Aggiornamento - Civile

Corte costituzionale, sentenza numero 459 del 23 ottobre – 2 novembre 2000 sulla illegittimità costituzionale dell’esclusione del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria per i crediti dei lavoratori nel settore privato

                                           SENTENZA 

          nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994,
          n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il
          21 maggio 1999 dal Pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Checchetto
          Teresa ed altra e la FIAT AUTO s.p.a., iscritta al n. 480 del registro ordinanze 1999 e
          pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno
          1999 e il 29 settembre 1999 dal Tribunale di Trani nel procedimento civile vertente tra
          Delvecchio Francesco e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), iscritta al n. 678
          del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51,
          prima serie speciale, dell’anno 1999.

          Visti gli atti di costituzione di Delvecchio Francesco, della FIAT AUTO s.p.a. e dell’INPS
          nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

          udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2000 il Giudice relatore Annibale Marini;

          uditi gli avvocati Domenico Carpagnano per Delvecchio Francesco, Raffaele De Luca Tamajo
          e Giuseppe Olivieri per la FIAT AUTO s.p.a., Vincenzo Morielli per l’INPS e l’avvocato dello
          Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                                         Ritenuto in fatto

          1. - Nel corso di due giudizi aventi ad oggetto il pagamento della rivalutazione monetaria e
          degli interessi legali per la ritardata corresponsione dell’indennità di fine rapporto maturata
          successivamente al 31 dicembre 1994, il Pretore di Torino ed il Tribunale di Trani, con
          ordinanze emesse il 21 maggio ed il 29 settembre 1999, hanno sollevato, in riferimento agli
          articoli 3 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma
          36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica),
          secondo cui <<l’articolo 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, (che esclude il
          cumulo di interessi e rivalutazione) si applica anche agli emolumenti di natura retributiva,
          pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il
          31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in
          quiescenza>>.
          Evidenziano i rimettenti come la Corte di cassazione, innovando all’orientamento
          giurisprudenziale prevalente, abbia di recente affermato che l’esclusione del cumulo di
          interessi e rivalutazione monetaria, sancito dalla norma impugnata, ricomprenderebbe, nel
          suo ambito applicativo, anche i crediti dei lavoratori alle dipendenze dei privati.
          La norma avrebbe, pertanto, abrogato l’art. 429 del codice di procedura civile che,
          nell’interpretazione della giurisprudenza consolidata, aveva stabilito, invece, per l’ipotesi di
          condanna al pagamento di somme di denaro, l’opposta regola della cumulabilità di interessi e
          rivalutazione monetaria.
          Ritengono i rimettenti che la giurisprudenza della Corte di cassazione costituisca ormai
          diritto vivente e valga, quindi, a superare la pronuncia con cui questa Corte ebbe a
          dichiarare manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale identica a
          quella ora in discussione in base alla considerazione che il giudice a quo aveva sollevato la
          questione sul presupposto dell’applicabilità della norma impugnata ai crediti retributivi dei
          dipendenti privati senza prima verificare, avuto riguardo all’incertezza interpretativa sul
          punto, la ammissibilità di una lettura alternativa a siffatta premessa e senza nemmeno
          motivare la soluzione prescelta.
          Ferma, dunque, l’ammissibilità della questione, la norma impugnata sarebbe, ad avviso dei
          rimettenti, in contrasto con il principio di eguaglianza per l’ingiustificata disparità di
          trattamento che comporterebbe in danno dei dipendenti pubblici e privati rispetto agli altri
          lavoratori, non dipendenti, ricompresi nell’elencazione di cui all’art. 409, numeri 2 e 3, cod.
          proc. civ. ed ai quali continuerebbe ad applicarsi, diversamente dai primi, il più vantaggioso
          regime di cui all’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ.
          Inoltre, ad avviso del Tribunale di Trani, in base alla stessa norma, si determinerebbe una
          diversa ed irragionevole disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici e privati ed i soci
          delle cooperative di lavoro i quali, ai sensi dell’art. 24 della legge 24 giugno 1997, n. 196,
          per il caso di insolvenza della cooperativa, hanno il diritto di richiedere al Fondo di garanzia
          costituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) il trattamento di fine
          rapporto ed i relativi accessori.
          Tali soci, infatti, essendo l’esclusione del cumulo di interessi e rivalutazione limitata ai
          dipendenti pubblici e privati, potrebbero continuare a giovarsi della più favorevole disciplina
          di cui all’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ. 
