Dottrina

La responsabilita’ dell’ente ospedaliero e del medico nella giurisprudenza civile e contabile di Mauro Massimo Donno

 

di Mauro Donno – funzionario presso la Corte dei conti – Sezione Giurisdizionale per la Lombardia -  e Antonio Pascucci, avvocato in Milano.

 

 

PREMESSA

Per la corretta comprensione delle problematiche inerenti alla responsabilità professionale del medico si rende necessario analizzare i molteplici aspetti del rapporto medico - ospedale - paziente, sia che ci si trovi in ambito di sanità pubblica che di sanità privata.

Si tratta di rapporto estremamente complesso, in cui si sovrappongono aspetti privatistici e pubblicistici, laddove, come spesso avviene, il medico operi in un strutture pubbliche, e sia quindi pubblico dipendente o collaboratore di Ente ospedaliero avente natura pubblica.

In particolare, nell’ambito della sanità pubblica, il personale medico è soggetto ad una sorta di “doppia giurisdizione”: esposto cioè da una parte alle richieste risarcitorie dei privati che ritengano lesa la propria integrità fisica innanzi al giudice ordinario; dall’altra assoggettabile al giudizio di responsabilità amministrativa ad iniziativa della Corte dei conti – giudice deputato a conoscere dei danni commessi all’erario da parte dei pubblici dipendenti – qualora il danno al paziente sia stato risarcito dalla struttura ospedaliera pubblica.

Questa “doppia giurisdizione” non significa, ovviamente, che possa avvenire alcuna duplicazione risarcitoria ai danni del personale medico stesso, ma pone comunque diversi problemi di coordinamento tra forme di responsabilità (quella civile e quella contabile) tra loro profondamente diverse, per disciplina normativa e finalità.

Su altro fronte va invece considerato se ed entro quali limiti possa invocarsi in sede civile anche la responsabilità della struttura ospedaliera, sia essa pubblica o privata, e, in caso affermativo, se in via disgiunta o in concorrenza con la responsabilità del personale medico.

A tale scopo sembra opportuno ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza civile e contabile sull’argomento e delineare quale sia il punto di arrivo della stessa nelle più recenti pronunce in materia.

 

1. LA GIURISPRUDENZA CIVILE

 

1.1 Il rapporto paziente - Ente ospedaliero.

E’ ormai pacifico nella giurisprudenza civile che l’accettazione del paziente in ospedale comporta la conclusione di un contratto tra il paziente stesso e l’Ente ospedaliero (si veda da ultimo Cass. 23918/2006, Cass. 10297/2004 e Cass. 11316/2003). In particolare, alla fine degli anni ‘70, la giurisprudenza individuava in tali casi un contratto d’opera professionale poiché l’Ente ospedaliero  “…assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l’obbligazione di svolgere l’attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura” (Cass. Civ. Sez. III, 24 marzo 1979 n. 1716)[1].

La giurisprudenza successiva (vedasi per tutte Cass. Civ. sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144)[2] precisava inoltre che l’esistenza di un contratto d’opera professionale tra paziente ed Ente ospedaliero sussiste in ragione della similarità con la prestazione resa al prestatore d’opera professionale, nella cui disciplina ricade per analogia[3].

In più recenti sentenze si è parlato invece di un contratto atipico di “spedalità” o di “prestazione di assistenza sanitaria”. Secondo tale ricostruzione il rapporto che si instaura tra paziente ed Ente ospedaliero ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo sorgono a carico dell’ente (pubblico o privato), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. La responsabilità dell’Ente nei confronti del paziente ha perciò natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato. In tali casi  sussiste un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. Civ. 14 luglio 2004, n. 13066, Cass. Civ Sez. III 9/11/2006 n. 23918)[4].  Per tali motivi,  allorché il danno o la lesione vengano cagionati all’interno della struttura sanitaria, più che di responsabilità medica deve parlarsi di responsabilità sanitaria, per il coinvolgimento di soggetti anche diversi dai medici. Sussiste la responsabilità della struttura sanitaria anche se l’inadempimento è stato cagionato dal comportamento del medico operante nella struttura, senza alcuna imputazione a carico della stessa, in quanto il medico deve essere considerato quale ausiliario necessario, sia in presenza che in assenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Sulla scorta di tale ricostruzione, ormai consolidata in giurisprudenza, vi è chi ha sostenuto che, poiché oggetto della obbligazione dell’Ente ospedaliero non è solo la prestazione del medico, ma una prestazione complessa definita di “assistenza sanitaria”, fondata sul contratto atipico individuato in base allo schema della “locatio operis”, la responsabilità per tale tipo di obbligazioni “latu sensu” alberghiere sia in realtà una obbligazione di risultato[5].

 

1.2 Il rapporto medico – Ente ospedaliero.

Relativamente al rapporto tra medico ed Ente ospedaliero, vi è stato chi ha ricondotto in ogni caso il fatto del medico alla struttura ospedaliera, configurandolo, nell’ambito della responsabilità contrattuale, come fatto dell’ausiliario ex art. 1228 c.c., o in quella extra-contrattuale, come responsabilità dei padroni e dei committenti, ex art. 2049. Nel caso di Ente ospedaliero pubblico, la giurisprudenza in passato (ancora Cass. Civ. sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144) si è rifatta al principio di “immedesimazione organica”, per cui tutti gli atti compiuti da un dipendente pubblico, nell’ambito delle attribuzioni allo stesso affidate in esecuzione del rapporto di lavoro, sono riferibili all’Ente stesso, poiché l’attività dell’Ente non può che svolgersi necessariamente attraverso persone fisiche che diventano perciò “organi” della persona giuridica pubblica e ne manifestano concretamente la volontà. Alla base di tale principio vi è l’art. 28 Cost. 2° comma, il quale estende allo Stato e agli Enti Pubblici la responsabilità civile per gli atti dei funzionari e dei dipendenti dello Stato compiuti in violazione dei diritti. Tuttavia la più recente giurisprudenza della Cassazione (Cass. Civ. 14 luglio 2004, n. 13066; Cass. Civ. Sez. III del 9 novembre 2006, n. 23918) ha ritenuto sufficiente, per la riferibilità all’Ente ospedaliero delle attività del medico dipendente o collaboratore, l’applicazione dell’art. 1228 c.c., configurando perciò il fatto del medico come fatto dell’ausiliario. Nel caso in cui il contratto si sia concluso direttamente con il professionista e sia stato quest’ultimo a  contattare l’Ente ospedaliero, per l’affitto delle attrezzature o la locazione delle stanze, quest’ultima  sarà responsabile solamente delle prestazioni accessorie concordate  col paziente (es: assistenza infermieristica, sala operatoria, medicazioni , ecc). In tale circostanza si è ritenuto che la struttura sanitaria rivesta un ruolo di mero ausilio strutturale e potrà essere considerata responsabile ex art. 2050 c.c. solo se i mezzi usati dal medico sono pericolosi o ex art. 2051 c.c., quale custode delle strutture o della apparecchiature nel caso in cui il danno sia ascrivibile al mancato o difettoso uso delle stesse[6].

Sia l’Ente ospedaliero che il medico, quando il danno si sia verificato per l’azione od omissione di entrambi, sono chiamati a rispondere in solido nei confronti del danneggiato. Infatti, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se l’evento dannoso è procurato da più persone, per affermare la responsabilità di tutti i soggetti nell’obbligo del risarcimento è sufficiente che le azioni o omissioni di ciascuna abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno.

Tale assunto discende non tanto dalla considerazione che l’art. 2055 c.c. (il quale stabilisce, in materia di responsabilità extracontrattuale, che se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno) costituisca un principio generale applicabile anche in caso di responsabilità contrattuale, ma dagli stessi principi generali in materia causalità e di concorso di cause, di cui l’art. 2055 c.c. non è che una esplicitazione (in tal senso si veda da ultimo Cass. Civ. 21/12/2006 n. 23918; Cass. 15/06/1999 n. 5946; Cass. 10/12/1996 n. 10987).

