Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, Sentenza 28 gennaio - 10 febbraio
2000, n. 518, sul’abrogazione del reato di oltraggio (per approfondimenti
vedi Ugo Di Benedetto, Diritto Penale, ed Maggioli, 1998, pag. 64 e ss.
)
SENTENZA
sul ricorso promosso da Fausto Marini contro l'ordinanza 2 agosto 1999
del
giudice dell'esecuzione del Tribunale di Trani.
Udita la relazione del Consigliere Antonio Stefano Agrò
Letta la requisitoria del P.G. con cui si chiede l'annullamento senza
rinvio
dell'ordinanza e la revoca della sentenza 6 novembre 1997 dei Pretore
di Trani.
Ritenuto in fatto e in diritto
1. Fausto Marini ricorre contro l'ordinanza in epigrafe con cui 11 giudice
dell'esecuzione ha respinto l'istanza di revoca della sentenza 6 novembre
1997
del Pretora di Trani, sentenza con 1a quale era stato condannato per
il delitto
di cui all'art. 341 c.p.
2. Il giudice dell'esecuzione ha motivato il provvedimento in base,
essenzialmente a due argomenti:
esiste un rapporto di specialità reciproca tra l'art. 341 e
l'art. 594 del codice
penale "sicché ove l'oltraggio si concreti nella lesione dell'onore
della parte
offesa e non solo del suo prestigio di pubblico ufficiale, il fatto
storico
giudicato, originariamente rubricato sub specie art. 341 c.p., contiene
tutti gli
elementi della fattispecie generale di cui all'art. 594 c.p.";
qualora una norma speciale venga abrogata ed il caso storico è
astrattamente
riconducibile nella norma generale più favorevole già
esistente (e persistente),
si ha un caso di successione di leggi nel tempo cui è applicabile
l'art. 2 comma
terzo del codice penale e perciò, ove sia stata pronunciata
sentenza passata in
giudicato questa non è suscettibile di revoca.
3. Ritiene la Corte di muovere dal secondo assunto e rilevare, che secondo
questa
interpretazione, l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 2 del codice
penale
ricorrerebbe senz'altro quando leggi, coeve a quella abrogata e tuttora
in
vigore, identifichino come reato (sanzionandola in modo meno grave)
una delle
condotte che integrava la violazione della norma caducata. Tale applicabilità
deriverebbe dal fatto che (oltre che ai casi futuri) anche alla condotta
consumatasi nel vigore della legge abrogata, ma non ancora definitivamente
giudicata, si devono applicare a seguito dell'abrogazione le menzionate
leggi
coeve, con la conseguenza che i giudicati già formatisi, su
comportamenti dello
stesso genere sono irrevocabili.
4. A tale conclusione si oppongono però e in primo luogo delle
difficoltà di
ordine letterale.
Il terzo comma in esame parla infatti di "leggi posteriori (e non coeve)
che
siano diverse da quelle del tempo in cui fu commesso il reato (e non
le
medesime). Tanto che, stando ad un esame puramente esegetico, si dovrebbe
concludere che se una legge posteriore al fatto dispone l'abrogazione
della norma
incriminatrice specificamente applicabile alla condotta, in nessun
modo si ha,
per quel caso, l'espasione dalle leggi coeve, che pure sarebbero state
applicabili ove la legge abrogata non fosse esistita, ed anzi nessuno
può essere
più punito per il fatto posto in essere in quel tempo e se vi
è già stata
condanna ne cessane l'esecuzione s gli effetti penali (secondo comma
dell'art.
2).
5. Ma ad ammettere invece (e aldilà del dato letterale) l'applicabilità
per il
fatto pregresso delle leggi coeve a quella abrogata, applicabilità
che
deriverebbe solo da quella teorica riconducibilità del fatto
alla legge già
esistente, si dovrebbe anche ammettere che il terzo comma dell'art.
2 (ove tale
risultato fosse fatto derivare dal suo disposto) si pone in contrasto
con i
principi generali o suscita dubbi di legittimità costituzionale.
Dovrebbe in primo luogo, rilevarsi che una legge, inapplicabile al
fatto
all'epoca del suo venire in essere, e applicabile successivamente al
fatto
stesso, con evidente compromissione del principio di irretroattività,
almeno
nella formulazione datane dall'art. 25 della Costituzione.
