Dottrina

IL RISARCIMENTO DEL DANNO DOVUTO DALLA P.A PER MANCANZA DI COMUNICAZIONE (EX ART. 7 L. 241/90) DELLA DICHIARAZIONE DI PUBBLICA UTILITA’.

di Mauro Massimo Donno

 

1. Premesse  2. L’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 l. 241/90).  3. La reintegrazione in forma specifica e il risarcimento del danno. 4. Elementi soggettivi ed oggettivi  dell’illecito. 5. Il “quantum”  del risarcimento del danno  6. Cenni conclusivi

 

1.     Premesse

 

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato ritorna sul problema, già diverse volte affrontato dal supremo Collegio Amministrativo, della doverosità della comunicazione di avvio del procedimento (ex art. 7 l. 241/1990) che culmina nel decreto di espropriazione.

Decisamente più interessanti però si rivelano le  considerazioni del Supremo Collegio sul tema, di grande attualità, del  risarcimento dovuto al privato per l’attività illegittima della P.A., in particolare sulla possibilità per il giudice di fissare i criteri  cui l’Amministrazione stessa deve attenersi nella determinazione di tale risarcimento (ex art. 35 D.lgs 80/98 come modificato dall’art. 7 L. 205/2000).

Questi i fatti: il Comune di Firenzuola, con deliberazione del Consiglio Comunale, approva la variante al PRG relativa all’esecuzione di strade comunali per il progetto “Alta Velocità”, su cui si era già espressa in senso favorevole la conferenza di servizi indetta a tale scopo. Con successiva delibera il Comune approva il progetto esecutivo dell’intervento in questione, dichiarando la pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera ed autorizzando l’occupazione d’urgenza del terreno a favore del consorzio incaricato dei lavori. Con ulteriore successiva delibera, la giunta comunale modifica tale progetto, ampliando l’area del terreno da espropriare, con contestuale nuova dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e relativo decreto di occupazione d’urgenza a favore del predetto consorzio.

Soccombenti nel giudizio di primo grado, il consorzio ed il Comune di Firenzuola propongono in via principale appello al Consiglio di Stato.

 

2.L’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento (art. 7 l. 241/90).

 

Il Supremo Tribunale riafferma il principio enunciato dal TAR secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità è procedimento autonomo rispetto alla procedura di espropriazione, ed impone una comunicazione preventiva all’interessato di avvio del procedimento stesso.

Il principio è ormai pacifico in giurisprudenza.

Un primo orientamento della Corte di Cassazione (1) aveva escluso l’applicabilità della legge 241/90 a tutto il procedimento espropriativo, in quanto la legge sul procedimento non poteva applicarsi laddove l’obbligo di informazione del privato era soddisfatto diversamente, secondo una disciplina esaustiva (quale si riteneva fosse la disciplina normativa in materia di espropriazione), sia sul piano dell’atto che degli effetti.

Viceversa in materia di occupazione d’urgenza proprio la mancanza di garanzie procedimentali a tutela del privato facevano ritenere applicabile la disciplina introdotta dalla legge 241/90 (2)

Il Consiglio di Stato nell’Ad. Plen. del 15 sett. 1999 n.14 (3) ha tuttavia risolto la questione nel senso opposto.

In tale sentenza si precisa che “il procedimento che si conclude con la dichiarazione di pubblica utilità è un procedimento autonomo e non un subprocedimento del più generale procedimento amministrativo, e pertanto è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 L. 7 agosto 1990 n. 241. La comunicazione di avvio del procedimento…..non è necessaria in relazione al procedimento di occupazione d’urgenza….per la sua natura meramente attuativa di provvedimenti presupposti”.

In senso conforme il Cons. di Stato sez. IV 4 dic. 2000 n. 6485 (4), il quale ha ribadito che “la comunicazione di avvio del procedimento prescritta dall’art. 7 legge 7 agosto 1990 n. 241, ovvero …….altro avviso che possa reputarsi ad esso equipollente, deve essere inviato al destinatario del provvedimento di espropriazione prima dell’approvazione del progetto definitivo, che equivale a dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità, sicchè il giusto procedimento, ove attuatosi nella dichiarazione di pubblica utilità, non ha ragion d’essere nell’occupazione d’urgenza”.

