, che no". Nel caso in esame,  Ne ha poi tratto la conclusione che, in difetto di tale prova
  positiva, neppure la consulenza tecnica d'ufficio fosse ammissibile; e la
  domanda dovesse essere quindi respinta in
  limine. Al riguardo, si osserva che se la premessa astratta appare esatta, dal
  momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che
  essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) - con un
  riparto che appare del 
 È bene chiarire che non si verte in tema di presunzione legale, sia
  pure juris tantum: la cui
  consacrazione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si
  risolve in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte
  dall'onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto
  alla premessa fattuale (non diversamente che in caso di non contestazione del
  fatto, che pure comporta la relevatio
  ab onere probandi; pur se di quest'ultima sia dubbia l'irreversibilità:
  art.345, secondo comma, cod. proc. civ.). Nulla del genere è infatti
  riscontrabile nella presente fattispecie, in cui il legislatore non esime in
  alcun modo la madre dall'onere della prova della malattia grave, fisica o
  psichica, che giustifichi il ricorso all'interruzione della gravidanza,
  nonché della sua conforme volontà di ricorrervi. Ci si riferisce, invece, alla praesumptio
  hominis, rispondente ai requisiti di cui all'art. 2729 cod. civile, che
  consiste nell'inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non
  solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo        quod plerumque accidit -  In questa direzione il tema d'indagine principale diventa quello delle
  inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di
  attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che
  si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale: restando
  sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata
  comunque all'aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale. E' da escludere, peraltro, che tale indagine debba approdare ad
  un'elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione
  di ricorso all'aborto; che, proprio per il suo carattere generale e astratto,
  mal dissimulerebbe l'inammissibile prefigurazione giudiziale di una
  presunzione juris tantum. In conclusione, la statuizione della Corte d'appello di Firenze si è
  arrestata a livello enunciativo del principio generale, pur esatto, del
  riparto dell'onere probatorio: e risulta dunque manchevole nella parte in cui
  omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva,
  in concreto desumibile dai fatti allegati. La sentenza dev'essere quindi cassata sul punto; restando
  impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo evento di danno
  conseguito al mancato esercizio del diritto di scelta, per eventuale
  negligenza del medico curante, parimenti oggetto di prova. Esclusa, infatti,
  la configurabilità di un danno in re
  ipsa quale espressamente prospettato dai ricorrenti - occorre che la Esula, altresì, dal thema
  decídendum di questa fase di legittimità il problema dell'identificazione
  dell'eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al
  fatto colposo dei sanitari (artt.1223 , 2056 cod. civ.): se limitato allo
  stesso danno alla salute prefigurato ex
  ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza - restando
  cioè interno alla fattispecie di cui all'art.6, in considerazione della
  natura eccezionale della norma - o se sia esteso a tutti danni-conseguenza
  riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la violazione degli
  articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione e della legge 29 luglio 1975 n.
  405, nella negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome al
  risarcimento del danno per l'impossibilità di un'esistenza sana e dignitosa. E' questo il problema, senza dubbio, più delicato e controverso della
  fattispecie legale in esame, che ha visto contrapposti due indirizzi di
  pensiero, di ispirazione anche metagiuridica, contesta di riflessioni financo
  filosofiche ed etico-religiose, di irriducibile antinomia: segnati spesso da
  accese intonazioni polemiche in una pubblicistica ideologicamente schierata,
  in favore o contro la presunzione juris
  et de jure di preferibilità della vita, per quanto Anche se debba escludersi un approccio di carattere eminentemente
  giuspolitico - che appartiene al legislatore: spettando, per contro, al
  giudice l'interpretazione della disciplina vigente, sia pure nel più completo
  approfondimento delle potenzialità evolutive in essa insite - non è
  seriamente contestabile che sulla giurisprudenza pregressa, anche straniera,
  abbiano influito, ben oltre l'ordinario, considerazioni antropologiche e
  soprattutto di equità, intesa come ragionevole attenuazione e modificazione
  apportata alla legge in virtù di speciali circostanze. Nucleo centrale della disamina è quello della legittimazione ad agire
  di chi, al momento della condotta del medico (in ipotesi, antigiuridica), non
  era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato a I I 'a
  rt.1 cod. civ. ("La capacità
  giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme ad un
  pensiero giuridico plurisecolare. Natura eccezionale, a questa stregua, rivestirebbero le norme che
  riconoscono diritti in favore del nascituro, concepito o non concepito,
  subordinati all'evento della nascita (ibidem,
  secondo comma): quale deroga al principio generale secondo cui non può
  reclamare un diritto chi, alla data della sua genesi, non era ancora
  esistente (artt.254, 320, 462, 784), o non era più (arg. ex art.4 cod. civ.). Di qui la definizione, nella fattispecie in esame, di diritto
  adespota, la cui configurazione riuscirebbe, "prima facie" in contrasto con il principio generale
  sopra richiamato. 
