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Cass. civ.,
Sez. Un., 04 luglio 2012, n. 11135, la
locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari SVOLGIMENTO DEL PROCESSO F.C., in qualità di comproprietaria, nella misura
della metà, di un immobile adibito ad uso commerciale, locato dall'altra
comproprietaria N.A. a T.C., chiedeva, con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., l'accertamento del
diritto a ricevere la metà del canone di locazione e la condanna del
conduttore al pagamento di tale quota a far data dalla domanda giudiziale. Il conduttore si costituiva assumendo di essere
tenuto esclusivamente a pagare unitariamente il canone alla locatrice secondo
il vincolo contrattuale assunto, dichiarandosi disponibile a stipulare nuovo
contratto con entrambe le comproprietarie o a provvedere al versamento del
canone su un libretto bancario o postale. Anche la comproprietaria locatrice N. si costituiva
chiedendo il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti e proponendo,
in via subordinata, domanda riconvenzionale volta alla condanna dell'attrice
al risarcimento dei danni. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda
ritenendo applicabile alla fattispecie il modello negoziale del mandato senza
rappresentanza e in particolare l'art. 1705 c.c., che consente al mandante,
sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dal
mandato. Condannava, pertanto, il T. a corrispondere all'attrice il 50% dei
canoni maturati tra il mese di agosto del 2002 e la cessazione della
locazione, con gli interessi legali sui canoni scaduti dalle scadenze al
saldo; respingeva altresì le domande riconvenzionali della N., compensando
tra le parti te spese processuali. La sentenza veniva impugnata in via principale dal
conduttore, il quale deduceva che il Tribunale aveva errato nel fare
riferimento, ai fini della decisione, agli istituti della comunione e del
mandato. Resistevano all'impugnazione sia F.C. che N. A.;
quest'ultima, oltre ad aderire alla impugnazione proposta dal T., proponeva
appello incidentale condizionato. Da qui l'accoglimento dell'appello e la riforma
della sentenza impugnata, con elisione della condanna del conduttore T. C. al
pagamento di una somma pari al 50% del canone a favore di F.C.. Per la cassazione di questa sentenza La seconda sezione civile della Corte ha disposto la
rimessione alle Sezioni Unite, osservando che le due contrapposte soluzioni
assunte in primo e secondo grado si fondavano su orientamenti distinti di
legittimità e che la questione della qualificazione giuridica del rapporto
tra i comproprietari nel caso di locazione stipulata da uno solo di essi con
riferimento alla produzione (o esclusione) degli effetti del contratto in
capo al comproprietario non locatore, dovesse essere ritenuta questione di
massima di particolare importanza. La causa è quindi stata assegnata alle Sezioni
Unite. In prossimità dell'udienza di discussione la
ricorrente ha depositato memoria. MOTIVI DEL RICORSO 1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la
sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c., nonchè per vizio logico ed
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione, dolendosi del fatto che
Atteso che il conduttore, nel costituirsi in
giudizio aveva professato una posizione di sostanziale indifferenza rispetto
alla individuazione del beneficiario del pagamento del canone, sempre che,
ovviamente, si convenisse sul fatto che, una volta effettuato il pagamento
dell'importo dell'intero canone anche mediante versamento su un libretto di
deposito, egli non fosse esposto al rischio della duplicazione del pagamento
del 50% del detto importo in favore della originaria attrice, risultava
chiaro, secondo la ricorrente, il difetto di interesse alla impugnazione
della sentenza del Tribunale di Massa, che quella certezza aveva offerto,
ponendo a suo carico l'obbligo di pagare, a far data dal mese di agosto 2002,
il 50% del canone alla locatrice e alla comproprietaria. 1.1. Il primo motivo, all'esame del quale occorre
procedere prima ancora della esposizione dei motivi ulteriori del ricorso e
delle ragioni per le quali la questione è stata rimessa all'esame di queste
Sezioni Unite, è infondato. Invero, il conduttore, il quale aveva puntualmente
adempiuto alla propria obbligazione di pagare il canone in favore della
locatrice anche nella pendenza del giudizio di primo grado, essendo stato
condannato dal Tribunale di Massa a corrispondere all'attrice il 50% del canone
anche per i mesi dall'agosto 2002 al marzo 2004, per i quali il pagamento era
stato già interamente effettuato alla locatrice, aveva senz'altro interesse a
una revisione della statuizione della decisione di primo grado. 2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia
violazione o falsa applicazione degli artt. 832, 1100, 1101, 1102, 1103, 1104, 1105, 1108, 1372, 1703, 1705, 1710 e 1722 c.c., nonchè vizio logico e omessa,
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia. 2.1. La ricorrente sostiene che 2.2. La ricorrente rileva poi che 2.3. Sotto altro profilo, la ricorrente censura la
sentenza impugnata per avere 2.4. Da ultimo, la ricorrente sostiene che 3. Con il terzo motivo, la ricorrente, oltre alle
disposizioni del codice menzionate nel secondo motivo, denuncia violazione
degli artt. 2028, 2030 e 2032 c.c., e degli artt. 99, 329 e 342 c.p.c., nonchè vizio logico e omessa,
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia. La censura si riferisce alla parte della sentenza
impugnata nella quale dall'altro, che Tale ultima ricostruzione, peraltro, sarebbe
inammissibile, atteso che l'appellante principale aveva criticato la sentenza
di primo grado per avere applicato al caso di specie la disciplina del