          Una ulteriore disparità di trattamento si verificherebbe, poi, in relazione al pagamento da
          parte del Fondo di garanzia dei crediti dei soci delle cooperative di lavoro inerenti gli ultimi
          tre mesi del rapporto di lavoro per i quali l’art. 2, comma 5, del decreto legislativo 27
          gennaio 1992, n. 80, prevede che siano dovuti, diversamente dai crediti dei dipendenti, gli
          interessi e la rivalutazione monetaria dalla data di presentazione della domanda.
          La norma impugnata sarebbe, poi, lesiva del criterio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della
          Costituzione in quanto l’esclusione del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, in essa
          sancita, riguarderebbe i soli emolumenti di natura retributiva senza ricomprendere quei
          crediti, pur nascenti dal rapporto di lavoro, ma privi di natura retributiva in senso proprio,
          quali, ad esempio, risarcimenti, rimborsi, indennità e premi non continuativi.
          Con la conseguenza che i crediti direttamente remunerativi della prestazione di lavoro
          risulterebbero irragionevolmente assoggettati ad una disciplina meno favorevole di quella
          riguardante i crediti di diversa natura.
          La stessa norma contrasterebbe con l’art. 3 anche sotto il profilo della <<razionalità delle
          scelte legislative>>, in quanto il trattamento privilegiato attribuito ai crediti di lavoro
          dall’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ. è stato giustificato dalla giurisprudenza di questa
          Corte in base ad una molteplicità di ragioni connesse alla qualità stessa del credito di lavoro
          e non potrebbe, pertanto, essere abrogato in presenza di quelle stesse ragioni che
          varrebbero a giustificarlo.
          Da ultimo, i rimettenti deducono la violazione dell’art. 36 Cost. in quanto – secondo la
          giurisprudenza stessa di questa Corte – il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria
          risponderebbe ad una duplice funzione: difendere il potere di acquisto della retribuzione
          consentendo in tal modo di soddisfare le esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia e
          compensare il lavoratore del ritardo nell’adempimento della prestazione e varrebbe, sotto
          entrambi tali profili, ad attuare lo stesso art. 36 Cost.
          1.1 – Nel giudizio promosso dal Pretore di Torino si è costituita la FIAT AUTO s.p.a.,
          rappresentata e difesa dagli avvocati Raffaele De Luca Tamajo, Franco Bonamico e Gian
          Pietro Borsotti, concludendo per l’inammissibilità della questione in quanto irrilevante nel
          giudizio a quo e comunque per la sua infondatezza, atteso che la scelta legislativa
          censurata dal Pretore risulterebbe pienamente conforme al dettato costituzionale avendo
          ricondotto la disciplina dei crediti di lavoro nell’ambito della norma generale di cui all’art.
          1224 cod. civ., nonostante il permanere di tratti di specialità quali la liquidabilità d’ufficio e
          la automatica qualificazione come maggior danno della svalutazione monetaria che eccede il
          tasso legale degli interessi.
          1.2 – In tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
          difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità
          ed infondatezza della questione, con riserva di motivare più diffusamente nel prosieguo.
          2. – Nel giudizio promosso dal Tribunale di Trani si è costituito Francesco Delvecchio,
          rappresentato e difeso dagli avvocati Domenico Carpagnano e Biagio Capacchione, il quale –
          pur ampiamente argomentando riguardo alla possibilità di una diversa interpretazione della
          norma denunciata, tuttavia preclusa oramai dall’orientamento consolidato del giudice di
          legittimità – ha concluso per l’accoglimento della questione di costituzionalità.
          La parte privata, dopo aver richiamato le considerazioni tutte svolte dal giudice rimettente,
          osserva che ulteriori elementi a sostegno del dubbio di legittimità costituzionale possono
          trarsi dalla disciplina stessa del trattamento di fine rapporto.
          Il quarto comma dell’art. 2120 del codice civile, come modificato dall’art. 1 della legge 29
          maggio 1982, n. 297, prevede, infatti, che il trattamento di cui al primo comma sia
          incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l’applicazione di un
          tasso costituito dall’1,5 per cento in misura fissa e dal 75 per cento dell’aumento dell’indice
          dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall’ISTAT rispetto al
          mese di dicembre dell’anno precedente.