 E' vero, in tesi generale, che l'attribuzione di soggettività giuridica
  è appannaggio del solo legislatore, e che la cd. giurisprudenza normativa,
  talvolta evocata quale fonte concorrente di diritto, violerebbe il principio
  costituzionale di separazione dei poteri ove non si contenesse all'interno
  dei limiti ben definiti di clausole generali previste nella stessa legge,
  espressive di valori dell'ordinamento (buona fede, solidarietà, ecc.):
  eventualmente riesumando la dicotomia storica tra giurisprudenza degli
  interessi (Interessenjurisprudenz), di
  ispirazione evolutiva, e giurisprudenza dei concetti (Begriffsjurisprudenz), di natura statica: entrambe, peraltro,
  storicamente ancorate ad una concezione positivistica del diritto. Ma in realtà non è punto indispensabile elevare il nascituro a soggetto
  di diritto, dotato di capacità giuridica - contro il chiaro dettato
  dell'art.' cod. civ. - per confermare l'astratta legittimazione del figlio
  disabile ad agire per il risarcimento di un danno le cui premesse fattuali
  siano collocabile in epoca anteriore alla sua stessa nascita. Al fondo di
  tale ricostruzione dogmatica vi è, infatti, il convincimento tradizionale, da
  tempo sottoposto a revisione critica, che per proteggere una certa entità
  occorra necessariamente qualificarla come soggetto di diritto. Tenuto conto del naturale relativismo dei concetti giuridici, alla tutela del nascituro si può pervenire, in conformità con un indirizzo dottrinario, senza postularne la soggettività - che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi - bensì considerandolo oggetto di tutela (Corte costituzionale 18 febbraio 1975 n.27; Cass., sez.3, maggio 2011 n.9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881). Tale principio informa espressamente diverse norme dell'ordinamento.
  Così, l'arti, primo comma, legge 19 febbraio 2004 n.40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) annovera
  tra i soggetti tutelati anche il concepito ("Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi
  derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso
  alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le
  modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti isoggetti coinvolti, compreso il
  concepito"). Analogo concetto è riflesso nell'art. 1 della stessa
  legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della
  maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), qui in esame, che retrodata la tutela della vita
  umana anteriormente alla nascita ("Lo
  Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile,
  riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo
  inizio). Anche la legge 29 luglio 1975 n.405 (Istituzione dei consultori familiari) afferma l'esigenza di
  proteggere la salute del concepito (arti.: "Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha
  come scopi...: c) la tutela della salute della donna e del prodotto del
  concepimento"). Infine, nell'ambito della stessa normativa
  codicistica, l'art.254 prevede il riconoscimento del figlio nato fuori del
  matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato. Entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per
  l'ammissibilità dell'azione del minore, volta al risarcimento di un danno che
  assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi, che del resto
  neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che
  tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da
  differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi
  dell'effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di
  concause sopravvenute ( cfr. art.41 cod. pen.). Qui la particolarità risiederebbe nel fatto che il medico sia, in
  ipotesi, l'autore mediato del danno, per aver privato la madre di una facoltà
  riconosciutale dalla legge, tramite una condotta Se dunque l'astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto
  (oltre che della legittimazione attiva) del figlio handicappato non trova un
  ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito alla nascita,
  giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti
  dotati di capacità giuridica ai sensi dell'arti cod. civile, occorre
  scrutinare a fondo il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto
  di causalità tra condotta del medico ed evento di danno. 
