Aggiornamento - Penale


Cass. Pen., sez. VI, sent. 6 giugno 2005, n. 20985, reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale e perquisizione domiciliare illegale

 

 

La sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giangiulio AMBROSINI - Presidente -
Dott. Ilario MARTELLA - Consigliere -
Dott. Antonio Stefano AGRO’ - Consigliere -
Dott. Giorgio COLLA - Consigliere -
Dott. Nello ROSSI - Consigliere -
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso promosso da X. O. contro la sentenza 14 luglio 2004 della Corte d'Appello di Ancona;
Udita la relazione del Consigliere Antonio Stefano Agró;
Udito il P.G. Elisabetta Cesqui che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. X. O., ritenuto responsabile di resistenza a pubblico ufficiale, ricorre contro la sentenza indicata in epigrafe.
2. Afferma che dallo stesso testo della pronunzia è dato ricavare come nella sua condotta difettino gli elementi costitutivi del reato. D'altra parte il tentativo fatto dal Carabiniere di accesso nella sua abitazione non era legittimo, in quanto non v'era alcun sospetto di detenzione di armi. Sussisteva allora la scriminante della reazione ad atto arbitrario del pubblico ufficiale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.
La Corte d'Appello di Ancona ricorda come i carabinieri si presentarono a casa del ricorrente perché il fratello di costui, privo del permesso di soggiorno ed anzi già espulso dall'Italia, aveva affermato di dormire presso il congiunto. Ricorda ancora come lo X. si fosse opposto all'accesso nella sua abitazione senza un mandato di perquisizione e come, ciononostante, i carabinieri non si fossero allontanati, ma avessero iniziato tale perquisizione, alla quale l'imputato oppose resistenza.
2. Ora la stessa Corte d'Appello percepisce giustamente che in questa situazione la violazione dell'appartamento dello X., terzo rispetto all'attività d'ufficio fin allora svolta dagli agenti, si rappresentava obbiettivamente quale atto invasivo dei diritti fondamentali e quindi bisognevole di una accettabile giustificazione per non essere qualificata come arbitraria. E tale giustificazione crede di fornire richiamandosi al tulps, laddove autorizza la perquisizione ad iniziativa della polizia in caso di sospetto di detenzione di armi.
Afferma testualmente che "la condotta tenuta dall'O. nel contesto appariva estremamente minacciosa ed il suo atteggiamento faceva nascere il naturale sospetto che egli detenesse a casa armi e da qui una condotta assolutamente ostruzionistica all'effettuazione di una perquisizione".
3. In tal modo argomentando, la Corte d'Appello (che peraltro non spiega perché l'ostruzionismo del ricorrente, sia pure accompagnato da invettive verso il maresciallo, si dovesse qualificare come "estremamente minaccioso") sembra dunque legittimare l'atteggiamento di chi dubita che le persone possano essere motivate semplicemente da un senso di ribellione avverso l'aggressione ai propri diritti, quando tale aggressione é operata dalle forze dell'ordine, e crede invece che tale ribellione sia strumentale a coprire situazioni di illegalità in cui i soggetti, specie se di diversa nazionalità, comunque verserebbero.
4. Ma una simile massima di esperienza, in quanto alla fine frutto del diniego dell'altrui dignità, non può certo essere accettata, con la conseguenza che un sospetto di detenzione di armi, basato sul fatto che non si é prestata acquiescenza ad una perquisizione altrimenti arbitraria ed anzi ad essa ci si é opposti minacciosamente, non può mai corrispondere al sospetto contemplato dalle leggi di pubblica sicurezza, il quale deve invece trovare un ragionevole fondamento.
5. Ne consegue che non sussistendo i requisiti che legittimavano la perquisizione, il ricorrente, nell'abbandonarsi poi alla violenza, reagì ad un atto arbitrario e che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
Così deciso in Roma il 13 maggio 2005.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 6 GIUGNO 2005