          Norma questa la cui ratio è evidentemente quella di impedire che tale trattamento possa
          perdere il proprio potere di acquisto per effetto di fenomeni inflattivi legati al decorso del
          tempo.
          Ora, ad avviso della stessa parte, sarebbe irragionevole che il legislatore, mentre si
          preoccupa, attraverso tale meccanismo di indicizzazione, di preservare il potere di acquisto
          del trattamento di fine rapporto in costanza del rapporto di lavoro, escluda poi l’automatica
          rivalutazione di tale credito una volta che questo sia divenuto esigibile.
          Osserva, inoltre, sempre la medesima parte, che con il decreto legislativo n. 80 del 1992
          sono state poste a carico del Fondo di garanzia, per il caso di insolvenza del datore di
          lavoro, oltre alle ultime tre mensilità di retribuzione, anche gli interessi e la rivalutazione
          monetaria dalla data di presentazione della domanda (art. 2).
          Disposizione che, attesa la natura previdenziale della prestazione a carico del Fondo di
          garanzia, da un lato sarebbe speciale rispetto a quella, precedentemente entrata in vigore,
          di cui all’art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991, che aveva in via generale stabilito
          l’esclusione del cumulo di interessi e rivalutazione per le prestazioni di natura previdenziale,
          e dall’altro non sarebbe derogata né abrogata dall’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del
          1994 relativo ai soli crediti di natura retributiva.
          Ne conseguirebbe perciò che l’obbligazione a carico dell’INPS, nell’ipotesi riguardata dalla
          precitata norma, verrebbe ad essere addirittura più ampia, in quanto comprensiva sia degli
          interessi che della rivalutazione monetaria, di quella posta a carico del debitore principale. 
          2.1 - Si è altresì costituito in tale giudizio l’INPS, rappresentato e difeso dagli avvocati
          Vincenzo Morielli, Antonio Todaro, Luigi Cantarini e Patrizia Tadris, eccependo in via
          preliminare l’inammissibilità della questione in quanto identica a quella già dichiarata da
          questa Corte manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 147 del 1998.
          Nel merito l’INPS deduce comunque l’infondatezza della questione in riferimento ad entrambi i
          parametri evocati. 
          Quanto all’art. 3 Cost. - premesso che la disparità di trattamento tra i lavoratori dipendenti
          e gli altri lavoratori di cui ai numeri 2 e 3 dell’art. 409 cod. proc. civ. non sarebbe comunque
          lesiva del principio di eguaglianza, per la non equiparabilità delle situazioni poste a confronto
          - l’INPS prospetta la possibilità di una interpretazione adeguatrice dell’art. 429, comma
          terzo, cod. proc. civ. <<che omogeneizzi ancora di più quella regola, introdotta dall’art. 16,
          comma 6, della legge n. 412 del 1991 e allargata dall’art. 22, comma 36, della legge n. 724
          del 1994, che, come ha osservato Cass. 12523/99, si colloca ormai all’interno di un
          medesimo sistema, quello della generale regola sulla responsabilità contrattuale da
          inadempimento (art. 1224), valevole per tutti i crediti (di lavoro, previdenziali e
          assistenziali)>>. 
          Inconferente - ad avviso della stessa parte - sarebbe poi il raffronto dei dipendenti con i
          soci delle cooperative di lavoro, in quanto la diversa natura del rispettivo rapporto
          giustificherebbe la diversità di trattamento legislativo, mentre risulterebbe addirittura
          incomprensibile il riferimento effettuato dal rimettente all’art. 2 del decreto legislativo n. 80
          del 1992, atteso che i crediti ivi considerati, per la loro natura retributiva, sarebbero
          comunque soggetti alla disciplina della norma denunciata.
          Dovrebbe, infine, escludersi l’asserita violazione dell’art. 36 Cost. la cui tutela, attenendo
          alla giusta e sufficiente retribuzione, non sarebbe esclusa dalla diversa regolamentazione
          degli accessori.
          2.2 – In tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
          difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità
          ed infondatezza della questione e riservandosi di meglio illustrare in seguito le proprie
          ragioni.
          2.3 - In prossimità dell’udienza pubblica hanno presentato memorie illustrative il Presidente
          del Consiglio dei ministri, la FIAT AUTO s.p.a. e la FIAT AUTO Partecipazioni s.p.a.