 Ed è qui che la tesi ammissiva,
  in subiecta materia, incorre in una
  contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone,
  nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo
  l'illecito, è la non vita, da interruzione Tanto meno può esserlo, per il nato, retrospettivamente, l'omessa distruzione della propria vita (in fieri, che è il bene per eccellenza, al vertice della scala assiologica dell'ordinamento. Anche considerando norma primaria l'art. 2043 cod. civile,infatti, viene meno, in radice, il concetto stesso di danno ingiusto; oltre che reciso il nesso eziologico, sia pure inteso in base ai principi della causalità giuridica e nella sua ampiezza più estesa, propria della teoria della condicio sine qua non (generalmente rifiutata, peraltro, in materia di illecito civile). Non si può dunque parlare di un diritto a non nascere; tale, occorrendo ripetere, è l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilità, commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: ché anzi, non è responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore). Si aggiunga, per completezza argomentativa, che seppur non è punibile il tentato suicidio, costituisce, per contro, reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio (art.580 cod. pen.): a riprova ulteriore che la vita - e non la sua negazione - è sempre stata il bene supremo protetto dall'ordinamento. Del resto, il presupposto
  stesso del diritto è la vita del soggetto; e la sua centralità affermata fin
  dal diritto romano ("Cum Il supposto interesse a non nascere, com'è stato detto efficacemente in dottrina, mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità). CIS L'ordinamento non riconosce, per contro, il diritto alla non vita: cosa diversa dal cd. diritto di staccare la spina, che comunque presupporrebbe una manifestazione positiva di volontà ex ante (testamento biologico). L'accostamento, non infrequente, tra le due fattispecie è fallace; oltre a non tener conto dei limiti connaturali al ragionamento analogico, soprattutto in tema di norme eccezionali. Né vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso
  dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione
  intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole (Cass., sez. 3, 3 maggio 2011,
  n.9700). La formula, concettualmente fluida ed inafferrabile, pretende di
  estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante,
  in presenza di rigorose condizioni - progressivamente più restrittive nel
  tempo - posta in relazione di bilanciamento con un suo diritto già esistente
  alla salute personale, che costituisce il concreto termine di paragone
  positivo: bilanciamento, evidentemente non predicabile, in relazione al
  nascituro, con una situazione alternativa di assoluta negatività. A prescindere da una disamina approfondita, estranea al presente thema decidendum, della tesi estensiva sopra menzionata, per saggiarne la solidità argomentativa, sia in ordine ai presupposti oggettivi - se, cioè, sia, o no, necessario che i parenti (che nessuna voce in capitolo hanno in ordine alla scelta abortiva), possano godere, di fatto, di un trattamento probatorio perfino più favorevole che non la madre, perché esenti dall'onere di provare lo stesso pericolo per la propria salute contemplato dall'art.6 I. cit. - e soggettivi - in quanto non onerati dell'omologa prova della loro condivisione dell'opzione abortiva - valore dirimente ha il rilievo che solo per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare una danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato. In una decisione che investa diritti fondamentali della persona umana,
  diventa, al riguardo, rilevante anche l'analisi comparatistica, mediante
  richiamo di precedenti attinti La giurisprudenza riguardante azioni di danni per wrongful birth e wrongful
  fife si è formata innanzitutto presso le corti statunitensi. Il primo caso in termini sembra essere quello deciso dalla New Jersey
  Supreme Court 6 marzo 1967 Gleitman v. Cosgrove, in cui furono respinte sia
  la domanda della madre contro il medico curante, che aveva trascurato la
  pericolosità della rosolia della gestante - sotto il profilo che l'aborto
  era, all'epoca, un reato (soppresso dalla pronuncia della Supreme Court 22
  Gennaio 1973 Roe - nome di fantasia, a tutela della privacy - v. Wade, con
  una maggioranza di sette giudici a due), sia quella del figlio nato malato:
  proprio con l'argomento, destinato a diventare tralatizio, che era
  improponibile un confronto tra vita con malattia e non vita. Sulla scia del precedente, le Corti superiori nella maggior parte
  degli stati degli U.S.A. hanno respinto le richieste risarcitorie dei figli
  handicappati, accogliendo invece quella dei genitori (cfr. New Jersey Supreme
  Court 26 giugno 1979, Berman v. Allan); con sporadiche eccezioni in singoli
  stati ( California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories
  e, parzialmente, California Supreme Court Turpin v. Sortini, 1982 ), e
  (Harbeson v. Parke-Davies Inc. 6 gennaio 1983). Anche in Germania, si è negato il risarcimento al figlio handicappato (