Infine l’Ad. Plen. n. 2 e 3 del 24 gennaio 2000 (5), ha riconfermato l’orientamento avviato con l’Ad Plen. del 1999, specificando che  “la disposizione sull’avviso di procedimento ha l’effetto sul procedimento di approvazione dell’opera pubblica di orientare alla applicazione analogica – alla  dichiarazione di pubblica utilità implicita – della disciplina sulla partecipazione nella dichiarazione di pubblica utilità esplicita. Anche l’approvazione del progetto dell’opera pubblica ex art. 1 L. n. 1/78, nella quale è insita la dichiarazione di pubblica utilità presuppone quindi le preventive misure di partecipazione di cui all’art. 10 L. n. 865/71”.

Esaminando la giurisprudenza del Consiglio di Stato si può notare come la stessa distingua nettamente, quanto alla necessità della comunicazione dell’avvio del procedimento, tra procedimenti preordinati al decreto d’espropriazione e procedimenti preordinati  all’occupazione d’urgenza.

I due istituti sono distinti: il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, previsto dalla legge fondamentale n. 2359 del 1865, per le opere di competenza statale e dalla legge n. 865 del 1971 (c.d. legge sulla casa) per le opere di competenza regionale, costituisce  il “normale”  procedimento espropriativo, e presuppone la validità di un altro distinto procedimento presupposto, la dichiarazione di pubblica utilità. Venendo a mancare tale dichiarazione, o essendo la stessa annullata per motivi di legittimità, l’attività espropriativa dell’amministrazione è sine titulo, perciò illecita, e dà luogo a risarcimento.

L’occupazione d’urgenza , prevista dall’art. 73 della legge n. 2359 del 1865 e dall’art. 20 della legge n. 865 del 1971, è  istituto autonomo rispetto all’espropriazione e presuppone una dichiarazione di indifferibilità ed urgenza alla realizzazione delle opere, che, come la dichiarazione di pubblica utilità nell’espropriazione, può essere dichiarata in apposito provvedimento, può essere implicita, può discendere direttamente dalla legge.

Al decreto di occupazione di urgenza, cui comunque deve seguire la materiale occupazione del fondo nel termine di 3 mesi dalla sua emanazione (6) e che non può protrarsi oltre 5 anni dall’immissione in possesso (art.14 L. 10/1977 che ha innovato l’art.20 della L. n. 1/1978), deve comunque seguire il decreto di espropriazione, cosicché l’occupazione d’urgenza si inserisce nel procedimento di espropriazione come un momento eventuale, ma strettamente collegato.

La dichiarazione di pubblica utilità, come ribadito dalla presente sentenza, può essere implicita nell’approvazione del progetto esecutivo (la delibera con cui si approva il progetto di ampliamento della strada da costruire) ed è procedimento il cui inizio  deve essere preventivamente comunicato agli interessati a pena di illegittimità del procedimento stesso. Nel caso di specie dichiarazione di pubblica utilità e dichiarazione di indifferibilità ed urgenza coincidono, ma l’obbligo di notifica sussiste solamente in relazione alla prima, come precisato dalla citata giurisprudenza.

Il  Consiglio di Stato, accertata così l’illegittimità del procedimento, conferma quanto disposto dal TAR e annulla gli atti espropriativi.

 

2.     La reintegrazione in forma specifica e il risarcimento del danno.

 

I ricorrenti, come conseguenza dell’annullamento, avevano richiesto in via principale la riduzione in pristino stato dei luoghi e la condanna allo restituzione del fondo, quale risarcimento in forma specifica (ai sensi dell’art. 35 del  D.lgs n.80/98 come modificato dall’art. 7 L.205/2000) ed in subordine la condanna al risarcimento dei danni.

Innanzitutto, il Collegio afferma la propria giurisdizione sul tema, negata dal giudice di primo grado, in quanto la giurisdizione esclusiva del g.a. prevista dall’art. 34 D.lgs. n.80/98, come modificato dall’art 7 L. n.205/2000, comprende “tutti gli aspetti del territorio e abbraccia, oltre agli atti, anche i comportamenti della P.A.”

Al giudice ordinario spettano, ai sensi del comma 3 dello stesso articolo, tutte le controversie in materia di indennità (escludendo i comportamenti della P.A.)  derivanti da atti di natura espropriativa od ablativa.

Sulla prima richiesta il Consiglio di Stato esclude la possibilità della riduzione in pristino e della restituzione del fondo.