          Secondo la parte pubblica, la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile in quanto
          sollevata negli stessi termini e con le stesse motivazioni di quella già dichiarata da questa
          Corte manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 147 del 1998.
          La questione sarebbe, comunque, infondata nel merito in quanto la scelta effettuata dal
          legislatore con la norma impugnata non sarebbe né ingiustificata né irragionevole non
          sussistendo nel momento attuale alcun motivo per mantenere una disciplina dei crediti
          retributivi e previdenziali diversa da quella di cui agli artt. 1282 e 1224 cod. civ.
          L’art. 22 della legge n. 724 del 1994 non avrebbe, poi, eliminato la possibilità della
          liquidazione dell’eventuale maggior danno ove esistente e provato secondo la disciplina
          generale.
          La disposizione impugnata non violerebbe, comunque, né il principio di eguaglianza di cui
          all’art. 3 Cost. per l’evidente diversità delle fattispecie poste a raffronto né l’art. 36 Cost.
          essendo prevista la corresponsione degli interessi moratori in caso di ritardo nel pagamento
          della retribuzione e sussistendo comunque, come si è detto, la possibilità del ristoro del
          maggior danno.
          La FIAT AUTO s.p.a. e la FIAT AUTO Partecipazioni s.p.a., la prima in quanto successore a
          titolo particolare nel diritto controverso e la seconda in quanto parte originaria con
          l’assunzione di una nuova denominazione, in una articolata e diffusa memoria esaminano, per
          confutarli, tutti i profili di incostituzionalità sollevati dal Pretore di Torino, concludendo per
          l’inammissibilità e/o l’infondatezza della questione.
          Meritevole di particolare menzione è l’assunto, svolto dalle suddette parti private con
          dovizia di argomenti, secondo cui <<è certamente possibile interpretare il dettato normativo
          (rendendolo così conforme all’art. 3 Cost.) nel senso che il citato art. 22 della legge n. 724
          del 1994 si deve intendere riferito anche ai crediti dei lavoratori parasubordinati ed a quelli
          derivanti dai rapporti agrari>>.
          Secondo le stesse parti, le censure di incostituzionalità dovrebbero, in ogni caso, riguardare
          non già la disciplina generale di cui alla norma impugnata, ma l’esclusione da essa delle
          asserite previsioni derogatorie riguardanti, secondo quanto dal rimettente ritenuto, i rapporti
          parasubordinati, i rapporti agrari e gli elementi non retributivi.
          La scelta effettuata dal legislatore con la norma impugnata sarebbe, poi, discrezionale e,
          comunque, non irragionevole essendo diretta ad evitare che la sommatoria di interessi e
          rivalutazione monetaria trasformi in concreto la ritardata percezione di elementi retributivi in
          un vero e proprio investimento con rendimento garantito ed estremamente vantaggioso per
          il lavoratore; mentre, e per converso, la stessa sommatoria si tradurrebbe in un esborso
          notevolmente gravoso per il datore di lavoro, specie quando i tempi dell’adempimento
          risultassero condizionati da quelli ormai dilatati del processo del lavoro.
          Nessun contrasto potrebbe, infine, ipotizzarsi con l’art. 36 Cost. in quanto la norma
          sottoposta a scrutinio di costituzionalità, modificando il criterio di quantificazione del danno
          per ritardato adempimento, non interferirebbe in alcun modo con l’art. 36 Cost. che
          garantisce i criteri di quantificazione del credito retributivo.
          L’intervento legislativo sull’ammontare degli accessori del credito retributivo non sarebbe,
          quindi, attinente all’ambito precettivo dell’art. 36 Cost. che si occupa della misura e dei
          parametri della retribuzione e non degli obblighi che scaturiscono dal ritardato adempimento
          da parte del datore di lavoro.
          Comunque, e sempre ad avviso delle suddette parti, il cumulo di interessi e rivalutazione
          monetaria non rappresenterebbe l’unico mezzo atto a garantire una retribuzione sufficiente,
          ma solo uno tra i vari strumenti possibili il cui funzionamento può ben essere desensibilizzato
          o rallentato senza causare alcun contrasto con l’art. 36 Cost. 
          Da ultimo e conclusivamente, tali parti sottolineano che il giudice rimettente, ad avviso del
          quale i dipendenti privati dovrebbero essere esclusi dall’ambito applicativo della norma
          impugnata, avrebbe dovuto, coerentemente, fare propria tale opzione interpretativa senza
          sollevare il dubbio di costituzionalità sulla base della opposta lettura proposta da parte della
          giurisprudenza.