mandato, ma mai aveva fatto riferimento all'istituto della gestione d'affari;
errata, in quanto l'asserito gestore, senza il previo consenso e la
disponibilità del bene comune non avrebbe potuto legittimamente nè
amministrare nè disporre, e certamente non avrebbe potuto trasferire la
detenzione della quota di proprietà di essa ricorrente attraverso la
stipulazione di un contratto di locazione, che certamente non sarebbe stato
valido se non ratificato dalla parte interessata; ed irrilevante, in quanto
la gestione di affari si fonda proprio sul mandato senza rappresentanza e
cioè su quell'istituto che Ed ancora, la ricorrente rileva che Da ultimo, la ricorrente rileva che l'esclusione dal
contratto della comproprietaria e l'immodificabilità soggettiva del rapporto
ex parte locatoris determinerebbe una limitazione ingiustificata dei diritti
di godimento e patrimoniali rispetto all'immobile della comproprietaria non
compatibile con il regime giuridico della comunione. 4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce
violazione o falsa applicazione degli artt. 81, 100, 105, 416, 419, 434, 435, 436, 447 bis c.p.c., nonchè vizio logico e omessa,
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia. Sul rilievo che la sentenza di primo grado non aveva
accolto la domanda subordinata ed alternativa da essa proposta nei confronti
della N. ed aveva rigettato le domande riconvenzionali che quest'ultima aveva
proposto subordinatamente all'accoglimento della domanda alternativa, la
ricorrente ritiene che 5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta
violazione o falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., nonchè vizio logico e omessa,
insufficiente, erronea o contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia. La ricorrente si duole del fatto che l'accoglimento
dell'appello avversario non abbia consentito alla Corte d'appello di
esaminare il suo appello incidentale con il quale aveva censurato la sentenza
di primo grado per avere compensato le spese di lite pur essendo ella
risultata vittoriosa. 6. Con riferimento alla questione sollevata con il
secondo e il terzo motivo di ricorso, Premesso che la questione relativa alla
legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per
l'esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla
stipulazione del contratto da parte dell'altro comproprietario può essere
giuridicamente qualificata secondo i due modelli prescelti rispettivamente
dalla sentenza di primo grado (mandato senza rappresentanza - esercizio
diretto da parte del mandante locatore non comproprietario del diritto ad
esigere la quota del canone corrispondente alla titolarità del diritto reale
pro quota) e di secondo grado (gestione utile nell'interesse comune con
esclusione di qualsiasi interferenza del locatore non comproprietario
nell'esercizio dei diritti contrattuali), l'ordinanza interlocutoria ha posto
in evidenza che entrambe le prospettazioni si ritrovano negli orientamenti di
legittimità e che si è delineato anche un terzo indirizzo, sull'equivalenza
dei poteri gestori dei comproprietari in ordine al bene comune anche quando
uno solo dei comunisti ne abbia trasferito il diritto di godimento. In particolare, con riferimento all'applicabilità
dell'art. 1705 c.c., ai rapporti di locazione, sul
quale si è fondato il giudice di primo grado, esiste un orientamento secondo
il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo
mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705 c.c., comma 2, ogni diritto di
credito derivante dal rapporto negoziale nonchè essere legittimato ad agire
in giudizio per la riscossione del canone. Il mandante ai sensi dell'art. 1705 c.c., esercita in via diretta e non
surrogatoria i diritti di credito sorti in capo ai mandatario sulla base del
contratto concluso, con la sola condizione di non pregiudicarlo. Oltre ai
diritti di credito, nella giurisprudenza meno recente il diritto del mandante
a sostituirsi al mandatario nell'esecuzione del contratto è stato esteso
all'azione di risoluzione del contratto e al risarcimento dei danni nel
confronti del terzo contraente. L'altro orientamento sul quale si è fondato, invece,
il giudice di secondo grado, formatosi specificamente in tema di comunione e
di diritti del comproprietario non locatore, ha configurato la fattispecie
come gestione utile nell'interesse comune. Le conseguenze della diversa
impostazione sono di estrema rilevanza. I rapporti tra l'autore della
gestione, che può aver validamente agito anche all'insaputa degli altri
comunisti, sono direttamente ed esclusivamente regolati dalle norme della
comunione e non possono incidere sulla sfera giuridica del terzo che rimane
vincolato in via esclusiva con il locatore e non può subire interferenze o
pregiudizio dai rapporti tra i comunisti stessi. La locazione svolge pienamente i suoi effetti anche
quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c., e seguenti del codice
civile, essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia
la disponibilità della cosa locata. Gli altri comproprietari non possono
agire per il rilascio o la rivendica del bene, salvo il diritto al
risarcimento del danno nei confronti dell'altro comunista. Secondo questa
impostazione, il pagamento del canone nelle mani del locatore ha pieno
effetto liberatorio mentre l'altro comproprietario non è legittimato ad agire
in giudizio per esercitare questo diritto. Questa conclusione, abbracciata integralmente dal
giudice d'appello, secondo l'ordinanza interlocutoria, contrasta con il più
recente ma consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale sugli
immobili oggetto di comunione, in difetto di prova contraria, concorrono pari
poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione
che ognuno operi con il consenso degli altri. Da queste premesse consegue che
ogni comproprietario è legittimato a stipulare il contratto ma anche ad agire
per il rilascio dell'immobile comune, senza che sia necessaria la
partecipazione degli altri condomini. Gli elementi di contrasto sono, in conclusione,
secondo l'ordinanza interlocutoria: l'applicabilità del regime giuridico dei
mandato senza rappresentanza alla locazione stipulata da uno dei
comproprietari; i poteri di gestione dei comunisti in ordine alla locazione
della cosa comune. 7. Prima di procedere alla disamina dei diversi
orientamenti ora richiamati, appare opportuno rilevare che alla base di tutte
e tre le prospettive interpretative vi sono due premesse comuni: che
condizione necessaria per stipulare il contratto di locazione è la
disponibilità della cosa comune da parte del comproprietario, corrispondente
alla detenzione esclusiva e qualificata dell'immobile, trattandosi di un
presupposto comune ad ogni locazione (Cass. n. 470 del 1997; Cass. n. 539 del 1997; Cass. n. 8411 del 2006); che,
indipendentemente dalla qualificazione giuridica del potere del singolo
comproprietario che pone in essere un atto di ordinaria amministrazione sul
bene comune, il contratto di locazione dell'intero bene comune stipulato da
uno solo dei comunisti è valido ed efficace senza la necessità della
preventiva allegazione o dimostrazione dell'esistenza di un idoneo potere
rappresentativo. Invero, la locazione può essere convenuta dal
singolo comproprietario, anche all'insaputa degli altri, purchè il suddetto
comproprietario abbia la disponibilità del bene comune e sia in grado di
adempiere la fondamentale obbligazione del locatore, e cioè quella di
consentire il godimento del bene al conduttore; la concessione in locazione
di un immobile non costituisce, quindi, atto esclusivo del proprietario,
potendo legittimamente assumere veste di locatore anche colui che abbia la
mera disponibilità del bene medesimo (Cass. n. 14395 dei 2004), sempre che
tale disponibilità sia determinata da titolo non contrario a norme d'ordine
pubblico (Cass. n. 4764 del 2005; Cass. n. 8411 del 2006; Cass. n. 12976 del 2010). A fronte di questi tratti comuni vi sono differenze
d'impostazione e di regime giuridico che conseguono in particolare dall'assunzione
del modello della negotiorum gestio o del mandato, indifferentemente
qualificato tacito o presunto anche se dal punto di vista dell'onere
probatorio le differenze di disciplina non sono modeste, potendosi applicare
la presunzione di consenso degli altri comunisti o quanto meno della
maggioranza solo nel mandato presunto, mentre in quello tacito il potere di
agire in qualità di mandatario è soggetto alle ordinarie regole di
allegazione e prova dei fatti costitutivi dell'azione (od eccezione). Appare opportuno altresì premettere che le pronunce
di legittimità che hanno applicato l'art. 1705 cod. civ. al contratto di locazione
stipulato dal locatore uti non dominus non si riferiscono ad un bene in
comunione, del quale il locatore sia comproprietario, ma specificamente ad un
bene altrui, con conseguente più agevole applicazione dell'istituto del
mandato senza rappresentanza, e in particolare dell'art. 1705 c.c., comma 2. Questa norma
stabilisce, infatti, in deroga al principio espresso nella prima parte del
medesimo secondo comma, a tenore del quale "i terzi non hanno alcun
rapporto con il mandante", che quest'ultimo possa esercitare i diritti
di credito derivanti dall'esecuzione del mandato. Si tratta dell'esercizio di
un potere di sostituzione piena del mandante al mandatario e non, come invece
accade nella comunione, della partecipazione di un altro cointeressato
titolare dello stesso potere di disposizione sul bene del
"mandatario" locatore. La norma invocata non è dettata per
disciplinare una fattispecie di titolarità comune di poteri gestori su un
diritto o su un bene ma per ripristinare, attraverso la revoca del mandato,
l'esclusiva titolarità del mandante in ordine all'atto di disposizione del
proprio diritto o bene. Coerentemente con la segnalata difficoltà di
adattamento dell'effetto sostitutivo disciplinato dall'art. 1705 c.c., con il regime giuridico
dell'amministrazione della cosa comune, le pronunce di questa Corte che hanno
riconosciuto il potere del singolo comunista di stipulare un contratto di
locazione relativo all'intero bene comune non hanno mai utilizzato l'art. 1705 c.c., nè per giustificare
l'ingerenza nel contratto degli altri comproprietari, nè per escludere
l'opponibilità ad essi del regolamento negoziale. La validità ed efficacia della locazione è stata
tratta da una lettura integrata dell'art. 1102, e dell'art. 1105 c.c., comma 1, dalla quale si desume
una pari legittimazione a contrarre dei comproprietari e, per talune
pronunce, una conseguente contitolarità del rapporto di locazione unita ad un
pari potere di esercitare le azioni contrattuali anche dirette alla
estinzione del vincolo negoziale. Gli orientamenti che si sono succeduti più
che contrapporsi hanno costituito l'uno il substrato logico giuridico
dell'altro. Eccentrico rispetto alla comunione rimane esclusivamente il
ricorso all'art. 1705 c.c., che, come osservato, non è
stato utilizzato per giustificare l'esercizio, da parte dei comproprietari
esclusi, dei diritti e delle azioni relative all'atto di disposizione sul
bene comune. 7.1. Prendendo dunque le mosse da quest'ultimo
orientamento, recepito dalla sentenza di primo grado, occorre rilevare che lo
stesso presenta aspetti problematici. L'esame delle singole pronunce, infatti, evidenzia differenze
significative in ordine all'ampiezza del potere di sostituzione del mandante.