E ciò non perché nel caso di specie sia applicabile la c.d. occupazione appropriativa da parte della P.A .

Tale istituto, di creazione giurisprudenziale, opera allorché la P.A., a seguito di un procedimento di espropriazione annullato per vizi di legittimità dal giudice amministrativo, acquista la proprietà del suolo stesso per il solo fatto della definitiva trasformazione del fondo, cioè della sua irreversibile destinazione al fine pubblico (7).

Nella sua prospettazione originale si parlava anche di “accessione invertita”, in quanto la regola codicistica dell’accessione (il proprietario del fondo acquista i beni costruiti da altri su di esso)  nella specie si inverte a favore della P.A. che ha iniziato l’opera pubblica.

La Corte Costituzionale n.188/95 (8) ha tuttavia specificato che il fondamento dell’istituto in questione non sta nella regola codicistica applicata a favore della P.A. proprietaria della costruzione su suolo altrui, ma dalla considerazione che “la perdita del bene da parte del privato si verifica perché la restituzione non è più giuridicamente possibile, a causa dell’acquisizione della natura pubblica da parte del bene….Si ha infatti una trasformazione così totale da provocare la perdita dei caratteri privatistici e della destinazione propria del fondo.”

L’occupazione appropriativa, in quanto attività illecita, dà luogo al risarcimento del valore venale del bene, diversamente dalla legittima espropriazione, che dà luogo ad indennità.

L’art 7 bis D.L. n.333/92, modificato dall’art 3 comma 65 L.662/96 ha previsto che nel caso di occupazione illegittima di aree edificabili, per causa di pubblica utilità, sia dovuto non il valore venale del bene ma un’indennità da calcolare secondo parametri previsti dall’art 5 bis della legge 359/92, rivalutati del 10%, venendo così a disciplinare di fatto due situazioni molto diverse - in un caso si ha attività illegittima, nell’altro legittima -  in maniera uguale (a tale proposito la Corte Cost. n. 148 del 30 aprile 1999 ha però negato un contrasto delle norme citate con la Costituzione)(9).

Perché operino tali disposizioni occorre  l’esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità – e tale non può considerarsi una dichiarazione annullata perché illegittima -, senza la quale l’opera non può qualificarsi pubblica

In tali casi si è al di fuori delle ipotesi contemplate dalle citate norme sull’occupazione appropriativa (10).

La sentenza del Consiglio di Stato in esame, rifacendosi a tale indirizzo giurisprudenziale, dopo aver annullato la dichiarazione di pubblica utilità per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, nega che nel caso si applichino le norme citate (proprio perchè mancante una valida dichiarazione di P.U.) e configura un illecito permanente a carico della P.A., che dà luogo ad integrale risarcimento del danno.

La riduzione in pristino è tuttavia concretamente impossibile, o quanto meno è divenuta eccessivamente onerosa per il debitore (ai sensi dell’art. 2058 c.c. sul risarcimento in forma specifica nel diritto civile che, comunque, costituisce il riferimento normativo generale per l’istituto de quo).

L’eccessiva onerosità prevista dall’art 2058 c.c. deve essere intesa nell’art. 35 del D.lgs n.80/98 come eccessiva onerosità per il pubblico interesse e per la collettività.

Il Consiglio di Stato richiama poi l’art 2933 c.c. sull’esecuzione forzata degli obblighi di non fare (“non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”). L’opera pubblica è stata infatti realizzata e l’interesse collettivo, da bilanciarsi con l’opposto interesse dei privati, sarebbe eccessivamente sacrificato dalla riduzione in pristino.

Tanto più che l’art. 35 prescrive che il g.a. dispone,  anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno, ponendosi in tal modo tale forma di ristoro del danno come una delle possibili forme di risarcimento, ed in ogni caso da accordarsi da parte del g.a. previa comparazione con i criteri sopra accennati, non ultimo il preminente interesse pubblico alla conservazione dell’opera.

 

3. Elementi soggettivi ed oggettivi  dell’illecito.

 

L’illecito della P.A. non è comunque conseguenziale alla dichiarata illegittimità dell’atto, ma va valutata la sussistenza nel caso di specie di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, dell’illecito, così come previsto dalla regola generale in materia di tutela aquiliana.