          Sicché, sotto tale aspetto, la questione sarebbe, tra l’altro, inammissibile.
          Considerato in diritto
          1. - Il Pretore di Torino ed il Tribunale di Trani dubitano, in riferimento agli articoli 3 e 36
          della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23
          dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
          Tale norma prevede che, per gli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed
          assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994,
          spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza, l’importo
          dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a
          ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore
          del suo credito.
          La norma impugnata, applicabile, secondo la recente giurisprudenza della Corte di
          cassazione, anche ai crediti dei dipendenti dai privati datori di lavoro, sarebbe, ad avviso dei
          rimettenti, lesiva dell’art. 3 della Costituzione sotto molteplici aspetti e precisamente:
          per l’ingiustificata disparità di trattamento che ne conseguirebbe in danno dei dipendenti
          pubblici e privati rispetto agli altri lavoratori di cui all’art. 409, numeri 2 e 3, del codice di
          procedura civile, ai quali continuerebbe ad applicarsi la disciplina più favorevole disposta dal
          previgente testo dell’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ.;
          per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare in danno dei dipendenti pubblici
          e privati rispetto ai soci delle cooperative di lavoro i quali, a differenza dei primi, potrebbero
          continuare a giovarsi, in caso di ritardo nella corresponsione del trattamento di fine rapporto
          da parte del Fondo di garanzia, della più favorevole disciplina di cui al previgente testo
          dell’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ.;
          per la disparità di trattamento che si verificherebbe tra i dipendenti pubblici e privati ed i
          soci delle cooperative di lavoro per quanto riguarda il pagamento da parte del Fondo di
          garanzia dei crediti inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro in relazione ai quali l’art.
          2, comma 5, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80, prevede che siano dovuti gli
          interessi e la rivalutazione monetaria dalla data di presentazione della domanda;
          per l’irragionevolezza della disciplina denunciata in quanto l’esclusione del cumulo di interessi
          e rivalutazione riguarderebbe i soli emolumenti di natura retributiva con esclusione quindi di
          quelli non retributivi, pur collegati al rapporto di lavoro, quali ad esempio risarcimenti,
          rimborsi, indennità e premi non continuativi;
          per <<l’irrazionalità della scelta legislativa>> in quanto il trattamento privilegiato attribuito ai
          crediti di lavoro dalla previgente disciplina risultante dall’art. 429, comma terzo, cod. proc.
          civ. sarebbe giustificata, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, da una
          molteplicità di ragioni connesse alla qualità stessa del credito di lavoro e non potrebbe,
          dunque, in presenza di tali ragioni, essere legittimamente abrogata.
          La norma impugnata sarebbe, poi, sotto un diverso aspetto, costituzionalmente illegittima in
          quanto il cumulo di interessi e rivalutazione dalla stessa abrogato risponderebbe – in
          conformità a quanto affermato da questa Corte - sia alla finalità di difendere il potere di
          acquisto della retribuzione in quanto destinata a soddisfare le esigenze di vita del lavoratore
          e della sua famiglia sia alla finalità compensativa del lavoratore per il ritardo nel pagamento
          della retribuzione, costituendo, sotto entrambi tali profili, attuazione dell’art. 36 della
          Costituzione. 
          2. - I giudizi, avendo ad oggetto questioni sostanzialmente identiche, vanno riuniti per
          essere decisi con unica pronunzia.
          3. - Va preliminarmente dichiarata l’irricevibilità della memoria depositata in prossimità
          dell’udienza pubblica dalla FIAT AUTO s.p.a., nella sua veste di successore a titolo
          particolare nel diritto controverso. La mancata costituzione di tale società nel giudizio a
          quo, attestata nel corso dell’udienza pubblica da uno dei difensori, porta, infatti, ad
          escludere la sua qualità di parte non solo di tale giudizio, ma anche di quello di legittimità
          costituzionale che, per la sua incidentalità, non può di norma avere un ambito soggettivo
          diverso e più esteso del primo.
          4. – Devono, poi, disattendersi le eccezioni di inammissibilità della questione avanzate dalle
          parti dei giudizi in oggetto. 