 

1.3 Il rapporto medico – paziente.

Diverse soluzioni sono state invece formulate per qualificare giuridicamente il rapporto intercorrente tra medico e paziente. Per il medico dipendente pubblico la responsabilità diretta é confermata dal 1° comma del citato art. 28 Cost., secondo cui i funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Sotto il profilo della natura di tale responsabilità, sia per i dipendenti pubblici che per dipendenti di strutture private, essa è stata in  passato inquadrata come responsabilità  extracontrattuale.

Così infatti ha sostenuto la sentenza Cass. Civ. 1716/1979, la quale, rilevata la sussistenza di un contratto d’opera professionale tra il paziente e l’Ente ospedaliero, ha ritenuto che a tale rapporto contrattuale non partecipasse il medico dipendente,  ma che  la responsabilità del sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico fosse soltanto extracontrattuale.

Tuttavia, a partire dalla sentenza della Cassazione Civile sezione III del 1 marzo 1988 n. 2144, la giurisprudenza ha cominciato a ricondurre il rapporto medico - paziente ricoverato in una struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale, ed in particolare della responsabilità per prestazione d’opera professionale. Non rileva a tale scopo la natura pubblica della struttura presso cui il medico effettua il proprio servizio: in caso di servizi pubblici vi è rapporto paritario tra Stato che li gestisce e cittadino che usufruisce degli stessi. Appunto perché si costituisce così un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo del privato a ricevere una prestazione e da un correlato dovere di prestazione, la responsabilità dell’Ente pubblico non può qualificarsi extracontrattuale, ma contrattuale. Tale responsabilità è di pari natura anche in capo al medico dipendente pubblico, che, ai sensi dell’art. 28 1° comma della Costituzione, risponde secondo le norme civilistiche dei danni prodotti direttamente nei confronti del paziente che abbia patito una lesione in conseguenza della prestazione medica da lui eseguita. Ad avviso di tale orientamento, in tali casi non possono infatti applicarsi al medico gli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3,  i quali limitano la responsabilità degli impiegati pubblici per i danni cagionati ai terzi ai soli casi di condotta dolosa o gravemente colposa, proprio perché il paziente non può qualificarsi terzo rispetto al sanitario che gli presta assistenza, avendo il rapporto natura contrattuale. Nel giudizio civile perciò la limitazione della responsabilità del  medico ai soli casi di dolo o colpa grave rimane subordinata all’accertamento del fatto che la prestazione professionale abbia comportato la soluzione di problemi di speciale difficoltà, come richiesto dall’art. 2236 c.c.; in caso contrario il professionista resta responsabile secondo le comuni regole della responsabilità contrattuale.

Al di là della natura pubblica o privata dell’Ente, altra giurisprudenza, per qualificare giuridicamente il rapporto tra medico e paziente, ha parlato di obbligazione di una prestazione comunque di natura professionale, fondata su di un’obbligazione che nasce in virtù  del “contatto sociale” tra medico e paziente (Cass. Civ. 28 maggio 2004 n. 10297 [7]; Cass. Civ. 22 gennaio 1999 n. 589).

Ad avviso di quest’ultima pronuncia "….l’art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di inserire tra le fonti princípi, soprattutto di rango costituzionale (tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, può annoverarsi il diritto alla salute), che trascendono singole proposizioni legislative”.

Per i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto sociale",  bisogna far riferimento, al "rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale".

Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto idoneo a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c. -) sia in ragione del rapporto che ne scaturisce.

Per la Cass. n. 589/99  “..si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso”.

In ogni caso, pur ricondotta la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità contrattuale, resta comunque intatta la possibilità che il danneggiato possa agire in giudizio anche a titolo di responsabilità extracontrattuale, in quanto la lesione del bene della salute, essendo bene da tutelarsi “erga omnes”, può aversi anche a prescindere dalla presenza di un precedente rapporto contrattuale[8].

 

 

1.4 La prestazione professionale nella giurisprudenza civile.

Diverse sono le conseguenze che seguono all’inquadramento della responsabilità del medico nei confronti del paziente nell’ambito della responsabilità contrattuale anziché extracontrattuale: innanzitutto una prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) anziché quinquennale (art. 2947 c.c.). Sono inoltre applicabili i principi propri di questo tipo di responsabilità in ordine alla ripartizione dell’onere della prova e alla diligenza richiesta nell’esecuzione della prestazione. La diligenza nell’adempimento deve valutarsi, ai sensi dell’art. 1176 c.c., con riguardo alla natura dell’attività esercitata. Come già accennato, nel caso in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi di particolare difficoltà, ai sensi dell’art. 2236 c.c., il prestatore è tenuto a rispondere dei danni solo in caso di dolo o colpa grave.

La Cass. Civ. sez. III 28 maggio 2004 n. 10297[9], riprendendo un orientamento costante in giurisprudenza, ha precisato che la prestazione del professionista consiste in un’obbligazione di mezzi ed il mancato raggiungimento del risultato non costituisce di per sé inadempimento (diversamente invece è stato ritenuto da alcuni a proposito dell’obbligazione assunta dall’Ente nei confronti del paziente, che costituirebbe obbligazione di risultato).

L’inadempimento (o inesatto adempimento) consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta. In tema di onere della prova, nel caso di intervento di non difficile esecuzione, la giurisprudenza ha più volte sostenuto che il paziente deve dimostrare l’esistenza del contratto e l’aggravamento o l’insorgenza della malattia per effetto dell’intervento. In tal modo si costituisce una presunzione semplice dell’inadeguatezza della prestazione fornita, spettando al professionista dimostrare che la prestazione sia stata eseguita in maniera diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (vedasi SS. UU. 30.10.2001, n. 13533; Cass. Civ. n. 10297/2003; Cass. Civ. sez. III n. 23918/2006). Ciò risponde ai principi generali secondo cui, in materia di obbligazioni, colui che agisce per la risoluzione contrattuale, il risarcimento o l’inadempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costitutivo dell’avvenuto adempimento. Allo stesso modo, la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.

Porre a carico del medico l’onere di tale prova risulta coerente con la linea evolutiva della giurisprudenza. Infatti in tale sede assume sempre più rilevanza il principio di “vicinanza” della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Tale principio vale tanto più nelle c.d. obbligazioni di mezzi, in cui il mancato o inesatto risultato non dà luogo ad inadempimento, ma oggetto dell’obbligazione è l’attività, e l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione; cosicché non vi è dubbio che la prova sia “vicina” a chi ha eseguito la prestazione, trattandosi di inosservanza di regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.

 

1.5 La valutazione del grado della colpa del professionista nella giurisprudenza civile.

 

La responsabilità del professionista, come anzidetto, varia a seconda che la prestazione da eseguirsi sia da considerarsi di speciale difficoltà o meno, in quanto ai sensi dell’art. 2236 c.c, solo nel caso in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il professionista risponde per colpa grave, altrimenti operando le norme generali in materia di responsabilità contrattuale. Fondamentale diviene allora individuare quando, per la giurisprudenza,  siamo in presenza di una prestazione che comporti la soluzione di problemi tecnici di “particolare difficoltà”. La già citata Cass. 10297/2004 ha ribadito, a proposito della prestazione di particolare difficoltà in ambito medico, che tale difficoltà ricorre laddove “..il caso non sia stato in precedenza  adeguatamente studiato o sperimentato o quando nella scienza medica siano stati discussi sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi e incompatibili tra loro”. In altri passaggi della sentenza si legge che “l’intervento[…..]che limita la responsabilità del medico al dolo o alla colpa grave a norma dell’art. 2236 c.c. è quello che richiede notevole abilità, implica la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischi”. Invece, ad avviso dello stesso organo giudicante, “l’alto tasso di esiti negativi di un certo intervento non costituisce circostanza di significato univoco circa  la sussistenza della particolare difficoltà nello svolgimento della prestazione medica, poiché potrebbe riguardare la patologia sulla quale si interviene piuttosto che le modalità di intervento, rispetto alle quali si misura la diligenza richiesta.”