La riespansione delle leggi coeve avverrebbe, comunque, in contrasto
con
l'essenza del fenomeno abrogativo, desumibile dai principi generali
della
dinamica delle fonti. Infatti l'abrogazione consiste in nuova valutazione
del
legislatore della fattispecie e quindi in una nuova disciplina del
caso, ritenuta
oggi più opportuna. L'abrogazione dunque di per sé (e
salvo un'espressa
previsione contraria) opera ex nunc, circoscrivendo nel tempo la vigenza
della
norma abrogata e in ogni modo non ne disconosce il valido operare per
il tempo in
cui era applicabile. Talché, restando ancora valida e vigente
(sebbene abrogata)
la norma precedente per il tempo anteriore all'abrogazione, l'effetto
naturale è
che le norme sopravvissute, per così dire "compresse" dalla
legge non più
operante, restano tali per quel medesimo tempo ed è perciò
fuori del sistema
considerarne ampliato - oggi per allora - il raggio di azione, quale
effetto di
questa forma di caducazione. Del resto non va trascurato che la Corte
Costituzionale, anche nella sentenza n. 148 del 1983, che in materia
è quella più
possibilista, ha escluso che la stessa dichiarazione di illegittimità
costituzionale (che pure ha un effetto invalidante ed opera quindi
ex tunc) in
materia penale possa produrre fenomeni espansivi per i fatti
pregressi.
Deve poi aggiungersi che la norma penale coeva risulterebbe applicata,
in sede di
cognizione, senza che per essa sia stata esercitata l'azione penale
e qui si
verrebbe ad urtare con l'art. 112 della Costituzione, prima ancora
che col
sistema processuale nel suo complesso. Non bisogna confondere, al riguardo,
il
potere di qualificazione giuridica del fatto affidato al giudice da
quello di
identificazione della condotta in una fattispecie criminosa ulteriore
e diversa
da quella in cui era state originariamente (ed esattamente) collocata.
Cosa,
quest'ultima, che avverrebbe anche in sede esecutiva sia, indirettamente,
ai fini
dell'affermazione della persistenza del giudicato, sia direttamente
nei casi in
cui la pena inflitta in forza della legge abrogata risulta illegale
rispetto al
trattamento sanzionatorio più favorevole (cfr. Corte Cost. n.
96 del 1996).
6. Sotto l'aspetto positivo, per poter affermare che ricorra l'ipotesi
del terzo
comma dell'art. 2, occorre allora che sia la stessa legge abrogante
a porre una
continuità nella tutela dei valori già perseguiti dalla
legge abrogata. E, se ciò
accade, in realtà non ci si trova dinanzi ad una vera e propria
abrogazione della
norma penale, ma in una modificazione della stessa che non la rende
irriconoscibile. E' insomma la stessa norma penale (sebbene espressa
da
disposizioni diverse) che continua ad essere in vigore per il caso
progresso non
giudicato, sebbene il trattamento da infliggersi sia più favorevole
per il reo. E
nello stesso senso è sempre la vigenza attuale nel sistema della
stessa norma
penale quella cha fa valere il giudice dell'esecuzione quando stabilisce
l'intangibilità del giudicato.
E' singolare, sotto questo profilo, che il giudice dell'esecuzione
di Trani non
si avveda di richiamare sentenze di questa Corte che si informano proprio
al
principio della continuità del tipo di illecito. Infatti la
sentenza 11 ottobre
dal 1991, relativa all'abrogazione dell'art. 324 c.p., demandava al
giudice
dell'esecuzione di stabilire quanta parte di questa norma fosse sopravvissuta
nell'introdotto art. 323 del medesimo codice, impedendogli di pronunziare
la
revoca della sentenza, per quelle fattispecie che a seguito della riforma
erano
rette dalla precedente norma, parzialmente riprodotta nella nuova disposizione.
Analogamente, sebbene in una prospettiva opposta, le sentenze 18 marzo
e 18
giugno 1987, aldilà della terminologia adottata, negavano un'applicazione
espansiva del reato di lesioni gravissime a seguito dell'abrogazione
del reato di
procurata impotenza alla procreazione, così mostrando che l'abrogazione
non rende
operative di per sé il disposto dell'art. 2 comma terzo del
codice penale.