          In particolare, la Presidenza del Consiglio dei ministri e l’Istituto nazionale della previdenza
          sociale (INPS) affermano che la presente questione, essendo identica ad altra già dichiarata
          da questa Corte manifestamente inammissibile (v. ordinanza n. 147 del 1998), debba essere
          decisa negli stessi termini di quest’ultima.
          In contrario, è da osservare che nel caso giudicato da questa Corte era stata ritenuta del
          tutto apodittica ed immotivata la premessa da cui muoveva il giudice a quo circa la
          applicabilità della norma impugnata ai dipendenti privati.
          Formatasi su tale punto una costante giurisprudenza di legittimità alla quale gli odierni
          rimettenti dichiarano di aderire resta con ciò stesso superata la stessa base giustificativa
          della citata pronunzia di inammissibilità.
          Egualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità, avanzata dalla FIAT AUTO
          Partecipazioni s.p.a. sul rilievo che il rimettente nell’individuare la sfera soggettiva di
          applicabilità della norma avrebbe dovuto adottare la interpretazione restrittiva, dallo stesso
          ritenuta più corretta, senza sentirsi vincolato alla diversa e più lata interpretazione della
          giurisprudenza di legittimità.
          Il rimettente non ha, infatti, dichiarato di ritenere l’interpretazione restrittiva più corretta di
          quella accolta dalla Cassazione, essendosi limitato a dar conto delle ragioni che lo hanno
          indotto a modificare la propria scelta al riguardo aderendo, con opzione di per sé non
          censurabile, all’indirizzo seguito dalla costante giurisprudenza di legittimità venutasi a
          formare sul punto. 
          5. - Nel merito la questione è fondata.
          6. - Va ricordato che questa Corte, in sede di scrutinio di costituzionalità dell’art. 429,
          comma terzo, cod. proc. civ., ha avuto modo di affermare che « la prima (e, di per sé, già
          decisiva) giustificazione del trattamento privilegiato attribuito ai crediti di lavoro sta [...]
          nella qualità stessa del credito che trova, nello sfondo, il presidio e la garanzia (per così dire
          rafforzata) di più precetti costituzionali, quali quelli contenuti negli artt. 1, 3 cpv., 4, 34 e
          36» . Sulla base di siffatta premessa la Corte ha quindi ritenuto che il citato art. 429 cod.
          proc. civ. si collocasse razionalmente nel contesto di tale peculiare tutela, « apprestando
          un meccanismo di conservazione del valore in senso economico delle prestazioni dovute al
          lavoratore, volto a preservare (o, comunque, ripristinare) quel "potere di acquisto di beni
          reali" che si connette alla retribuzione ed alle indennità di fine rapporto (costituenti la parte
          indiscutibilmente prevalente dei crediti del lavoratore) e nel contempo ad eliminare il
          vantaggio che (in precedenza) conseguiva il datore di lavoro col ritardato adempimento» .
          Ulteriore ma non secondaria ragione giustificatrice della norma è stata altresì rinvenuta nella
          sua funzione di remora « rispetto [...] al fatto stesso del non puntuale adempimento alla
          scadenza delle prestazioni destinate ad assolvere esigenze primarie del lavoratore»
          (sentenza n. 13 del 1977; in senso conforme le sentenze n. 207 del 1994, n. 76 del 1981, n.
          161 del 1977).
          La citata giurisprudenza, pur riferita all’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ., ha, del resto,
          rappresentato, sotto altro aspetto, il presupposto logico delle dichiarazioni di illegittimità
          costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost., dell’art. 442 cod. proc. civ., nella
          parte in cui non prevedeva un analogo meccanismo di tutela per i crediti previdenziali e per
          quelli assistenziali (sentenze n. 196 del 1993 e n. 156 del 1991).
          E’ noto che il legislatore ha nuovamente escluso, con l’art. 16, comma 6, della legge 30
          dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), il cumulo di interessi
          legali e rivalutazione per i crediti previdenziali e che detta norma ha superato indenne il
          vaglio di costituzionalità, con riferimento ancora ai parametri di cui agli artt. 3 e 38 Cost.
          Le uniche ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo sono state peraltro individuate dalla
          Corte, in un « contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica» ,
          nella « necessità di una più adeguata ponderazione dell’interesse collettivo al contenimento
          della spesa pubblica» , necessità costituente, come reso evidente anche dal suo
          inserimento nella legge finanziaria, « ratio autonoma» della norma in quella sede censurata
          (sentenza n. 361 del 1996).