Ad avviso di Cass. Civ. 13 gennaio 2005 n. 583[10] “..il medico-chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto a una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall’art. 1176, c. 1, ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176, c.2, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica. La diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia, da intendersi come conoscenza e attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione”.

Ad avviso della sentenza la limitazione di responsabilità professionale del medico chirurgo a soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. In altri termini, spiega la sentenza, “ la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media, ovvero perché la particolare complessità discende a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare”. Per tali motivi, “il prestatore d’opera che versa in colpa per un’errata scelta tecnica, che all’origine riponeva come di semplice soluzione, non può poi più avvalersi della delimitazione della propria responsabilità per solo dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., per gli eventuali problemi tecnico-professionali di speciale difficoltà, in cui sia incorso nel prosieguo dell’espletamento della tecnica operativa errata”.

In materia di onere della prova, a conferma dell’orientamento sopra enunciato, il Collegio giudicante sopra citato ha ritenuto che “[…]incombe al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all’art. 2236 c.c., provare che la prestazione implicava la soluzione dei problemi tecnici di speciale difficoltà” . Tuttavia, in parziale disaccordo con l’orientamento esposto in Cass. Civ. n. 10297/2003 e Cass. Civ. sez. III n. 23918/2006, per il quale al paziente danneggiato spetta provare unicamente l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica in seguito all’intervento, la citata Cass. n. 583/2005  ritiene che al paziente danneggiato  “[… ]spetta provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee e che l’intervento era di facile o routinaria esecuzione e in tal caso il professionista ha l’onere di provare, al fine di andare esente da responsabilità, che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza propria”.

Nel caso di intervento di facile esecuzione, per tale orientamento, non si verificherebbe un passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, ma opererebbe il principio “res ipsa loquitur”, inteso come “quell’evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza”.

 

 

1.6 il danno risarcibile

 

L’area del danno risarcibile copre sia il danno patrimoniale che non patrimoniale.

In passato una lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art.185 c.p., limitava la risarcibilità del danno non patrimoniale al danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza e dal turbamento dell’animo derivanti da fatto illecito costituente reato. Tale orientamento è stato ritenuto superato dalla giurisprudenza più recente (a partire da Corte Costituzionale n. 184 del 14.7.1986; successivamente vedi Cass. Civ. 31 maggio 2003 n. 8828; Cass Civ. 9 novembre 2006 n. 23918), la quale ha ritenuto che l’articolo 2059 c.c. vada riletto alla luce delle norme costituzionali poste a tutela dei valori inviolabili della persona umana; norme che devono intendersi immediatamente precettive nei rapporti tra privati.

Pertanto, oltre alla tradizionale ipotesi del “danno morale”, rientrano nel danno non patrimoniale tutte le ipotesi in cui si verifichi una violazione ingiusta di valori costituzionalmente garantiti, non suscettibili di valutazione economica, senza che sia applicabile il limite di cui all’art. 185 c.p.

Tra tali valori assume rilievo in particolare l’art. 32 Cost. che tutela la salute quale fondamentale interesse del privato e della collettività. Il danno alla salute non è collegato alla capacità a produrre dell’individuo leso, ma prende in considerazione la diminuzione del bene salute causata illecitamente al soggetto.

Abbiamo perciò fondamentalmente tre tipologie di danno da risarcire in conseguenza di atto illecito:

- danno patrimoniale, collegato alla diminuzione del patrimonio subita dal danneggiato per effetto dell’atto illecito, da valutarsi sotto il profilo del danno emergente e del lucro cessante;

- danno non patrimoniale che si distingue in:

1. danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, dell’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); 2. danno morale soggettivo, inteso come temporaneo turbamento dello stato d’animo della vittima;

La Corte Costituzionale ha ritenuto che il danno biologico vada inteso come “lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, dell’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.)”. Tale definizione riprende la definizione legislativa di danno biologico, quale “lesione dell’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale” (comma 3 L. n. 57/2001).

Il danno morale, consistendo in un “pretium doloris”, ossia in un risarcimento per le sofferenze subite, va invece risarcito quale danno transitorio per l’arco temporale in cui esso si manifesta.

Tuttavia si è fatta largo col tempo, tra gli operatori del diritto, una concezione di danno non patrimoniale sempre più ampia, non strettamente riducibile al binomio danno biologico - danno morale sopra evidenziato, arrivandosi a configurare di volta in volta un danno alla vita di relazione, un danno estetico, un danno alla vita sessuale, a seconda del bene giuridico che veniva concretamente leso con l’azione illecita.

Tali casistiche non sempre hanno trovato accoglimento in giurisprudenza, da una parte perché sono state considerate duplicazioni del danno biologico, nel quale di volta in volta possono essere ricomprese; dall’altra perché non sempre il bene giuridico leso, si è detto, assume rilievo costituzionale.

Qualche riferimento più approfondito, tra tali tipologie di danni, merita il c.d. “danno esistenziale”.

I limiti di ammissibilità e le differenze tra tale tipo di danno e il danno biologico sono state esaminate in diverse recenti pronunce.

La Corte Costituzionale, seppur incidentalmente, con la sentenza 11 luglio 2003 n. 233 [11] ha avuto modi di pronunciarsi in materia ritenendo “[…]ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall'art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo”. Ad avviso della Consulta, già nella giurisprudenza della Cassazione (Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), viene prospettata “.. un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.

In senso conforme, ad avviso della Cassazione Penale Sezione IV del 25 novembre 2003 n. 2050 [12], la duplicazione tra danno biologico e danno esistenziale non esisterebbe perché quest’ultimo non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce a sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Inoltre, a differenza del danno morale, il quale consiste nel dolore provocato dal fatto dannoso ed  è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica, il danno esistenziale, “…pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni interpersonali”[13] .

Dello stesso parere sono state di recente le Sezioni Unite delle Cassazione (sentenza 24 marzo 2006, n. 6572[14]) e la successiva sentenza della Cassazione Civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546[15].

Le Sezioni Unite hanno definito il danno biologico come “ ..quel danno che non può prescindere dall'accertamento medico legale”, e che “ …..si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accettabile, secondo la definizione legislativa di cui alla L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3”. Diversamente, per danno esistenziale si intende “…ogni pregiudizio che l'illecito ….. provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso”. Riprendendo i principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994, le Sezioni Unite ribadiscono che "..è sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato”. E…”..se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale" si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso, all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze.”

Da segnalare anche una recente sentenza della giurisprudenza di merito (Tribunale di Vicenza 13 marzo 2006 n. 530)[16], con la quale, in seguito a menomazione fisica permanente dovuta ad errato intervento chirurgico, è stata riconosciuta la risarcibilità del danno esistenziale in misura equivalente al danno biologico patito.