In pronunce meno recenti (Cass. n. 1306 del 1969; Cass. n. 3626 del 1980; Cass. n. 92 del 1990, con riferimento alla
vendita di azioni) si ritiene che tale potere vada riferito a qualsivoglia
categoria di diritti derivanti da un rapporto obbligatorio fino a poter
esercitare le azioni volte all'estinzione del vincolo contrattuale
(fattispecie in tema di azione di rilascio di immobile locato) in quanto si
verrebbe a determinare la definitiva modificazione soggettiva di una parte
del contratto. Il principio, con riferimento espresso al diritto
alla riscossione dei canoni, è confermato da Cass. n. 2029 del 1993 e da Cass. n. 4587 del 1995. Nella giurisprudenza
più recente, però, la portata della regola, derogatoria rispetto al generale
principio dell'ininfluenza nei confronti dei terzi del mandato senza
rappresentanza, viene fortemente temperata con la limitazione alle azioni
endocontrattuali dirette al soddisfacimento dei crediti derivanti dalle
pattuizioni negoziali e con l'esclusione delle azioni di risoluzione del
contratto e delle azioni di risarcimento dei danni (Cass. n. 7820 del 1998; Cass. n. 11118 del 1998; Cass. n. 1312 del 2005; Cass. n. 13375 del 2007; Cass., S.U., n. 24772 del 2008). In particolare, nella citata pronuncia delle Sezioni
Unite, si è stabilito, componendo il precedente contrasto, che la regola
derogatoria è di stretta interpreta-zione e deve essere limitata
all'esercizio dei diritti sostanziali acquistati dal mandatario con
esclusione delle azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e
risarcimento del danno, in funzione sia del rispetto del principio sancito
dall'art. 1372 c.c., che della tutela
dell'affidamento del terzo che ha contratto esclusivamente con il mandatario. In una linea interpretativa intermedia si pone Cass. n. 11014 del 2004, nella quale 7.1.1. Con riferimento a tale orientamento deve
rilevarsi che la concezione restrittiva del potere sostitutivo del mandante,
nel mandato senza rappresentanza, in ordine all'esercizio dei diritti di credito
derivanti dal contratto stipulato dal mandatario, per le complessive
caratteristiche evidenziate, non sembra uno strumento agevolmente applicabile
ai rapporti tra partecipanti alla comunione e terzi contraenti nell'ambito
dei poteri di gestione del bene comune. In particolare, può qui rilevarsi che il potere
esercitato dal mandante ex art. 1705 c.c., è di natura sostitutiva,
ancorchè non surrogatoria, mentre il comunista esercita il potere di
coamministrazione che gli deriva dalla titolarità del diritto reale sul bene
comune e, conseguentemente, non si pone in una relazione di netta alterità
rispetto al mandatario che ha agito (anche e non solo) per suo conto; la
limitazione, stabilita nella richiamata sentenza di queste Sezioni Unite, al
solo esercizio dei diritti di credito derivanti dal contratto della
translatio stabilita dall'art. 1705 c.c., in deroga alla regola
generale, risulta fortemente riduttiva rispetto all'incisività, ampiamente
riscontrata negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, degli
interventi dei partecipanti alla comunione alle vicende del contratto
concluso solo da uno di essi; la tutela dell'affidamento del terzo è del
tutto pretermessa dall'applicazione dell'art. 1705 c.c., alla comunione, in quanto è
esclusa la possibilità che il modello assunto possa reciprocamente favorire
il terzo nel rapporto diretto col mandante, essendo prevista dalla norma
codicistica esclusivamente la sua soggezione all'esercizio della facoltà
potestativa del mandante ma non il correlativo potere di rivolgersi
direttamente ad esso per le prestazioni cui sarebbe contrattualmente tenuto
il mandatario (la regola generale contenuta nell'incipit del capoverso dell'art. 1705 c.c., "i terzi non hanno
rapporto con il mandante" impedisce questa estensione della deroga che
segue); qualsiasi interpretazione estensiva dell'indicato regime derogatorio
che possa adattarsi al regime giuridico della comunione è attualmente
impedito dall'intervento regolatore, univocamente restrittivo di cui alla
citata sentenza n. 24772 dei 2008. 7.2. L'orientamento nettamente maggioritario (Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 3275 del 1996; Cass. n. 9113 del 1995; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999; Cass. n. 537 del 2002; Cass. n, 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008; Cass. n. 19929 del 2008; Cass. n. 480 del 2009; Cass. n. 6427 del 2009; Cass. n. 14530 del 2009; Cass. n. 11589 del 2010) presuppone un
reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti sottostante agli atti di
ordinaria amministrazione compiuti dal singolo comproprietario e la
presunzione del consenso fondata sul modello del mandato presunto o tacito.
Il principio risulta espresso nei sensi seguenti: "sugli immobili
oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri
gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che
ognuno di essi operi con il consenso degli altri. Ne consegue che il singolo
condomino può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto
l'immobile in comunione e che un condomino diverso da quello che ha assunto
la veste di locatore è legittimato ad agire per il rilascio del bene stesso
(senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti
degli altri condomini), purchè non risulti l'espressa ed insuperabile volontà
contraria degli altri comproprietari, la quale fa venire meno il presunto
consenso della maggioranza" (così, Cass. n. 9113 del 1995). Ciascuno dei comproprietari può, quindi, richiedere
il rilascio del bene immobile presumendosi anche con riferimento alla vicenda
estintiva del rapporto, il consenso degli altri (Cass. n. 2986 del 1987; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999, Cass. n. 480 del 2009, avente ad oggetto una
fattispecie di stipulazione comune del contratto ma di rilascio promosso da
uno solo dei comproprietari; Cass. n. 6427 del 2009); la legittimazione è
estesa allo sfratto per necessità (fondato sull'esclusiva esigenza di uno dei
comunisti, Cass. n. 537 del 2002); la presunzione del
consenso deve essere superata dall'espressa prova contraria del dissenso (Cass. n. 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008); nell'azione contrattuale promossa da uno dei