Per quanto attiene all’elemento soggettivo, la colpa della P.A - secondo quanto precisato dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n.500/1999 (11) sulla risarcibilità degli interessi legittimi, citata dal Consiglio di Stato in esame - è configurabile quando “l’adozione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.

Il Supremo Collegio Amministrativo ritiene tuttavia che tale indagine possa condurre unicamente all’accertamento del vizio di eccesso di potere (superamento dei limiti della discrezionalità esterna), vizio dell’atto, e non conduca ad un soddisfacente esame dell’elemento soggettivo dell’agente.

Il Consiglio di Stato, rifacendosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, a questo proposito introduce il concetto di scusabilità dell’errore da parte della P.A., che postula un accertamento sulla gravità della violazione.

Solo quando la violazione appare di una certa  gravità ed è addebitabile alla mancata diligenza nonché imperizia della P.A. potrà dirsi colpevole il comportamento della Amministrazione stessa.

La sentenza in epigrafe propone una distinzione nell’ordinamento tra violazioni “gravi” e violazioni “meno gravi”, ai fini della sussistenza della colpa, di non facile comprensione.

Vi è inoltre, nel criterio in questione, una inspiegabile commistione tra accertamento dell’elemento oggettivo (gravità della violazione) ed elemento soggettivo (accertamento della colpa), quasi che la sussistenza della colpa possa desumersi dal tipo di disposizione violata

Al contrario la giurisprudenza precedente alla sentenza n.500/99 della Cassazione, riferendosi all’attività illecita (quindi in violazione di diritti) della P.A., sosteneva che l’esecuzione volontaria dell’atto amministrativo in violazione di leggi e regolamenti che la P.A stessa è tenuta ad osservare in  forza del principio di imparzialità, legalità e buon andamento (at.97 Cost.) costituiva in ogni caso condotta colpevole (12).

Riguardo al requisito dell’ingiustizia del danno, il problema si pone sulla risarcibilità degli interessi procedimentali, la cui ammissibilità era stata posta in dubbio da più parti, in quanto non incidenti direttamente sul bene della vita oggetto del comportamento illegittimo della P.A.

Il Consiglio di Stato ribadisce però la portata sostanziale dell’interesse tutelato dall’art. 7 L.241/90, in senso conforme a quanto stabilito dalla prevalente giurisprudenza amministrativa.

 

3.     Il “quantum”  del risarcimento del danno

 

Ulteriore punto di interesse della sentenza riguarda, una volta accertato in senso positivo l’an del risarcimento, la determinazione del quantum dovuto.

Il Consiglio di Stato si avvale della possibilità, ai sensi dell’art. 35 D.lgs n. 80/98 come novellato dalla L. 205/2000, di fornire i “criteri” per la determinazione del risarcimento che la P.A. soccombente dovrà proporre all’avente titolo.

La figura in questione è stata da alcuni assimilata alla condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c (12).

Sul tema è intervenuto recentemente il Tar Veneto n.1107/2000 (14), che, alla richiesta di parte di condanna generica ex art. 278 c.p.c. della P.A., ha replicato che di fatto l’art 35 2° comma già contiene la previsione di una sorta di condanna generica, con la differenza che quest’ultimo impone al giudice di verificare, già in questo primo momento, la sussistenza in concreto del danno ingiusto lamentato e la sua attribuibilità al fatto dell’Amministrazione, riservando  la ulteriore fase alla  mera quantificazione.

Nella condanna prevista dall’art. 278 c.p.c., a parere di tale organo, il giudice si pronuncia  su un fatto ritenuto, secondo un giudizio di probabilità, potenzialmente produttivo di conseguenze dannose; giudizio che può tuttavia essere disatteso dal giudice della liquidazione, sia sull’esistenza ed entità del danno, sia sul nesso di causalità tra il fatto ed il danno stesso.

Il Tar conclude pertanto sancendo  la condanna della P.A., che potrà ristorare il danno patito dalla ricorrente con atti riparativi da porre in essere, in accordo con la controparte, alla conclusione del procedimento amministrativo in corso.

Allo stesso tempo il TAR Veneto indica, in via residuale, i criteri per la determinazione del danno sofferto, nel caso in cui lo stesso permanesse anche in seguito all’attività riparatoria della P.A..