Sembra di contrario parere, invece, Cass. Civ. 9 novembre 2006 n. 23918, la quale ha escluso la risarcibilità del c.d. “danno esistenziale”, ex art. 2059 c.c., poiché ammettendone l’esistenza (dagli incerti e non definiti confini) si finirebbe per condurre anche il danno non patrimoniale nell’aticipità, mentre il risarcimento del danno non patrimoniale attiene solo all’ipotesi specifiche di lesione di valori costituzionalmente garantiti (salute, famiglia, reputazione, libertà di pensiero etc.). Nella categoria del danno esistenziale, infatti,  “…confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dalla interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona, ritenuti inviolabili dalla norma costituzionale”. Ad avviso di tale ultimo indirizzo “….la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. non ha fatto venir meno la tipicità del danno non patrimoniale, il quale è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge (come recita l’art. 2059 c.c.) o dalle norme costituzionali (da intendersi immediatamente precettive) poste a garanzia dei valori fondamentali della persona”. La sentenza in oggetto riconosce che “….l'integrità psicofisica della persona costituisca un valore costituzionalmente protetto ai sensi dell'art. 32 Cost. sotto il profilo del diritto alla salute”. Il danno alla salute (o "danno biologico") comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito che la lesione del bene alla salute abbia provocato alla vittima e non è concettualmente diverso dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione, che rispettivamente rappresentano, l'uno una delle possibili lesioni dell'integrità fisica e l'altro la impossibilità o difficoltà di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale. Di entrambi il giudice deve tenere, conto nella liquidazione del danno alla salute complessivamente considerato al fine di assicurare il corretto ed integrale risarcimento dell'effettivo pregiudizio subito dalla vittima”.

La citata pronuncia infine esclude che tali conclusioni siano in contrasto con la sentenza Cass. Sez. Unite n. 24.3.2006, n. 6572, in quanto in quest’ultima la risarcibilità del danno esistenziale trova la sua fonte nella violazione di obblighi contrattuali (nella specie ex art. 2087 c.c.),  non nell’art. 2059 c.c.

Per tali motivi, continua la sentenza, “…..si tratta di interpretare il contenuto di tale clausola contrattuale ex lege di cui all'art. 2087 c.c., e ciò è stato effettuato dalle S.U. con riferimento al cd. danno esistenziale (come presupposto per la risoluzione del contrasto in merito agli oneri processuali), ma ciò non significa che eguale clausola ex lege è ‘esportabile’ in ogni contratto ed ancor di più fuori dall'ambito suo proprio contrattuale, in assenza di un eguale norma del legislatore su tale categoria di danno. Inoltre, e consequenzialmente, non può sostenersi che il suddetto arresto delle S.U. abbia inciso sulla struttura del risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e cioè nell'ambito diverso della responsabilità aquiliana, affermando che esso, investe anche la lesione del cd. "danno esistenziale".

 

 

 

2. LA GIURISDIZIONE CONTABILE

 

2.1. La giurisdizione contabile e la giurisdizione ordinaria.

 

E’ necessario in via preliminare puntualizzare le differenze tra giurisdizione ordinaria (sia civile che penale) e contabile: la giurisdizione penale giudica dei reati ed irroga la pena; la giurisdizione civile invece ha ad oggetto la tutela dei diritti soggettivi dei privati e degli Enti pubblici.

Nel caso in cui un soggetto lamenti di aver ricevuto un danno in seguito all’ attività dolosa o colposa di un soggetto pubblico o privato ed intenda chiedere il risarcimento di tale danno, egli dovrà rivolgersi al giudice civile o costituirsi parte civile in un processo penale. Tale richiesta potrà essere indirizzata, come già evidenziato, sia al soggetto che ha materialmente causato il danno sia all’Ente che si è avvalso dell’attività del dipendente in costanza di un rapporto di lavoro o di collaborazione, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’Ente stesso. Il dipendente e l’Ente saranno tenuti al risarcimento in solido del danno patito.

 

La giurisdizione contabile si occupa invece di una diversa forma di danno, ossia del danno causato  ad un amministrazione pubblica direttamente da un dipendente o funzionario pubblico nell’esercizio delle funzioni a lui attribuite (c.d danno diretto); ovvero del danno causato dal dipendente pubblico originariamente nei confronti di terzi, ma poi trasferitosi alla pubblica amministrazione in seguito a sentenza o transazione pronunciata nei confronti di quest’ultima, in virtù della responsabilità solidale della stessa amministrazione col dipendente pubblico, ex art. 28 Cost. 1° comma (c.d. danno indiretto). In tali casi il dipendente o funzionario che abbia agito con dolo o colpa grave è soggetto ad un giudizio (giudizio di responsabilità amministrativo-contabile) innanzi alla Sezione Regionale della Corte dei conti competente per territorio, finalizzato al ristoro del danno sofferto dalla amministrazione pubblica.

Principio generale dell’ordinamento è l’autonomia della giurisdizione contabile da quella ordinaria[17]. Eventuali conflitti di giurisdizione tra le due giurisdizioni sono risolti dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

Per quanto riguarda i rapporti tra giudizio contabile e giudizio penale, non è più necessaria la sospensione obbligatoria del processo amministrativo-contabile in caso di procedimento penale pendente sullo stesso fatto, così come prescriveva l’art. 3 c.p.p. ante riforma.

L’art. 129 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. ha previsto l’obbligo da parte del Pubblico Ministero di informare il Procuratore Generale presso la Corte dei conti qualora nell’esercizio dell’azione penale abbia notizia di un reato che ha cagionato un danno erariale.

La sentenza penale di assoluzione, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., relativamente all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile e amministrativo, quando il giudizio sia promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile.

La sentenza penale irrevocabile di condanna, a norma dell’art. 651 c.p.c., pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato nei confronti del convenuto e del responsabile civile che sia stato citato o sia intervenuto nel processo penale, quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Nei confronti del giudizio civile, la necessità della sospensione del giudizio contabile deve essere dichiarata unicamente ove la controversia attenga lo stato e la capacità delle persone interessate al giudizio contabile stesso. Nel caso di giudizio civile instaurato da un terzo nei confronti di una pubblica amministrazione, la sentenza civile non ha efficacia vincolante nel giudizio risarcitorio nei confronti del dipendente  pubblico, sebbene costituisca elemento di giudizio valutabile dal giudice contabile. Nel caso di danno diretto del dipendente all’Ente pubblico, l’azione civile e quella contabile restano autonome. In osservanza del principio del “ne bis in idem” sostanziale, qualora la liquidazione del danno in sede civile contenga integralmente la richiesta risarcitoria della procura contabile, si ha non luogo a provvedere per sopravvenuta carenza di interesse. Tuttavia, qualora la Procura contabile ritenga che l’avvenuta liquidazione non reintegri l’intero danno erariale, il giudice contabile potrà pronunciarsi sul rimanente credito.

Resta salva comunque la facoltà per il giudice contabile, qualora ne venga ravvisata l’opportunità, di sospendere il giudizio contabile in attesa della definizione del giudizio civile connesso, ex art. 295 c.p.c.

A conferma dell’autonomia dei giudizi contabile e civile, si è ad esempio esclusa la responsabilità contabile del medico dipendente di una ex U.S.L., già condannato in sede civile sulla base di un rapporto privatistico instaurato con il paziente danneggiato, in quanto non è stato ritenuta provata nel caso di specie la causazione del danno in permanenza del rapporto di servizio con l’Ente pubblico, ma soltanto la responsabilità del medico nell’esecuzione della prestazione professionale di natura privata (Corte dei conti Sez. Lazio n. 215/2006[18]).

