Aggiornamento - Penale

 

 

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Cass. pen., sez. V, sent. 3 novembre 2004, n. 42643 sull'illecito civile e penale in caso di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca e critica
 

1. C. G. e S. M. impugnano per cassazione la sentenza che ne ha confermato la dichiarazione di colpevolezza in ordine al delitto di diffamazione, quanto a G., e al delitto di cui all'art. 57 c.p., quanto a M., commessi ai danni di G. C., di cui avevano pubblicato sul settimanale X del 22 gennaio 1998 alcune fotografie maliziosamente scattate dal basso di una passerella, allo scopo di scoprirne le parti intime appena velate da slip trasparenti, e accompagnate da un commento riferito alla sfortunata partecipazione della presentatrice alle elezioni comunali a Roma, con ironiche allusioni alla trasparenza politica e alle effettive qualità della candidata.
C. G. deduce violazione di legge e vizio di motivazione, protestando la propria estraneità al delitto di diffamazione, sia perché egli si era limitato a vendere le fotografie all'agenzia di stampa, senza contribuire in alcun modo alla scelta delle istantanee da pubblicare, sia perché non aveva alcuna responsabilità per il commento pubblicato a corredo delle immagini, che, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, non erano di per sé offensive.
2. S. M. propone cinque motivi d'impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 595 c.p. e vizi di motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che non era stata lesiva della reputazione di G. C. la pubblicazione delle fotografie, perché le pose ritratte non erano né volgari né volontarie, sicché non potevano avere alcun riferimento alle qualità morali o sociali della presentatrice. E infatti secondo la giurisprudenza di legittimità non è il nudo in sé che può essere considerato lesivo, bensì l'eventuale contesto degradato e volgare in cui ne sia inserita la pubblicazione. Mentre le fotografie di G. C., essendo state scattate nel corso di una sfilata di moda presentata dalla presentatrice, non era né degradato né volgare; e quindi contraddittoriamente la corte del merito ha ritenuto offensive le fotografie sol perché ne lasciavano intravedere le natiche, il pube e la vagina. Nel caso in esame sarebbe configurabile tutt'al più un abuso di immagine.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art. 51 c.p. e mancanza di motivazione della sentenza impugnata, lamentando l'apodittico diniego della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca e di satira. Sostiene che la concomitanza tra l'attività politica e di spettacolo di G. C. rendeva di interesse pubblico il servizio fotografico e che costituiva lecito esercizio del diritto di satira l'accostamento tra le qualità fisiche e le presumibili qualità politiche della candidata, in quanto non espressivo di disprezzo.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione degli art. 13 e 21 legge n. 47 del 1948 e lamenta che apoditticamente i giudici del merito abbiano ritenuto configurabile l'aggravante della attribuzione di un fatto determinato, non potendo essere considerato sufficiente a tal fine il riferimento del settimanale al "vestito da scandalo" indossato dalla presentatrice, posto che dalle stesse fotografie risultava evidente l'assoluto conformismo dell'abito indossato da G. C., corto al ginocchio.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta l'ingiustificato e illegittimo diniego del beneficio della non menzione della condanna, motivato con riferimento a un presunto disprezzo degli imputati per le più elementari regole di deontologia professionale, certamente inidoneo quale indice di gravità del reato e comunque contraddittorio con la valutazione posta a fondamento del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche come prevalenti sulle aggravanti.
Con il quinto motivo infine il ricorrente deduce violazione degli artt. 132 e 133 c.p. e vizio di motivazione della sentenza impugnata, lamentando che gli sia stata irrogata una pena identica a quella irrogata a C. G., dichiarato colpevole di un delitto, quello di diffamazione, ben più grave di quello di cui all'art. 57 c.p. a lui addebitato.
3. Ai fini della decisione sui ricorsi è preliminare stabilire se la pubblicazione delle fotografie della querelante G. C. possa essere considerata di per sé diffamatoria, prescindendo dal commento che le accompagnò.
Secondo quanto prevedono l'art. 10 c.c. e l'art. 97 primo comma della legge 22 aprile 1941 n. 633, sulla protezione del diritto d'autore, è civilmente illecita la pubblicazione dell'immagine altrui senza consenso dell'interessato, quando non sia collegata a fatti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico (Cass. civ., sez. I, 15 marzo 1986, n. 1763, m. 445077) ovvero quando sia comunque "tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione, al decoro della persona medesima" (Cass. civ., sez. I, 5 aprile 1978, C. 1557, m. 390943). L'art. 595 c.p., invece, punisce a titolo di diffamazione l'offesa all'altrui reputazione.
Sicché, mentre per aversi illecito civile è sufficiente che la pubblicazione leda anche solo il decoro della persona ritratta (Cass., sez. I, 15 marzo 1986, n. 1763, m. 445078), per aversi invece l'illecito penale previsto dall'art. 595 c.p. è indispensabile la lesione della reputazione della persona interessata. E per questa ragione nella giurisprudenza di questa Corte si è escluso che la pubblicazione dell'immagine nuda di una persona possa di per sé essere punita a titolo di diffamazione, quando il contesto pornografico della pubblicazione non sia caratterizzato da degrado e volgarità tali da dar luogo ad ambiguità (Cass., sez. V, 19 aprile 2002, Fantauzzi) circa il consenso dell'interessato.