Il Consiglio di Stato in epigrafe si spinge oltre, non solo formulando i criteri cui l’amministrazione soccombente deve adeguarsi nella proposta di risarcimento all’avente diritto, ma prevedendo altresì la costituzione di un collegio di consulenti tecnici che a tali criteri dovrà attenersi nella liquidazione del danno sofferto dai privati.

Tale possibilità è infatti prevista dall’art. 8 della L.205/2000, che abilita il g.a., nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, di avvalersi di tutti i mezzi di prova concessi dal codice di procedura civile

Tali criteri, per inciso, sono quelli già formulati dalla giurisprudenza in materia di illecita occupazione di fondi da parte della P.A., e precisamente:

1)risarcimento per il danno sofferto dalla privazione temporanea del terreno sine titulo, dovuti in una somma  corrispondente agli interessi legali calcolati sul valore venale del bene decorrenti dalla data della abusiva immissione in possesso alla data di ultimazione dei lavori; inoltre è dovuta una somma corrispondente agli interessi legali calcolati su una somma pari al valore venale della porzione di fondo occupata alla data dell’ultimazione dei lavori;

2)risarcimento del danno sofferto a causa della diminuzione di valore del fabbricato a causa della costruzione dell’opera pubblica, da calcolarsi in una somma pari al trenta per cento del valore del fabbricato;

3)risarcimento del danno derivante dall’occupazione a titolo definitivo, consistente in una somma pari al valore venale del bene.

 

4.     Cenni conclusivi

 

In conclusione, la presente sentenza conferma la tendenza, iniziata legislativamente col D.lgs n.80/98  e continuata con la L.205/2000, di ripartire la giurisdizione tra g.o e g.a. non più per posizioni soggettive fatte valere (interesse legittimo dinanzi al g.a. e diritto soggettivo dinanzi al g.o.), ma per blocchi di materie.

Nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva, inoltre, il giudice può estendere la sua cognizione ai comportamenti e alle prestazioni dell’amministrazione, non solo agli atti ed ai provvedimenti.

Bisogna aggiungere però che l’art. 7 comma 4 della citata L. n. 205/2000 ha ormai attribuito al g.a. la piena cognizione, nell’ambito della sua giurisdizione generale di legittimità, a conoscere di “tutte le questioni relative al risarcimento del danno…e agli altri diritti patrimoniali conseguenziali”, svuotando perciò di significato il riferimento, previsto al comma 1 della stessa legge, alla possibilità di risarcire il danno nelle materie di giurisdizione esclusiva (15).

 

 

NOTE

 

1)     Cass. sez. unite 4 nov.1994, n. 9130, in Giornale di Dir. Amm. 1995, pag. 55;

2)     TAR Lombardia Milano sez. II, 24 marzo 1998, n. 606;Cons. Stato sez. IV 27 nov. 1997 n. 1326, in Cons. Stato, 1997,  pag. 478 e ss.; Cons. Stato sez. IV 18 marzo 1999 n. 292, in Cons. Stato, 1999,  pag. 374.

3)     Cons. Stato Ad. Plen. 15 sett. 1999 n.14, in Cons. Stato,  pag. 1695 e ss.

4)     Cons. di Stato sez. IV 4 dic. 2000 n. 6485, in Cons. Stato pag. 2602 e ss.

5)     Cons. Stato Ad. Plen. n. 2 e 3 del 24 genn. 2000, in www.giustizia-amministrativa.it;

6)     Cass. Sez. Un. n. 2081/94;

7)     vedi U. Di Benedetto, in Manuale di Diritto amministrativo, pag. 794 e ss.;

8)     Corte Cost., 17-23 maggio 1995,  n. 188 in G.U. 31 maggio 1995, n.23, I serie speciale;

9)     Corte Cost. n. 148 del 30 aprile 1999, in www.diritto2000.it;

10)Corte Cost. cit.;

11)Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500, in www.diritto2000.it;

12)Cass.sez. Un. N.5361/84;Cass.civ. Sez. I n. 3293/94.

13)Claudia Miceli, Richieste di risarcimento danni nel processo amministrativo e la c.d. sentenza generica, in www.giust.it).

14)TAR Veneto sez. I, 17 febb. 2000, in www.giustizia-amministrativa.it;

15)vedi Marcello Clarich, introduzione al commento alla legge 21 luglio 200 n.205 di riforma del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; sull’argomento anche Pasquale De Lise, La nuova giurisdizione del giudice amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.

 

 


 

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