 

 

2.2 Elementi caratterizzanti il giudizio di responsabilità amministrativa innanzi la Corte dei conti.

Diverse sono le norme fondanti la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità di dipendenti e funzionari pubblici: innanzitutto  l’art. 103 Cost, comma 2, il quale statuisce che “La Corte dei conti ha giurisdizione nella materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”. Vi sono poi gli art. 81, 82 e 83 della legge di contabilità dello Stato R.D. 18/11/1923 n. 2440; l’art. 52 T.U. delle leggi sulla Corte dei conti, R.D. 12/07/1934 n. 1214; gli artt. 18 e 19 T.U. impiegati civili dello Stato, D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 267; le leggi n. 19 e n. 20 del 20/01/1994; la legge n. 639 del 20/12/1996. In particolare l’art. 82 della legge di contabilità dello Stato stabilisce che “l’impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nelle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo”. Con l’introduzione dell’art. 52 del T.U. delle leggi sulla Corte dei conti, R.D. 1214/1934 (che parla di “impiegati e funzionari”) e, soprattutto, con l’introduzione del citato art. 103 della Costituzione, attributivo di una giurisdizione generale in materia di contabilità pubblica per la Corte dei conti, i termini di “impiegato e funzionario” furono intesi dalla giurisprudenza della Corte stessa in un’accezione più vasta, e venne ritenuta configurabile la giurisdizione contabile anche nei confronti di soggetti legati da mero rapporto di servizio con una amministrazione pubblica, ossia di inserimento non occasionale nell’apparato organizzativo pubblico, secondo le regole ed i criteri propri di quest’ultimo (si veda ad es. Corte dei conti sez. II 26 giugno 1997 n.183/A).

Con l’art. 1 comma 1 della L. 20/1994 n. 20, come modificato dalla legge 639/1996, veniva poi limitata la responsabilità del dipendente pubblico ai soli casi di illecito contabile commesso con dolo o colpa grave. La Corte Costituzionale, con sentenza del 20 novembre 1998 n. 371[19], ha avuto modo di pronunciarsi sulla disposizione in oggetto, essendo stata sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione al non ragionevole miglior trattamento disposto a favore dei dipendenti pubblici rispetto a quanto previsto per i privati in situazioni analoghe. In tale occasione la Consulta negava i dubbi di costituzionalità sopra richiamati, sostenendo che la disparità in questione è motivata dalla prospettiva di una maggior valorizzazione anche dei risultati dell’azione amministrativa, alla luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione. Il mantenimento di una responsabilità anche per colpa lieve, ad avviso della Consulta, può portare alla paralisi l’attività degli amministratori pubblici, considerato il nuovo quadro normativo improntato al risultato e all’efficienza degli stessi e considerate le connesse maggiori responsabilità normativamente previste (si pensi ad esempio alle recenti riforme sulla c.d. “responsabilità dirigenziale”). La disposizione è dunque costituzionalmente legittima e risponde  “…alle finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti e amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”.

Per tali motivi, con particolare riferimento alla responsabilità del professionista che qui ci interessa, la valutazione sull’elemento psicologico dell’agente nel giudizio contabile richiederà sempre l’accertamento della colpa grave o del dolo, laddove invece la responsabilità per colpa grave nel giudizio civile è prevista unicamente nei casi di interventi di speciale difficoltà (art. 2236 c.c.).

La giurisdizione contabile si differenzia inoltre per un diverso regime della prescrizione: il danno erariale si prescrive in cinque anni dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla sua scoperta (art. 1 comma 2 L. 20/1994). Nel caso di danno c.d. indiretto, parte della giurisprudenza individua il “dies a quo” prescrizionale nel momento di passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell’amministrazione; altre sentenze prendono in considerazione il momento in cui viene effettuata la transazione, altre ancora ritengono rilevante l’effettivo pagamento effettuato dall’amministrazione pubblica nei confronti del terzo danneggiato. Tale ultimo orientamento sembra da preferirsi ed è quello che ha riscosso i maggiori consensi nella giurisprudenza contabile (si veda ad es. Corte dei conti sez. II 30 aprile 1998 n. 132; Corte dei conti Sez. Abruzzo 18 novembre 1999 n. 1119; Corte dei conti III Sezione giurisdizionale centrale d’appello, 30 marzo 2000 n. 124).

Ulteriore caratteristica dell’obbligazione risarcitoria di tipo contabile è la generale parziarietà, se non per il caso di concorrenti nell’illecito contabile che abbiano agito con dolo o abbiano conseguito un illecito arricchimento. Ai sensi dell’art. 82 comma 2 della legge di contabilità generale dello Stato (R.D. 2240/1923), “quando l’azione o l’omissione è dovuta all’azione di più funzionari, ciascuno risponde per la parte che via ha preso”. Tale norma è stata poi precisata dall’art. 1 commi 1 quater, e quinquies della L. 20/1994 (come modificata dalla L. 639/1996), il quale ha previsto che “ se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che via ha preso” e che “ solo i singoli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente”. Viceversa, nel caso di unico evento dannoso causato da più persone, nel giudizio risarcitorio civile la regola è la solidarietà passiva tra i vari coobbligati.

Sulla possibilità che venga chiamata nel giudizio contabile una compagnia assicuratrice, con la quale il medico abbia stipulato una polizza RC per il rischio professionale, un consolidato orientamento giurisprudenziale (Corte dei conti Sez. Basilicata n. 57/2005/R; Corte dei conti Sez. Lombardia 17.3.2003, n.324; Corte dei conti Sez. Lazio 15.1.2003, n.92) ritiene che “…la giurisdizione della Corte dei conti non possa estendersi al rapporto di garanzia esistente tra il convenuto in giudizio e la Società di assicurazioni, essendo l'oggetto della prima limitato all'accertamento della responsabilità di soggetti legati all'Amministrazione Pubblica da un rapporto di servizio per il risarcimento dei danni arrecati a questa dai medesimi. Da ciò discende [….] che la legittimazione passiva nel giudizio di responsabilità amministrativo contabile è solo di coloro che hanno un rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione, ovvero degli eredi del convenuto in caso di illecito arricchimento. In tale sistemazione processuale non v'è dunque alcun ambito di operatività per l'art.106 c.p.c., contemplante la c.d. chiamata del terzo in garanzia in quanto ogni questione discendente dalla esistenza, o preesistenza, di un contratto assicurativo tra convenuto ed Assicurazione esula dalle attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, il cui decidere deve modellarsi nel rispetto dello schema normativo delineato dall'art.52 del R.D. n.1214 del 1934, e quindi sulla fondatezza della azione di danno proposta dal Procuratore Regionale verso i soggetti che esercitano funzioni pubbliche” (Corte dei conti Sez. Basilicata n. 57/2005/R).

Vi è ancora da segnalare che, a differenza che nel giudizio civile, nel giudizio amministrativo-contabile vige il principio dell’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligazione risarcitoria, ad eccezione del caso in cui vi sia stato illecito arricchimento da parte degli eredi stessi (art. 1 comma 1 L.20/1994, nonché art. 93 comma 4 T.U. Enti locali, D.lgs. 18 agosto 200 n.267).

 

2.3 La valutazione del grado della colpa nella giurisdizione contabile.

Come detto, ai sensi dell’art. 1 comma 1 L. 20/1994, come modificato dalla legge 639/1996, limita  la responsabilità dell’impiegato o funzionario ai casi di dolo o colpa grave.

Nel giudizio civile il medico è chiamato a rispondere del proprio operato per colpa generica, a meno che il medico stesso non provi di aver compiuto un intervento implicante la soluzione di problemi di particolare difficoltà; nel qual caso, a norma dell’art. 2236 c.c., egli risponderà per dolo o colpa grave. Neppure allo stesso medico, se dipendente pubblico, può applicarsi la limitazione di responsabilità al dolo o alla colpa grave ai sensi dell’art. 23 del T.U. impiegati civili  dello Stato, in quanto, come già evidenziato, si tratta di limitazione di responsabilità applicabile agli illeciti aventi natura extracontrattuale, ma non applicabile in materia di servizi pubblici, in cui si instaura un rapporto contrattuale.