7. Posto dunque che in forza dell'abrogazione non si producono per fatti
pregressi fenomeni automatici di espansione di norme incriminatrici,
qualunque
rapporto vi fosse tra il disposto abrogato e quello o quelli sopravvissuti,
l'indagine che si deve compiere in questi casi riguarda la legge abrogante
per
stabilire se in esse si affermi o meno una continuità di illecito,
anche,
eventualmente, attraverso la valorizzazione ed il mantenimento della
rilevanza
penale di quei comportamenti già astrattamente sussumibili in
altre fattispecie
criminose.
Nella specie occorre riferirsi alle legge 25 giugno 1999, n. 205, per
stabilire
se essa nell'abrogare espressamente all'art. 18 l'art. 341 c.p., crei
altresì una
continuità della norma abrogata con la perdurante vigenza degli
artt. 594 e 612
c.p. laddove eventualmente (anche se sovente) la prima reprimeva anche
l'ingiuria
o le minacce in danno del cittadino pubblico ufficiale.
Ed a questo proposito non può non ricordarsi che, già
con una sentenza
pronunziata il giorno stesso dell'entrata in vigore della legge n.
205 (VI
13.7.99 Adamoli), la Corte negava che fosse applicabile, ai procedimenti
che
recavano un'imputazione di oltraggio, la norma transitoria di cui all'art.
19
(quella che rimette in termini per sporgere querela) nel caso in cui
il fatto
poteva astrattamente inquadrarsi nei reati di ingiuria o di minacce,
osservando
come la norma transitoria è espressamente riferita "solo ai
reati perseguibili a
querela ai sensi dalle disposizioni della presente legge o dei decreti
legislativi da essa previsti" e come perciò riguardi solo i
delitti di furto ed
ulteriori eventuali reati che i decreti legislativi renderanno punibili
a
querela.
Solo per queste ipotesi criminose, dunque, si è posto un problema
di continuità
punitiva, laddove, per i reati "coperti" dall'oltraggio, l'eterogeneità
dei beni
protetti (prestigio della pubblica amministrazione e situazioni individuali)
e
l'abbandono della tutela del primo hanno evidentemente sconsigliato
di far
sopravvivere la vicenda penale in termini personalistici.
Conclusione, del reato, in linea con la considerazione sociale del
delitto in
esame, caratterizzata da una lunga disputa intorno alla sua legittimità
costituzionale, che ha visto sempre le prevalenza del valore della
tutela dalla
pubblica amministrazione su quella accordata alla persona fisica titolare
della
carica, prevalenza che anzi è stata sempre assunta quale elemento
giustificativo
dello stesso esistere dell'art. 341.
Tanto che lo Corte Costituzionale (sent. n. 51 del 1980) osservava
che "se il
pubblico ufficiale, privato del potere di querela, si trova in una
situazione di
disparità rispetto a quella dei comuni cittadini, tale disparità
è giustificata
dalla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica".
Sul
versante opposto la condotta dell'oltraggio supponeva che l'offesa
fosse comunque
recata a causa o nell'esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale,
sicché
anche per l'agente doveva evidenziarsi la volontà di ledere
il prestigio
dell'amministrazione, ancor prima dl quello del suo rappresentante.
8. Queste notazioni danno altresì conto (quale corollario) dell'irrilevanza
di
eventuali querele che il pubblico ufficiale abbia proposto ante litteram.
L'abrogazione dell'art. 341 c.p. del codice penale non solo impone
di revocare i
giudicati che in base ad esso si siano formati, ma comporta anche la
non
perseguibilità di quei fatti che, punibili all'epoca della loro
commissione come
oltraggio, potessero (teoricamente) inquadrarsi nelle fattispecie di
ingiurie o
di minacce.
9. Non resta perciò che annullare senza rinvio l'ordinanza impugnata
per abolitio
criminis e revocare la sentenza 6 novembre 1997 dal Pretore di Trani
pronunziata
nei confronti di Fausto Marini.
P.Q.M.
La Corte dl Cassazione
Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata a revoca la sentenza 6 novembre
1997
del Pretore di Trani nei confronti di Marini Fausto.
Così deciso in Roma il 28 gennaio 2000
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