comproprietari non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei
confronti degli altri (Cass. n. 19929 del 2008); anche nelle
locazioni ultranovennali (e in particolare negli affitti di fondi rustici) si
applicano gli stessi principi e ciascuno dei comproprietari può agire per il
rilascio dell'immobile (Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 14772 del 2004). Il reciproco potere di rappresentanza posto a
fondamento del potere di ciascuno dei comproprietari di compiere atti di
ordinaria e straordinaria amministrazione (locazione ultranovennale di natura
agraria) trova indifferentemente giustificazione nel mandato presunto o
tacito (Cass. n. 480 del 2009). In quest'ultima
pronuncia, in particolare si afferma che la legittimazione ad agire del
singolo comunista si fonda "sulla presunzione del consenso, insita nel
comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria
amministrazione, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela di
comuni interessi e così venuto ad assumere la figura del tacito mandatario o
utile gestore". La presunzione del consenso può dunque costituire la
base sia del mandato tacito che, invece, dovrebbe fondarsi sulla
manifestazione del consenso per fatti concludenti, sia per la negotiorum
gestio ove tale requisito non è necessario, essendo invece indispensabile che
il gestor agisca in sostituzione di un interessato "che non sia in grado
di provvedervi" (art. 2028 c.c., comma 1). L'intercambiabilità e la concorrenza dei modelli
utilizzati nella giurisprudenza di legittimità si giustifica su
un'interpretazione dell'art. 1105 c.c., comma 1, che depotenzia il
principio dell'amministrazione congiuntiva in funzione dell'interesse, di
indubbio rilievo, di favorire la circolazione del bene comune e l'affidamento
dei terzi contraenti. Attraverso la presunzione del consenso, fondato
sull'inerzia dei non partecipi all'atto (ma, come può agevolmente
riscontrarsi dalla lettura delle pronunce citate, spesso si tratta di non
conoscenza e non di vera e propria inerzia, in quanto tale condizione
presuppone la scelta di non intervenire), si limita, in concreto,
l'applicabilità del principio maggioritario all'esercizio di un potere di
veto, successivo all'atto di gestione del singolo, riducendo l'efficacia
invalidante della mancanza preventiva della maggioranza alla sola ipotesi
della prova del dissenso, conosciuto dal terzo, nella fase preparatoria e genetica
dell'atto (Cass. n. 480 del 2009). Il principio ha trovato applicazione in numerose
pronunce che, pur prendendo le mosse da contratti stipulati da tutti i
comproprietari, hanno avuto ad oggetto l'esercizio di azioni endocontrattuali
o rivolte all'estinzione del rapporto poste in essere da uno solo di essi (Cass. n. 14772 del 2004 e Cass. n. 19929 del 2008, entrambe relative
alla validità della disdetta inviata da uno solo dei comproprietari
locatori). Anche in queste pronunce, la derivazione della legittimazione del
singolo proprietario non viene desunta dalla stipulazione congiunta del
contatto e dall'espressa qualità di parte contrattuale dell'agente, ma
dall'applicazione del generale principio della parità dei poteri gestori tra
comproprietari e dalla presunzione del consenso da parte del non partecipante
all'esercizio dell'azione, senza distinzioni tra atti meramente conservativi
come la disdetta alla scadenza o azioni tendenti ad una modifica del regime
contrattuale (azione di rilascio per necessità, diniego di rinnovo alla prima
scadenza etc.). Al riguardo si devono segnalare Cass. n. 8996 del 2005, relativa alla validità
ed efficacia della disdetta di un comproprietario pro quota in ordine ad un
affitto agrario e Cass. n. 5077 del 2010, che utilizza il
principio dei pari poteri gestori dei comproprietari in funzione
dell'affidamento del terzo. In tale pronuncia viene ritenuta valida ed
efficace la cessione del contratto da parte del conduttore originario ad un
terzo ancorchè tardivamente contestata dai locatori, perchè medio tempore i
canoni corrisposti (per due mensilità) dal cessionario erano stati accettati
da parte di uno dei locatori. Sempre a tutela dell'affidamento dei
conduttori, Cass. n. 2399 del 2008 ha ritenuto che gli
effetti dell'intimazione di sfratto per morosità eseguita da uno dei locatori
potessero essere paralizzati dalla successiva lettera di dissenso dell'altro
comproprietario, peraltro contitolare del contratto, ritenendo sufficiente a
tal fine non la partecipazione in giudizio del comunista dissenziente ma la
produzione da parte del conduttore della lettera costituente la prova
contraria alla presunzione del consenso che sorregge le iniziative negoziali
unilaterali del comproprietario. La tutela dell'affidamento del terzo conduttore è
quindi basata proprio sul tradizionale principio del reciproco rapporto di
rappresentanza tra i comunisti. Questa configurazione dei rapporti interni
alla comunione non ha più soltanto la funzione di estendere gli effetti del
contratto anche ai comunisti che non lo abbiano stipulato, fornendo loro il
potere di esercitare le conseguenti azioni contrattuali, ma risulta idonea a
garantire all'adempimento del terzo contraente piena efficacia liberatoria.
La presunzione del consenso dovrebbe operare in suo favore nell'ipotesi in
cui si trovi esposto ad iniziative od azioni contrattuali da parte di un
comproprietario (non rileva se contitolare del contratto) riferite ad
obbligazioni già adempiute. Allo stesso modo può operare la manifestazione
espressa del dissenso in ordine ad iniziative unilaterali di uno dei
comunisti volte a far cessare gli effetti del contratto o a creare, in altro
modo, un pregiudizio al conduttore. Un'utilizzazione equilibrata del principio della
parità dei poteri dei comproprietari può, per l'orientamento in esame,
operare anche a favore del terzo per la rilevanza dei comportamenti negoziali
adottati reiteratamente nella concreta regolazione degli interessi, in sede
di esecuzione del contratto. Secondo questa linea interpretativa, non è
quindi più necessario ricorrere alla negotiorum gestio con la obbligata
forzatura di equiparare i comproprietari gnari all'interessato
impossibilitato a provvedere ai propri affari, per tutelare l'affidamento del