Per tale motivo assume un diverso rilievo, ai fini della valutazione del grado della colpa, la distinzione tra prestazione del medico avente particolare difficoltà e prestazione di “routine”. Tale distinzione non rappresenta, nel giudizio contabile, la linea di demarcazione per l’affermazione della responsabilità del medico per il caso di colpa (attività di “routine”) o di colpa grave (attività di speciale difficoltà, art. 2236 c.c.), ma diviene soltanto elemento per la valutazione in concreto della responsabilità del professionista. In sostanza, in caso di attività di “routine” il criterio di valutazione della gravità della colpa sarà più rigoroso rispetto alle valutazione da effettuarsi per le attività di particolare difficoltà, ma l’elemento psicologico da valutare in capo al medico sarà sempre e soltanto la sussistenza della “colpa grave” o del dolo.

Inoltre l’onere della prova della sussistenza di tale elemento psicologico, a differenza che nel giudizio civile - in cui, secondo la giurisprudenza più recente, al medico incombe l’onere di provare la mancanza di colpa o colpa grave, essendo sufficiente al danneggiato provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento o l’insorgenza della malattia per effetto dell’intervento -, graverà sempre in capo alla Procura contabile, la quale dovrà dimostrare da una parte l’effettiva preposizione del medico allo svolgimento delle relative funzioni pubbliche durante il periodo di insorgenza del danno, in modo da concretare un rapporto causale tra azione ed evento; dall’altra la sussistenza del predetto elemento psicologico, da valutarsi in relazione all’effettiva operatività del medico nella struttura pubblica (Corte dei conti Sez. Lazio, n. 215/2006).

Quanto sopra premesso, occorre quindi esaminare come sia stato inteso il concetto di colpa grave nella giurisprudenza della Corte dei conti.

E’ ormai acquisito che la colpa grave consista in una notevole negligenza, imprudenza, imperizia, mancanza di osservanza di quel livello minimo di diligenza che il caso concreto richiede (Corte dei conti sez. Sez. Sicilia 19 gennaio 1998 n. 17; Sez. Piemonte  22 gennaio 1998 n. 22).

Le Sezioni Riunite - 10 giugno 1997 n. 56[20] - hanno avuto modo di affermare che la colpa grave consiste nella evidente e marcata trasgressione degli obblighi di condotta, ma costituiscono significative connotazioni di tale trasgressione:

- che sia ex ante ravvisabile dal soggetto come dovere professionale di ufficio;

- che non sussistano eccezionali difficoltà nello svolgimento dello specifico compito di ufficio;

- che, nel caso di attività pericolose del dipendente pubblico, questo non si sia attenuto all’obbligo di usare il massimo della cautela e dell’attenzione;

- che, nel caso di illecito con comportamento omissivo, questo si pervicace e ingiustificato, tale da rendere estensiva la volontà del soggetto di disinteressarsi deliberatamente di adempimenti che gli fanno carico.

Il concetto di colpa grave, in ogni caso, va individuato in concreto, in relazione alle diverse attività esercitate.

Altra giurisprudenza più recente ha precisato che  “.. il giudice contabile non può e non deve valutare il rapporto in contestazione alla stregua di immutabili norme prefissate, non rinvenibili, peraltro, in alcuna normazione al riguardo….; ma “…egli deve, invece, prefigurare nel concreto l’insieme dei doveri connessi all’esercizio delle funzioni cui l’agente è preposto, attraverso un’indagine che deve tener conto dell’organizzazione amministrativa nel suo complesso e delle finalità da perseguire, alla luce di parametri di riferimento da porsi come limite negativo di tollerabilità, dovendosi ritenere realizzata un’ipotesi di colpa grave ove la condotta posta in essere se ne discosti notevolmente” (Corte dei conti Sez. Terza Giurisdizionale di appello del 28 gennaio 2005, n. 56).

Soffermandosi sull’ambito della responsabilità professionale, ed in particolare di quella medica, per la giurisprudenza contabile la grave imperizia e negligenza si riscontrano ad esempio nell’inosservanza delle motodiche diagnostiche e terapeutiche dettate dalla scienza medica (Corte dei conti Sez. Sicilia 24 marzo 2006 n. 1146[21]). Altre sentenze (Corte Conti Sez. Puglia 4 marzo 1999 n. 11; Corte Conti Sez. Lombardia 8 ottobre 1998 n. 11) hanno specificamente affermato che la colpa grave del professionista corrisponde a quella delineata dall’art. 2236 c.c., cosicché per i sanitari la responsabilità deve essere circoscritta ai casi di negligenza ed imperizia gravi, riconducibili ad inosservanza delle metodiche diagnostiche e terapeutiche dettate dalla scienza medica in quella disciplina, tenendo conto però più che del risultato raggiunto, dei mezzi impiegati per conseguirlo, ossia del comportamento del medico conforme alla deontologia professionale che postulano il suo scrupoloso impegno, con diligenza superiore alla media, nell’uso di tutte le tecniche dettate dalla scienza clinica e di ogni altro accorgimento suggerito dalla comune esperienza.

 

 

2.4 Il danno risarcibile nel giudizio contabile

Altro elemento differenziante la giurisdizione civile e contabile è la valutazione del danno risarcibile.

Come detto, nel giudizio risarcitorio innanzi al giudice ordinario può essere risarcito sia il danno patrimoniale che non patrimoniale.

La valutazione del danno patrimoniale nel giudizio contabile non differisce da quella da effettuarsi nel giudizio civile, in quanto dovrà essere rifuso sia il danno emergente che il lucro cessante. In passato si era escluso che potesse applicarsi al giudizio contabile il principio civilistico della compensatio lucri cum damni, nella forma dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione, non essendosi in presenza di pariteticità di interessi, vista la preminenza degli interessi pubblici in gioco nel processo contabile (Corte Conti sez. I. n. 14/84). Tuttavia tale possibilità è stata introdotta con l’art. 1 comma 1 L. 20/94 come modificata dalla L. 636/1996, la quale ha disposto che, “…fermo restando il potere di riduzione dell’addebito, occorre tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata”.

Occorre inoltre soffermarsi sull’inciso sopra richiamato “…fermo restando il potere di riduzione dell’addebito”. Il c.d “potere riduttivo” del giudice contabile è previsto dall’ art. 52 comma 2 R.D. 1214/1934 e dall’art.83 R.D. 2440/1923. Il primo dispone che “la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”, mentre l’art 83 R.D. 24440/1923 prevede che “ i funzionari…sono sottoposti alla giurisdizione della Corte, la quale, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”. La giustificazione di tale potere risiede nella necessità della graduazione dell’addebito del danno, in base a considerazioni equitative. In tal modo si ripartisce il danno stesso tra dipendente pubblico ed amministrazione, laddove circostanze sia oggettive (complessità del lavoro svolto, urgenza del servizio, insufficienza del personale etc.) che soggettive (ad es. l’aver seguito la prassi dell’ufficio o l’aver cercato di riparare il danno) lo facciano ritenere opportuno. Il suo esercizio va però congruamente motivato in sentenza.

Particolare attenzione merita la possibilità di addebitare al dipendente pubblico anche il danno non patrimoniale causato all’amministrazione.

In passato si era esclusa tale possibilità, in quanto ritenuto che gli Enti non potessero soffrire un danno alla sfera non patrimoniale, quali i danni alla salute, alla vita di relazione etc., in quanto danni che possono essere sofferti, per loro natura, soltanto in capo alle persone fisiche.

La Corte di Cassazione, con le sentenze Sez. I. 10 luglio 1991 n. 7646 e 5 dicembre 1992 n. 12951) aveva già affermato che gli enti sono titolari di diritti non patrimoniali (diritto alla reputazione, all’onore, all’immagine) e possono subire un danno dalla illecita aggressione a tali diritti; danno che può essere riparato mediante un risarcimento la cui entità dovrà essere apprezzata in via equitativa (sul tema si veda anche le recenti Cass. civ., sez. I, 29 ottobre 2002, n. 15233[22]; Cass. civ. (Ord.), sez. un., 20/11/2003, n. 17674).