          7. - La norma impugnata dagli odierni rimettenti estende ai crediti di lavoro la medesima
          regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi già prevista per i crediti
          previdenziali dal citato art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412,
          riconoscendo, in buona sostanza, al lavoratore la maggior somma tra l’ammontare degli
          interessi e quello della rivalutazione monetaria.
          Poiché le ragioni di contenimento della spesa pubblica, nelle quali la Corte ha rinvenuto la
          giustificazione dal punto di vista costituzionale della norma richiamata, non sono
          evidentemente riferibili ai crediti di lavoro derivanti da rapporti di diritto privato - rispetto ai
          quali esclusivamente rileva la questione sollevata dai rimettenti - ciò che occorre allora
          valutare, con riferimento innanzitutto al parametro di cui all’art. 36 Cost., è se la nuova
          disciplina degli accessori soddisfi quelle specifiche esigenze di tutela dei crediti di lavoro già
          individuate da questa Corte nella giurisprudenza sopra citata.
          Va infatti e preliminarmente ribadito, a tale riguardo, che la materia concernente le
          conseguenze del ritardato adempimento dei crediti di lavoro non può in alcun modo ritenersi
          estranea alla garanzia costituzionale della giusta retribuzione, essendo indubbio che
          l’idoneità della retribuzione ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera
          e dignitosa si ponga in funzione non solo del suo ammontare ma anche della puntualità della
          sua corresponsione, del pari essenziale, come è evidente, al soddisfacimento delle
          quotidiane esigenze di vita del lavoratore e dei suoi familiari. Aspetto quest’ultimo che porta
          necessariamente a diversificare i crediti di lavoro da quelli comuni e che, perciò stesso,
          richiede per i primi una tutela differenziata da quella accordata ai secondi. 
          7.1 - La nuova disciplina, pur prevedendo l’automatico riconoscimento, in favore del
          lavoratore, dell’intero ammontare della rivalutazione monetaria, anche se superiore a quello
          degli interessi ed a prescindere dalla prova del relativo danno, risulta carente sotto uno dei
          profili di giustificazione enunciati dalla giurisprudenza della Corte.
          La regola da essa introdotta, infatti, diversamente dalla precedente, rende nuovamente
          conveniente per il debitore, da un punto di vista economico, dirottare verso investimenti
          finanziari pur privi di rischio (quali, ad esempio, i titoli di Stato) le somme destinate al
          pagamento delle retribuzioni e degli altri crediti di lavoro, lucrando in tal modo l’eventuale
          differenziale tra il rendimento dell’investimento ed il tasso della svalutazione. Con evidente
          vanificazione di quella funzione di remora all’inadempimento richiamata dalla giurisprudenza di
          questa Corte.
          Ciò non vuol dire, ovviamente, che il meccanismo di cumulo di interessi e rivalutazione
          monetaria, previsto dall’art. 429, comma terzo, cod. proc. civ., debba intendersi
          costituzionalizzato.
          Il legislatore, nella sua discrezionalità, resta, infatti, libero di sostituire il precedente
          meccanismo con altro, con il limite però rappresentato dalla necessità di riconoscere ai
          crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, una effettiva specialità di tutela
          rispetto alla generalità degli altri crediti prevedendo un meccanismo di riequilibrio del
          vantaggio patrimoniale indebitamente conseguito dal datore di lavoro attraverso
          l’inadempimento. 
          Ed è proprio siffatta tutela che viene a mancare nella specie, limitandosi la norma impugnata
          – a parte alcuni aspetti procedurali di scarsa significatività – a ricondurre, come afferma lo
          stesso giudice di legittimità, la disciplina dei crediti di lavoro all’interno della disciplina
          generale di cui all’art. 1224 cod. civ. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento.
          La norma stessa risulta, in tal modo, in evidente contrasto con l’art. 36 Cost. e va,
          pertanto, dichiarata incostituzionale, limitatamente alle parole « e privati» , venendo in tal
          modo ricondotta a legittimità la disciplina dei rapporti di lavoro di diritto privato che, come si
          è detto, vengono in esclusiva considerazione nei giudizi a quibus.
          Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità dedotto dai rimettenti.
                                        PER QUESTI MOTIVI
                                    LA CORTE COSTITUZIONALE
          riuniti i giudizi,
          dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n.
          724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), limitatamente alle parole « e privati» .
          Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23
          ottobre 2000.
 

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