terzo. L'applicazione del principio, apparentemente
contrapposto, del consenso presunto e reciproco di ciascuno dei
comproprietari, all'atto di amministrazione compiuto dal singolo può
determinare effetti analoghi. All'interno di questa più ampia concezione
della parità dei poteri gestori dei comproprietari, che consente anche al
terzo di confidare sulla legittimazione (derivante dalla presunzione del
consenso) a contrarre del comproprietario locatore, problema aperto è quello
di come debba essere disciplinato l'esercizio diretto dei diritti
contrattuali da parte di un comproprietario diverso dai locatore. Il
principio del consenso presunto potrebbe fornire un criterio di equilibrio
nel rapporto tra gli interessi dei comunisti e l'affidamento del terzo con
riferimento alla manifestazione della volontà di contrarre o di estinguere il
vincolo, ma risulterebbe meno efficace se si tratti di valutare la validità e
l'efficacia della unilaterale imposizione di modalità di adempimento del
contratto diverse da quelle pattuite o usualmente praticate e divenute
negoziali per facta concludentia. Al riguardo 7.2.1. L'orientamento ora esaminato muove da una
premessa che ha prestato e presta il fianco ad una critica sostanzialmente
radicale, che il Collegio condivide. Desta invero perplessità la
prospettazione dei rapporti tra comunisti in termini di mandato disgiuntivo
presunto, da escludersi in un sistema fondato sulla regola organizzativa
opposta dell'amministrazione congiuntiva; così come il ricorso al mandato
tacito risulta inappagante in quanto nell'ipotesi, molto frequente, della
locazione stipulata da uno dei comunisti all'insaputa degli altri, non vi è
alcuna possibilità di identificare il comportamento concludente di questi
ultimi rivolto a consentire la stipula della locazione. In particolare, tale
orientamento muove dal fatto noto, costituito dalla stipulazione del
contratto di locazione da parte di un solo comproprietario, per risalire,
quale conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di
normalità, al fatto ignoto, costituito dalla esistenza di un mandato tacito
conferito dagli altri condomini. Orbene, una simile presunzione non appare
adeguatamente motivata, atteso che la stessa è destinata ad operare in
presenza di una norma che per gli atti di ordinaria amministrazione, tra i
quali rientra la stipulazione di un contratto di locazione infranovennale
della cosa comune, richiede una deliberazione dei partecipanti alla comunione
e quindi una manifestazione espressa di volontà. 7.3. Il terzo dei richiamati orientamenti (espresso
da Cass. n. 5890 del 1982; Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 6292 del 1992, ma che è stato
recentemente riproposto da Cass. n. 483 del 2009) si fonda sui comuni
presupposti della validità della locazione della cosa comune stipulata
soltanto da uno dei compro-prietari (Cass. n. 5890 del 1982 cit.) e sull'esistenza
di un reciproco rapporto di rappresentanza tra i partecipanti alla comunione,
ma si differenzia dall'altro o- rientamento in ordine agli effetti della
contitolarità del diritto di proprietà nei confronti del terzo conduttore. Nella pronuncia più rilevante ed ampiamente
argomentata (Cass. n. 6292 del 1992), si afferma il
principio per cui "la locazione della cosa comune da parte di uno dei
comproprietari sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche
se il locatore abbia violato i limiti dei poteri spettantigli ex art. 1105 e ss. cod. civ., senza che agli
altri partecipanti che gli hanno lasciato la completa disponibilità della
cosa possa competere azione di rilascio o di rivendica nei confronti del
conduttore, il quale di conseguenza resta obbligato alla esecuzione del
contratto ed al pagamento del canone fino alla riconsegna del bene al
comproprietario locatore e non può derogarvi in ragione della successiva
opposizione degli altri comproprietari del bene locato, configurando questa
una molestia di diritto di cui dare comunicazione al locatore ai sensi e per
gli effetti previsti dagli artt. 1585 e 1586 c.c.". Ai comproprietari non locatori spetta
esclusivamente, secondo tale pronuncia, il risarcimento del danno. L'orientamento enunciato è radicale in ordine alla
estraneità degli altri comproprietari rispetto al contratto di locazione.
Nella motivazione viene spiegato che il terzo non è liberato dalle sue
obbligazioni contrattuali (compreso il rilascio del bene alla cessazione
degli effetti del contratto) se le adempie nei confronti degli altri
comproprietari, essendo tenuto, nell'ipotesi di sostituzione dei medesimi
nell'esercizio dei diritti endocontrattuali, a sollecitare l'intervento del
locatore al fine di tenerlo garantito dalle molestie di diritto ai sensi
dell'art. 1585 c.c.. Nella fattispecie decisa dalla
richiamata pronuncia, il conduttore, nonostante l'avvenuto rilascio del bene
su intimazione dei comproprietari non locatori, è stato dichiarato tenuto a
pagare il canone fino al rilascio nelle mani della parte locatrice risultante
dal contratto con la quale si era negozialmente vincolato. Questo orientamento risulta confermato nella recente
pronuncia n. 483 del 2009, secondo la quale "l'affitto di un fondo
rustico per la durata minima di legge (quindici anni, ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 1) stipulato,
ancorchè verbalmente, da parte di uno dei comproprietari che ne abbia la
disponibilità, sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche
se il locatore abbia violato i limiti dei poteri di amministrazione a lui
spettanti a norma degli artt. 1105 e 1108 cod. civ., senza che agli altri
partecipanti possa competere azione di rilascio e tantomeno di revindica nei
confronti del conduttore, salvo il diritto al risarcimento dei danni verso il
condomino locatore, qualora la sua attività risulti pregiudizievole agli
interessi della comunione". Questa sentenza, estendendo l'efficacia della
locazione stipulata da un solo comproprietario anche ai contratti di durata
ultranovennale, incontestatamente rientranti negli atti eccedenti l'ordinaria
amministrazione, in primo luogo, si allontana ulteriormente dal principio
maggioritario stabilito nell'art. 1105 c.c.. In secondo luogo, ribadisce il