Nel caso in esame non v'è dubbio che le immagini pubblicate siano tali da ledere il decoro di G. C., perché ne espongono le parti intime in posizioni evidentemente idonee a lederne il sentimento della propria dignità personale. Secondo la comune interpretazione, invero, il concetto di decoro viene riferito, in contrapposizione al concetto di onore in senso stretto, a tutte le qualità diverse da quelle morali, come la dignità fisica e intellettuale o professionale di una persona (Cass., sez. V, 30 novembre 1988, Adamo, m. 183931).
Non si può escludere peraltro che la pubblicazione delle fotografie sia idonea di per sé a ledere la reputazione di G. C., benché risulti evidente dall'intero contesto del servizio fotografico che le immagini furono abusivamente carpite durante una pubblica sfilata di moda contro la volontà dell'interessata, che era vestita in modo del tutto consono al contesto ambientale in cui operava come presentatrice di modelli da lei stessa firmati.
È indiscusso infatti che per reputazione deve intendersi l'opinione sociale dell'onore di una persona (Cass., sez. V, 28 febbraio 1995, Labertini, m. 201054). Ma le immagini pubblicate sono di per sé tali da attribuire alla presentatrice un comportamento compiacente e ammiccante. Sicché non pare possa dubitarsi che una lesione all'onore di G. C. derivò anche dalla pubblicazione in sé delle fotografie, benché proditoriamente carpite contro la sua volontà.
Questa conclusione comporta come conseguenza il rigetto del ricorso di G..
4. Per quanto attiene alla posizione di S. M., d'altro canto, va rilevato che la contestuale pubblicazione delle fotografie e dell'allusivo commento che le corredava fu tale da ledere ulteriormente la reputazione della querelante.
Se è vero infatti che la pubblicazione delle fotografie controverse era di per sé lesiva della reputazione di G. C., altrettanto vero è che qualsiasi immagine può comunque contribuire ad attribuire significato lesivo a un testo (Cass., sez. V, 12 dicembre 1991, Benincasa, m. 189102). E non v'è dubbio che nel caso in esame le indecorose fotografie di G. C. furono utilizzate, più o meno esplicitamente, per sostenere che le sole effettive qualità della presentatrice erano quelle visibili al di sotto delle sue gonne, sicché male aveva fatto la candidata a non farne mostra durante la campagna elettorale.
Il ricorrente sostiene che questo assunto, quand'anche lesivo della reputazione di G. C., costituisca comunque esercizio del diritto di cronaca e di satira. Ma sarebbe un ben strano concetto di democrazia quello che autorizzasse a considerare esercizio del diritto di cronaca sbirciare furtivamente tra le gambe delle donne in politica; mentre è certamente espressione di un maschilismo becero e ormai fuori tempo quello che pretende di determinare esclusivamente in termini sessuali il valore di una donna.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, "il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l'altro, nella narrazione di fatti, bensì nell'espressione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti" (Cass., sez. V, 16 aprile 1993, Barile, m. 194300). Per questa ragione, quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non pone un problema di veridicità di proposizioni assertive e i limiti scriminanti del diritto garantito dall'art. 21 Cost. sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione (Cass., sez. V, 24 novembre 1993, Paesini, m. 196459). Sicché "il limite all'esercizio di tale diritto deve intendersi superato, quando l'agente trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato, giacché, in tal caso, l'esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell'ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell'aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta" (Cass., sez. V, 20 gennaio 1984, Saviane, m. 163712).
Com'è stato già chiarito, ciò che determina l'abuso del diritto di critica, quindi, "è la gratuità delle espressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione; è l'uso dell'“argumentum ad hominem”, inteso a screditare l'avversario politico mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni" (Cass., sez. V, 19 maggio 1998, Diaconale, m. 211482). Né l'offesa personale può risultare legittimata da una forma espressiva che pretenda di suscitare ilarità. La satira può avere certo intenti polemici, ma deve essere comunque intesa a sferzare i vizi le abitudini e le concezioni delle persone, in quanto manifestazioni di ricorrenti debolezze umane, ovvero a disvelare l'incongruenza o il ridicolo dei valori costituiti nella cultura ufficiale. Sicché non può essere considerato satirico un gratuito insulto sol perché espresso in una parafrasi o in una similitudine più o meno fantasiose. Se è vero che la deformazione grottesca della realtà è propria della satira, è anche vero che il discorso satirico è necessariamente ambiguo, collocato a metà strada tra descrizione e manipolazione dei fatti. Non può essere considerato esercizio di satira un banale insulto fondato su luoghi comuni e privo di qualsiasi aggancio con la reale condotta della persona criticata.
Il secondo motivo del ricorso di S. M. è pertanto infondato.
5. Inammissibili sono invece i restanti tre motivi del ricorso di S. M..
Il terzo motivo è inammissibile per carenza di interesse (art. 568 coma 4 c.p.p.), perché, come si desume dallo stesso ricorso, i giudici del merito hanno riconosciuto la prevalenza sulle aggravanti delle circostanze attenuanti generiche; sicché non avrebbe alcuna incidenza sulla pena l'esclusione dell'aggravante del fatto determinato, di cui il ricorrente denuncia l'insussistenza.
Il quarto e il quinto motivo del ricorso sono inammissibili per violazione dell'art. 606 comma 1 c.p.p., perché propongono censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento alla plausibile valutazione di gravità del reato, desunta dal ritenuto atteggiamento di disprezzo per la deontologia professionale del giornalista, e all'ovvia considerazione per la natura solo pecuniaria della pena irrogata.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.
Roma 12 ottobre 2004.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 3 NOVEMBRE 2004

 

 

 
 

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