Sulla base di tali premesse, con sentenza Sez. Un. 25 giugno 1997 n. 5668, la stessa Corte di Cassazione affermava che la giurisdizione della Corte dei conti sul danno erariale comprende il danno conseguente alla perdita di prestigio e dell’immagine della personalità pubblica dello Stato, che, sebbene non porti a una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria per il ripristino del bene leso. Tale orientamento veniva confermato anche da Cass. n. 744/1999. Con tale sentenza la Cassazione - dopo aver considerato che, anche se "la nozione del danno all’immagine è insorta con riferimento alla sfera giuridica della persona fisica", "essa è estensibile alla persona giuridica" (ed ancor più alla persona giuridica pubblica), e che tale estensione "non può non tenere conto della diversità ontologica di quest’ultima - si è chiaramente espressa per la "natura contrattuale della responsabilità connessa al danno all’immagine", evidenziando come essa insorga tra identici "soggetti attivi e passivi", in "violazione dei medesimi doveri funzionali".

La giurisprudenza della Corte dei conti successiva ha poi specificato gli estremi di tale particolare categoria di danno erariale.

Le Sezioni Riunite della Corte dei conti con Sentenza n. 16/99/Q.M. del 10 febbraio/28 maggio 1999 [23]- nel dirimere la questione di massima circa la sussistenza o meno del danno all’immagine in mancanza di un vero e proprio danno patrimoniale - hanno affermato che "sussiste la giurisdizione della Corte dei conti sul danno erariale derivante dalla lesione di un bene immateriale anche se non sussiste o non sia stato chiesto il risarcimento per danno arrecato al bene patrimoniale" e, quindi, che sussiste la "autonoma azionabilità del danno erariale derivato dalla lesione di beni immateriali dello Stato", quale il danno all’immagine ed al prestigio della P.A. Le Sezioni riunite hanno anche affermato che, "se il danno (all’immagine) è il pregiudizio arrecato alla lesione di un interesse giuridicamente protetto e, quindi, di un bene cui l’Ordinamento giuridico abbia conferito una tutela, il risarcimento rappresenta la reazione che l’Ordinamento giuridico prevede in presenza di un comportamento che abbia determinato la lesione di beni appartenenti alla sfera giuridica altrui e assolve alla funzione ripristinatoria e riparatoria per eliminare gli effetti derivanti dall’azione lesiva sul soggetto danneggiato, determinandone comunque un coinvolgimento patrimoniale sotto il profilo di una diminuzione sopraggiunta o sotto il profilo della spesa necessaria per la reintegrazione della situazione preesistente".

Inoltre, l’orientamento giuridisprudenziale maggioritario più recente ha affermato che il danno in argomento non si correla necessariamente ad un reato, ma può discendere anche da un comportamento gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito extra penale.

Non tutti gli atti o comportamenti genericamente illegittimi o illeciti compiuti da un amministratore, da un dipendente (anche di fatto) o da un agente pubblico - che pure non giovano certamente al prestigio ed all’immagine della P.A. - sono causalmente idonei a determinare una menomazione di detta immagine e di detto prestigio.

Vengono invece in rilievo, oltre ai comportamenti causativi di reati penali, solo i comportamenti dei dipendenti (anche di fatto), degli amministratori o agenti pubblici gravemente illegittimi, ovvero i comportamenti gravemente illeciti, ai quali soltanto può ricollegarsi quella "grave perdita di prestigio e dell’immagine" e quel "grave detrimento della personalità pubblica", nelle quali si compendia il "danno all’immagine ed al prestigio della P.A." rilevante nel giudizio di responsabilità amministrativa contabile.

Secondo l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale più recente, il danno all’immagine ed al prestigio della P.A., quale "danno ingiusto" ad uno dei diritti fondamentali della persona giuridica pubblica, discende  quale configurazione di "danno patrimoniale in senso ampio" ex art. 2043 c.c. ed art. 2 della Costituzione.

Va, inoltre, considerato, ad avviso della citate Sezioni Riunite,  che il "danno all’immagine ed al prestigio della P.A.", é altresì, chiaramente correlato al "clamor" ed alla diffusione che dell’illecito stesso ne danno la stampa e gli altri mezzi di comunicazione, atteso che tale diffusione, quale normale corollario della vita di relazione, esprime certamente la rilevanza sociale che ha il predetto fatto gravemente illegittimo ovvero gravemente illecito, sotto il profilo della attenzione che l’opinione pubblica ed i cittadini prestano all’esercizio delle pubbliche funzioni, per cui il pregiudizio ed il discredito della P.A. - nella occasione di fatti ed atti gravemente illegittimi ovvero gravemente illeciti commessi nel suo ambito dai predetti dipendenti (anche di fatto), amministratori ed agenti pubblici - non è altro, in definitiva, che uno degli "effetti naturali" più rilevanti di un simile interesse sociale.

In senso analogo, recentemente, Corte dei conti Sez. Sicilia 9 aprile 2006 n. 3227, ha ricordato che “…in tema di danno all'immagine la Corte di Cassazione ha ormai più volte affermato che, se la persona giuridica, per sua natura, non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, è tuttavia portatrice dei diritti immateriali della personalità, ove compatibili con l'assenza della fisicità, e quindi dei diritti all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine ed alla reputazione”.

Al riguardo si è osservato che “…il danno all'immagine deve essere individuato come danno evento: da tale classificazione consegue che la prova della lesione è "in re ipsa", essendo comunque necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) nella quale il risarcimento deve essere equitativamente commisurato”.

Si è poi rilevato che “è di tutta evidenza che il danno alla immagine debba essere sempre provato, non potendo derivare automaticamente dal riconoscimento della illiceità del comportamento cosicché ai fini risarcitori o riparatori la potenzialità dannosa della condotta va saggiata nei singoli casi. Assumono rilievo in relazione all'an ed al quantum del danno all'immagine i seguenti elementi: l'attività dell'ente, organo, ufficio dell'autore del danno; la posizione funzionale dell'autore dell'illecito, che assume maggior gravità in caso di posizione di vertice; la sporadicità o la continuità o la reiterazione dei comportamenti illeciti; la necessità o meno di interventi sostitutivi o riparatori dell'attività illecitamente tenuta; la negativa impressione nell'opinione pubblica, tale da suscitare sfiducia nei confronti dell'ente” .

Il giudice contabile é chiamato, in definitiva, attraverso il suo equo apprezzamento, a fornire una valutazione della riparazione del danno che non è e non potrà mai essere un preciso equivalente alla lesione dell'interesse colpito, ma che si configura - sul piano del giudizio equitativo di cui al citato art. 1226 c.c. - come un “corrispettivo non soltanto di carattere riparatorio dell'immagine lesa”, che tiene conto di tutte le circostanze del caso particolare, atte a motivare adeguatamente il “quantum” individuato secondo equità.