principio della presunzione del consenso del comproprietario non partecipante
alla stipula del contratto, con riferimento ad una fattispecie in cui il
terzo conduttore (fratello del comunista non locatore e figlio del
comproprietario locatore) era incontestatamente al corrente della
contitolarità del diritto di proprietà sull'immobile. In terzo luogo, precisa
che la prova contraria, nonostante la equivocità dei fatti noti da cui
desumere il consenso presunto, poteva essere fornita esclusivamente mediante
la dimostrazione da parte del comproprietario non locatore della propria
manifestazione di dissenso prima della stipula del contratto. Essendo mancata questa prova, il contratto di
affitto è pienamente efficace ed opponibile al comproprietario non locatore
che ne aveva invocato la nullità. Peraltro, a sostegno della soluzione
adottata, 7.2.1. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale
(seguito dalla sentenza impugnata), il comproprietario locatore assume
rispetto ai comunisti che non hanno partecipato al momento genetico del
contratto la qualità giuridica del gestore di affari e non del mandatario
(all'interno della duplice, concorrente prospettazione del mandato presunto o
del mandato tacito). Da questa configurazione del rapporto tra comproprietari
deriva, ai sensi dell'art. 2031 c.c., comma 1, che gli altri
comunisti sono tenuti all'adempimento delle obbligazioni conseguenti alla
stipula del contratto, salvo che il gestor abbia agito nonostante il divieto
della maggioranza dei comproprietari o dell'altro titolare della medesima
quota. L'assunzione delle obbligazioni contrattuali (prima tra tutte, nella
locazione, il trasferimento della detenzione della cosa comune) non
determina, però, come nel mandato la contitolarità della posizione di
locatori da parte dei comunisti. Essi non divengono parti del contratto
stipulato dal gestore le violazioni, commesse da quest'ultimo, delle regole
di formazione della volontà all'interno della comunione, non sono opponibili
al terzo che resta vincolato, fino alla cessazione degli effetti del
contratto, al regolamento d'interessi originario. Questa prospettazione ha il vantaggio di tutelare
l'affidamento del terzo nel regolamento d'interessi originariamente
sottoscritto, in quanto solo dalla ratifica si determinano gli effetti propri
del mandato (art. 2032 c.c.). Nella fase della gestione
utile, il terzo che non sia a conoscenza, nel momento genetico del contratto,
del divieto della maggioranza dei comunisti o del veto del comproprietario
titolare di quota di pari valore di quella dello stipulante, non è tenuto a
subire gli effetti delle sopravvenute modifiche della volontà di contrarre
che si verificano tra i comproprietari dell'immobile locato. 8. Tale essendo il quadro delle soluzioni
giurisprudenziali offerte in materia da questa Corte, il Collegio ritiene che
la fattispecie in esame debba essere ricondotta nell'ambito di applicazione
delle disposizioni concernenti la gestione di affari altrui, consentendo tale
disciplina di offrire una soluzione che valga a contemperare gli interessi e
le posizioni dei vari soggetti coinvolti. 8.1. Occorre innanzitutto rilevare che l'esistenza
di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di
ostacolo all'applicazione dell'art. 2028 c.c., atteso che risulta impossibile
negare che il partecipante della comunione che amministra la cosa comune curi
l'interesse non solo proprio ma anche degli altri (Cass. n. 10732 del 1993). Ciò premesso, "elemento caratterizzante la
gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed
utilmente nell'interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o
convenzionale di cooperazione; a tal fine, si richiede innanzitutto
l'absentia domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e
soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un
rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire
nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento
senza opposizione e/o divieto del dominus; tale requisito non è peraltro
sufficiente ai fini della configurabilità della gestione di affari,
occorrendo altresì l'utilità della gestione (cosiddetta utiliter coeptum), la
quale sussiste quando sia stata esplicata un'attività che, producendo un
incremento patrimoniale o risolvendosi in un'evitata diminuzione
patrimoniale, sarebbe stata esercitata dallo stesso interessato quale buon
padre di famiglia, se avesse dovuto provvedere efficacemente da sè alla gestione
dell'affare" (Cass. n. 12280 del 2007; con riferimento al
concetto di absentia domini, Cass. n. 12304 del 2011). La gestione di
affari consiste, dunque, nel compimento di atti giuridici spontaneamente ed
utilmente posti in essere dal gestore nell'altrui interesse in assenza di
ogni rapporto contrattuale in forza del quale il gestore sia tenuto ad
intervenire nella sfera giuridica altrui (Cass. n. 4623 del 2001; Cass. n. 18626 del 2003). Gli elementi della gestione d'affari sono, quindi, l'animus
aliena negotia gerendi; l'utilità della gestione; la impossibilità
dell'interessato di svolgere l'affare o, comunque, la mancanza della
prohibitio domini; l'esistenza dell'interesse altrui. Con riferimento al primo, in una risalente ma ancora
attuale pronuncia di questa Corte, si è affermato che "nella gestione
d'affari l'animus aliena negotia gerendi, cioè il proposito di agire per
conto e vantaggio di altri, non deve necessariamente risultare da
dichiarazione espressa del dominus negotii, ma può risultare anche dalle
circostanze di fatto; quanto poi al requisito dell'utiliter coeptum, e
sufficiente che la gestione sia utilmente intrapresa, e cioè sia stata
spiegata un'attività che lo stesso dominus avrebbe esercitato agendo da buon
padre di famiglia se avesse dovuto provvedere efficacemente da sè alla
gestione dell'affare" (Cass. n. 550 del 1964; in senso conforme, v.
anche Cass. n. 4821 del 1980; Cass. n. 1365 del 1989). Può quindi ritenersi
che sussista l'indicato requisito nel caso in cui chi sia nella disponibilità
di un bene in parte di altri ne disponga concedendolo in locazione, essendo
siffatta iniziativa contrattuale, in assenza di opposizioni da parte degli
altri comproprietari, chiaramente riferibile anche all'interesse di questi ultimi.