  BGH, 18 gennaio 1983); così come in Inghilterra (London Court of Appeal 19
  febbraio 1982, Sachen McKay v. Essex Health Authority. tendenza generale a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a
  cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa
  medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e
  dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e
  bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da
  quella in esame. Ed al riguardo nulla è più significativo dell'evoluzione normativa
  seguita in Francia alla pronuncia della Cour de Cassation, assemblée
  plénière, 17 novembre 2000, sul cd. affaire
  Perruche che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave
  malattia, non diagnosticata durante la gravidanza (in difformità dalle
  conclusioni del P.G., sull'impossibilità di ravvisare un danno nella stessa
  vita, espresse, per via apagogica, con sintesi icastica: "Le dommage c'est la vie et l'absence de dommage c'est la mort:
  La mort devient ainsi une valeur préférable à la vie"). Con la « Loi relative aux droits de malades et à la
  qualité du système de santé » 4 marzo 2002 n. 2002-303 (cd. Loi Kouchner, dal nome del ministro
  della salute proponente Bernard Kouchner), si sono infatti perentoriamente
  riaffermati i canoni tradizionali - con il crisma del primato della legge -
  prescrivendo che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo
  fatto della nascita e che la persona nata con un handicap dovuto a colpa
  medica può ottenerne il risarcimento quando l'atto colposo ha provocato
  direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure
  in grado di attenuarlo ( Art.1 del titolo In quest'ottica, viene meno anche il fondamento della tesi che àncora
  la sussistenza del credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione, di cui
  sarebbe beneficiario il nascituro: figura primamente elaborata dalla dottrina
  tedesca ( Schutzpflichte), che
  riconosce a parenti, o conviventi, anche per ragioni di lavoro, a contatto
  con la controparte contrattuale, una tutela più intensa, di natura contrattuale
  (Vertraege mit Schutzwirkung fuer
  Dritte), che non quella propria della generalità dei terzi, che possono
  valersi, invece, della sola azione aquiliana. Sulla scorta di tale
  ricostruzione Non senza soppesare altresì il rischio di una reificazione dell'uomo,
  la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell'integrità
  psico-fisica: deriva eugenica, certamente lontanissima dalla teorizzazione
  dottrinaria del cd. diritto di non nascere, ma che pure ha animato, ad es.,
  il dibattito oltralpe, provocando reazioni nella sensibilità
  dell'associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati, anteriormente
  all'approvazione della legge Kouchner sopra citata. Ed una chiara negazione
  che la vita di un bambino disabile possa mai considerarsi un danno - sul
  presupposto implicito che abbia minor valore di quella di un bambino sano - è
  pure contenuta nella sentenza 28 maggio 1993 della Corte Costituzionale
  federale tedesca (BVerfGE 88, 203). Per superare gli ostacoli
  frapposti all'affermazione al supposto diritto a non nascere se non sano -
  ignoto al vigente ordinamento - Al riguardo, occorre notare, in via preliminare, che di tale
  allegazione non v'è traccia nella sentenza impugnata; onde, si deve ritenere,
  in difetto di critica specifica alla sua mancata disamina, che essa sia
  formulata per la prima volta nel presente ricorso per cassazione. E tuttavia,
  essa non è, perciò stesso, inammissibile, risolvendosi in una mera
  argomentazione, volta dare fondamento alla medesima domanda, invariata nei
  suoi elementi essenziali costitutivi, svolta ab initio: come tale, immune da preclusioni. Nel merito, essa si rivela peraltro un mimetismo verbale del cd.
  diritto a non nascere se non sani; e va quindi incontro alla medesima
  obiezione dell'incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore
  familiare, con l'unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dell'
  interruzione della gravidanza. Si deve dunque ritenere che l'argomentazione, se vale a confutare la
  tesi, peraltro già respinta, della irrisarcibilità di un danno senza soggetto
  non ancora nato al momento della condotta dalla colposa del medico (cd.
  diritto adespota), si palesa del tutto inidonea, per contro, a sormontare
  l'impossibilità di stabilire un nesso causale tra quest'ultima e le
  sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita.
  Oltre al fatto di postulare un' irruzione del diritto in un campo da sempre
  rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una
  visione pan-risarcitoria dalle prospettive inquietanti. 
 P.Q.M. Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo; Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia
  la causa alla Corte d'Appello di Firenze, in diversa composizione, per un
  nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di
  legittimità. Roma, 22 Settembre 2015  | 
 
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