Con particolare riferimento all’attività medica si è ritenuto sussistente il danno all’immagine causato alla ASL dalla condotta gravemente colposa di un medico suo dipendente (Corte dei conti Sez. Basilicata n. 57/2005/R)[24], poiché anche in tali casi “…l'evento è dannoso, e quindi risarcibile, perché collide con interessi primari che ricevono protezione immediata dall'ordinamento giuridico”. Ciò perché, continua la sentenza “..tali beni, come ad esempio il bene della salute, non vengono considerati come propri del soggetto - individuo - persona fisica, ma come interessi dell'intera collettività, di natura primaria, e di cui può risultare portatrice anche la P.A […..] Il dipendente pubblico, ad ancor più [….] il professionista pubblico “qualificato”, che adotta un comportamento difforme da quanto richiesto dal suo “status” e dal complesso dei “munera” da questo esigibile, tradisce il dovere di fedeltà, di diligenza e di correttezza verso la P.A., dimostrando di non essere in grado di sapere operare in maniera conforme a principi di economicità, efficienza ed efficacia; tale comportamento, oltre a ledere il prestigio della P.A., mina in maniera sensibile il senso di affidamento e di fiducia che la collettività ripone verso l'attività della P.A., istituzionalmente considerata come votata al conseguimento del benessere della popolazione ed alla salvaguardia della stessa. Il danno all'immagine si traduce, così, nel danno alla funzione pubblica, “recte”: al corretto e diligente esercizio dei compiti propri di questa, compromesso e “tradito” dalla negligenza e dalla colpa serbate nell'esercizio della funzione stessa. Tale condotta, da sola, realizza una fattispecie che produce responsabilità indipendentemente dal verificarsi di un danno patrimoniale diretto inteso come tradizionale “deminutio patrimonii”, vale a dire come mero depauperamento del complesso di beni materiali facenti capo alla P.A.”.

 

 

2.5 Considerazioni conclusive

Da quanto fin ad ora riferito emerge chiaramente la diversa natura della responsabilità civile rispetto a quella contabile; quest’ultima, accanto alla funzione propriamente restitutoria a carico dei dipendenti pubblici che abbiano causato un danno all’erario, rivela una concomitante e caratteristica natura sanzionatoria, tanto da far ritenere ad alcuni che la responsabilità amministrativo contabile costituisca un vero e proprio tertium genus rispetto ala responsabilità civile e penale. La combinazione di queste due funzioni, comunque, completata dalla necessità di non disegnare un regime di responsabilità troppo gravoso per il pubblico dipendente (e quindi potenzialmente paralizzante l’attività degli amministratori pubblici), costituisce il fondamento del regime speciale disegnato per tale tipo di giurisdizione, così come è stato evidenziato dalla citata sentenza della Corte Costituzionale del 20 novembre 1998 n. 371 .

Si delinea perciò un quadro di responsabilità per il medico dipendente pubblico sicuramente più favorevole rispetto al processo civile cui lo stesso può essere sottoposto; ciò avviene sia per la necessità, in sede contabile, della presenza dell’elemento psicologico quantomeno della colpa grave in capo al medico stesso; colpa grave che deve sussistere non solo per le attività implicanti la soluzione di particolare difficoltà ex art. 2236 c.c., ma che deve accertarsi in ogni caso; sia per un regime probatorio – la colpa grave va in ogni caso provata da parte della Procura attrice - e prescrizionale più favorevole. In realtà, in quest’ultimo caso, qualora il dies a quo prescrizionale per l’azione contabile si faccia coincidere con l’effettivo esborso da parte dell’amministrazione danneggiata – evento, questo, che può verificarsi anche a molti anni di distanza dalla effettiva commissione del fatto, soprattutto quando l’esborso segua a sentenza civile di condanna dell’amministrazione passata in giudicato -, bisogna sottolineare che il termine prescrizionale può notevolemente prolungarsi, fino a superare in molti casi il termine prescrizionale decennale previsto per l’esercizio dell’azione in sede civile.

A ciò va ad aggiungersi che il giudice contabile può diminuire l‘entità del risarcimento da addebitare al dipendente pubblico in relazione alla gravità in concreto della colpa allo stesso ascrivibile, facendo esercizio del potere riduttivo che è proprio del giudizio contabile, nonché la possibilità che lo stesso medico possa far valere i vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione lesa (in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno).

Desta comunque qualche perplessità, pur nell’apprezzamento delle osservazioni effettuate a suo tempo dalla Consulta sull’argomento, il mantenimento di un regime così ampiamente più favorevole per il dipendente pubblico rispetto ad analoghe situazioni esistenti nel settore privato, considerato anche il continuo e costante processo di privatizzazione che si sta operando in tutto il settore del pubblico impiego.

 

 



[1] Cass. Civ. Sez. III, 24 marzo 1979 n. 1716, in Giust Civ. ,1979,1440, I; in Resp Civ e Previdenza, 1980,90; in Riv. It. Medicina Legale,1981,880.

[2] Cass. Civ. sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144, in Foro It.,I, 2296.

[3] Si veda in proposito “La responsabilità professionale del medico dipendente del Servizio Sanitario Nazionale” di Nicola Todeschini, pubblicato su www.assilearning.it.

 

[4] Cass Civ, 14 luglio 2004, n. 13066 in Giust. civ. Mass. 2004, 7-8;.Cass. Civ. sez. III  9 novembre 2006 n. 23918 su www.dirittosanitario.net.

[5] Sulla responsabilità della Struttura Sanitaria in generale si veda anche: D. Chindemi “La responsabilità della Struttura Sanitaria (Pubblica e Privata)”, in  http://www.lapraticaforense.it.

[6] D. Chindemi op.cit.

 

[7] Cass. Civ. ,Sez. III, 28 maggio 2004 n. 10297, su www.foroeuropeo.it.

[8] Cass. Civ. 22 gennaio 1999 n. 589 in Foro it. 1999, I,3332 nota DI CIOMMO, LANOTTE 9. Si legge nella sentenza che “… una stessa condotta può violare due (o più) precetti, uno di natura contrattuale ed uno di natura extracontrattuale, fondando quindi due diverse responsabilità. Infatti, nel nostro ordinamento (contrariamente all'ordinamento francese dove vige incontrastato il principio del non-cumul), quale si è  venuto configurando per effetto del diritto vivente, vige il principio che e' ammissibile il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico comportamento risalente al medesimo autore appaia di per sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti al contraente da clausole contrattuali, ma anche dei diritti soggettivi, tutelati anche indipendentemente dalla fattispecie contrattuale (Cass. 23 giugno 1994 n. 6064; Cass. 7 agosto 1982 n. 4437)”. Dello stesso avviso anche Nicola Todeschini, op. cit.

[9] Cass. Civ. sez. III 28 maggio 2004 n. 10297 in Giust. civ. 2005, 6 I,1601.

[10] Cass. Civ. Sez. III 13 gennaio 2005 n. 583 in Giust. civ. Mass. 2005, 1.

[11] Giur. cost. 2003, 4

[12] Cass. Pen. Sez. IV del 25 novembre 2003 n. 2050, su Nuova giur. civ. commentata 2004, I, 567 nota PELLECCHIA..

[13] Si veda anche “Caso Barillà: perché sì al danno esistenziale, secondo la Cassazione Penale”, di Paolo Cendon, su www.altalex.com.

[14] Cassazione civile , sez. un., 24 marzo 2006 , n. 6572, Resp. civ. e prev. 2006, 9 1477 (NOTA) nota ROSSETTI

[15] Cass. Civ. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546,  Dir. e giust. 2006, 28 17 (NOTA) nota DI MARZIO

[16] Trib. Vicenza, 13 marzo 2006 n.530, su www.personaedanno.it

[17] Si veda sull’argomento Angelo Bax,  “La Corte dei conti – le funzioni giurisdizionali e di controllo a seguito delle recenti riforme”, Edizioni Simone, 2000, pagg. 68 e seguenti.

[18] In Riv. Corte dei conti, 2006, Vol I, 167

[19] Riv. amm. R. It. 1998, 945 nota MADDALENA

[20] in Riv. Corte dei conti,1997, Vol.6, II,117

[21] in Riv. Corte dei conti,2006, Vol. 2, 207

[22] Cass. Civ. sez. I 29 ottobre 2002 n. 15233 in Giust. civ. Mass. 2002, 1896.

[23] in Riv. Corte dei conti,1999,Vol. 3,II, 76 .

[24] in Riv. Corte dei conti, 2005, Vol.2,142


 

© Diritto - Concorsi & Professioni - riproduzione vietata