D'altra parte, non può non rilevarsi che l'art. 2032 c.c., nel consentire la ratifica
dell'operato del gestore da parte dell'avente diritto, anche se la gestione è
stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare proprio, vale a
ridimensionare seriamente la rilevanza del requisito soggettivo con il quale
il gestore ha proceduto alla gestione. Quanto agli altri due requisiti dell'istituto in
esame, la loro ricorrenza è senz'altro verificabile nel caso del contratto di
locazione, trattandosi di atto di disposizione in genere di ordinaria
amministrazione (ma, si è visto, che in alcune pronunce di questa Corte
l'utilità dell'affare è stata ravvisata anche in ipotesi di contratti
ultranovennali) destinato a far fruttare il bene comune e rispetto al quale
deve ritenersi sussistente anche l'interesse del comproprietario non locatore
che non abbia manifestato opposizione. Nell'ambito della gestione d'affari può inoltre
aggiungersi, riguardo al presupposto della absentia domini, che tale
requisito è stato ritenuto sussistente non solo allorchè l'interessato versi
in una condizione di impedimento, che si traduca in una impossibilità
materiale rispetto alla cura dei propri affari, ma anche qualora
l'interessato stesso non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a
che altri si ingerisca nei propri affari (Cass. n. 3143 del 1984). Non vi è, pertanto, ostacolo formale a ricondurre la
fattispecie della locazione del bene comune da parte di un solo
comproprietario nell'ambito della disciplina della gestione d'affari. 8.2. In più, deve osservarsi che la soluzione
offerta dalle disposizioni in tema di gestione di affari appare poi la più
idonea a contemperare le posizioni di tutti i soggetti coinvolti. Il contratto sottoscritto dal comproprietario
locatore e il conduttore è infatti efficace, rilevando l'opposizione del
comproprietario non locatore solo nel caso in cui venga manifestata e portata
a conoscenza del conduttore prima della stipula del contratto (art. 2031 c.c., comma 2), sicchè, come si è
appena osservato, il conduttore è posto al riparo da sopravvenuti contrasti
che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene
comune. Il comproprietario non locatore, da parte sua, ove
sia a conoscenza della intenzione del gestore di addivenire ad una locazione
del bene comune, può manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che
lo esonererebbe, ai sensi dell'art. 2031, comma 2, dal dovere di adempiere le
obbligazioni che il gestore abbia assunto, anche in nome proprio, e di
rimborsargli le spese sostenute. Il comproprietario non locatore, inoltre, ai
sensi dell'art. 2032 c.c., ed è questo l'aspetto che
maggiormente rileva ai fini della soluzione del caso di specie, ha la facoltà
di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore, e
l'esercizio di tale potere comporta gli effetti che sarebbero derivati da un
mandato, anche se la gestione è stata compiuta da un soggetto che credeva di
gestire un affare proprio. Nella giurisprudenza di questa Corte si è
ripetutamente affermato che "ai sensi degli artt. 2031 e 2032 c.c., la gestione di affari, che non
abbia comportato la spendita del nome del dominus, può produrre, ancorchè
ratificata, effetti nei rapporti fra il dominus ed il gestore, ma non può in
alcun caso valere a far subentrare il primo nel rapporto negoziale che il
secondo abbia instaurato in nome proprio con il terzo" (Cass. n. 3479 del 1978; Cass. n. 11637 del 1991; Cass. n. 12102 del 2003) e che, proprio in
base a tale principio si è precisato che "il contratto che il
comproprietario di un immobile abbia stipulato nell'asserita qualità di
proprietario esclusivo è inidoneo a produrre effetti diretti nei rapporti fra
gli altri comproprietari ed il terzo contraente, in quanto nella gestione di
affari non rappresentativa la ratifica non fa subentrare il dominus in luogo
del gestore nel rapporto costituito da quest'ultimo in nome proprio con i
terzi e i soggetti del rapporto restano quelli originari" (Cass. n. 3479 del 1978 cit.). In questo senso,
si è quindi affermato, con riguardo ad un fabbricato appartenente per
porzioni distinte a due proprietari, che "il comportamento dell'uno,
consistente nel concedere in locazione l'intero immobile e nel provvedere a
riscuoterne il canone, è qualificabile come negotiorum gestio di tipo
rappresentativo, secondo la previsione dell'art. 2028 c.c. e segg., fino a quando il
secondo non manifesti, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si
ingerisca nel proprio affare, con la conseguenza che, ove intervenga tale
divieto, deve riconoscersi a detto secondo proprietario, divenuto anch'egli
locatore e creditore del canone (per la parte di sua spettanza) per effetto
di quella gestione, il diritto di ottenere direttamente dal locatario il
pagamento della quota del canone medesimo, tenendo conto che fra più
creditori di una prestazione divisibile non si presume il vincolo di
solidarietà" (Cass. n. 3143 del 1984). Dalla motivazione di tale pronuncia si evince che,
in quel caso, la gestione rappresentativa era stata desunta implicitamente
dal mero dato oggettivo che il comproprietario locatore avesse concesso in
locazione l'intero bene (nel caso di specie, un'attività alberghiera);
appare, peraltro, evidente come la soluzione della implicita
rappresentatività della gestione non possa essere seguita, comportando essa
ancora il riferimento ad un mandato presunto, in assenza di contemplatio
domini; il che presterebbe il fianco alle critiche già riferite in
precedenza. Tuttavia, è innegabile che, pur in presenza di una
gestione non rappresentativa, che si svolga quindi senza alcuna contemplatio
domini, la ratifica determina, dal suo manifestarsi, gli effetti che
sarebbero derivati da un mandato (art. 2032 c.c.). E tra gli effetti del mandato
vi è proprio quello di cui all'art. 1705 c.c., comma 2, che abilita il
comproprietario non locatore a richiedere, per il tempo successivo alla
ratifica, il pagamento pro quota del canone al conduttore. La ratifica, giova
soggiungere, non necessita di formalità particolari, ben potendo essere
espressa dalla domanda che, come nella specie, il comproprietario non
locatore rivolga al conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario
locatore, di vedersi attribuito il 50% dei canoni per il periodo successivo
alla ratifica. Ovviamente, ove si tratti di gestione non
rappresentativa, il comproprietario non locatore non potrà svolgere altre
azioni derivanti dal contratto, essendo la facoltà del mandatario di
sostituirsi al mandante limitata dall'art. 1705 c.c., comma 2, ai crediti derivanti
dal contratto stipulato dal mandatario. 8.3. In conclusione, la questione sottoposta
all'esame di queste Sezioni Unite deve essere risolta con l'affermazione del
seguente principio di diritto: "La
locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra
nell'ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle
regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 c.c., sicchè, nel caso di gestione
non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare
l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per
effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore,
nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni
corrispondente alla quota di proprietà indivisa". L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione
della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame della controversia alla
luce dell'indicato principio di diritto, ad altra sezione della Corte
d'appello di Genova. 10. La cassazione con rinvio della sentenza
impugnata comporta l'assorbimento delle ulteriori censure svolte dalla
ricorrente, atteso che le stesse involgono questioni relative allo
svolgimento del giudizio di appello e all'omesso esame delle stesse da parte
di quel giudice, che potranno essere prese in considerazione in sede di
rinvio. Al giudice di rinvio è demandata altresì la
regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle
Sezioni Unite Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 giugno 2011. Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2012 |
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