Il giudizio di proporzione, la legittima difesa militare: si ritorna
a Vincenzo Manzini? (Nota a Tribunale Militare di Torino 16 settembre 1998,
in materia di legittima difesa)
di Elena Ghizzo
Il caso
Un militare effettivo colpiva il proprio Caporale con un pugno al volto,
provocandogli un'infrazione alle ossa nasali. Veniva, pertanto, rinviato
a giudizio per il reato di lesioni personali aggravate per aver commesso
il fatto davanti a tre militari.
Dal dibattimento emergeva che l'imputato aveva cagionato tale lesione
solo dopo aver ricevuto tre spinte consecutive dal Caporale, tali da spintonarlo
contro l'armadietto della camerata.
Esaurita l'istruzione dibattimentale, il Pubblico Ministero chiedeva
la condanna dell'imputato alla pena di sei mesi di reclusione militare,
con la concessione delle attenuanti generiche e dell'attenuante della provocazione
ex art. 62 n. 2 c.p., ritenendole equivalenti alla contestata aggravante,
con l'attribuzione dei benefici di legge.
La difesa chiedeva l'assoluzione dell'imputato.
Il Tribunale assolveva l'imputato dal fatto ascrittogli per la sussistenza
della scriminante della legittima difesa militare.
Legittima difesa ordinaria e militare: tratti comuni e distinzioni
Un esame comparativo degli istituti previsti rispettivamente dagli artt.
52 c.p. e 42 c.p.m.p., impone preliminarmente di osservare che, malgrado
l'identità del nomen juris e di alcuni principi ispiratori, l'istituto
della legittima difesa ordinaria si distingue da quello operante nel diritto
penale militare per il più vasto ambito di applicazione.
Dalla mera lettura dei testi normativi è possibile, infatti,
cogliere, prima facie, tale portata se si considera che il codice Rocco,
diversamente dal legislatore penale militare, si è discostato dall'impianto
normativo previsto dal codice Zanardelli, estendendo la scriminante in
esame alla difesa di tutti i beni giuridici anche diversi dall'incolumità
personale.
Più dettagliatamente si può rilevare1 che il codice
penale vigente non solo ha dilatato l'applicabilità della causa
di giustificazione a tutti i diritti, ma ha anche sostituito al termine
"violenza" che compare nell'art. 42 c.p.m.p. la locuzione "pericolo attuale
di un'offesa ingiusta". Tale locuzione, peraltro, richiamando un concetto
di natura soggettiva, mal si addice al consorzio militare.
Ne discende che il legislatore del 1941 ha elaborato l'istituto de
quo strutturandolo con criteri diversi e dando vita a una disciplina che
si attaglia alle esigenze specifiche dell'ordinamento militare. La dottrina2
ravvisa, infatti, la ratio di quest'ultima nell'istanza di conservazione
della comunità statale. Si evince, pertanto, che l'art. 42 c.p.m.p.
risulta fortemente ispirato a criteri rigidi di comando e disciplina che
legittimano, in sede legislativa, un vaglio più oculato e rigoroso
di quello che si esplica in ordine alla legittima difesa comune.
Giova, peraltro, precisare che l'art. 42 c.p.m.p. assolve a una
funzione non solo integrativa, ma sostitutiva dell'art. 52 c.p., in quanto
in relazione ai reati militari il legislatore del 1941 non circoscrive
il suo intervento all'introduzione di deroghe alla disciplina comune, ma
regola ex novo l'istituto con note di specialità. Ne consegue che,
come autorevolmente sostenuto in ambito dottrinario3, la legittima difesa
militare si connota per essere una norma speciale rispetto all'omonimo
istituto previsto dal codice penale. Il principio cardine di tale disciplina
si riassume nel ragionamento secondo cui, quanto è consentito al
privato reagente nella sfera d'azione dell'art. 52 c.p. ponendo in essere
un reato comune, non è egualmente ritenuto lecito in ambito militare,
qualora quest'ultimo ponga in essere gli estremi di un reato militare.
Se, infatti, il fondamento della scriminante comune viene ravvisato
dalla dottrina contemporanea4 nella tesi della c.d. autotutela privata,
secondo la quale al privato, in deroga al principio del monopolio statuale
dell'uso della forza, viene garantita la facoltà di difendere tempestivamente
i propri beni giuridici minacciati da aggressioni ingiuste di terzi, nell'ambito
penale militare5, invece, il militare che reagisce in modo fulmineo a un'aggressione
realizzando un reato militare viola, al contempo, il vincolo di disciplina
che lo lega all'ordinamento castrense.
Degno di pregio è, altresì, l'orientamento6 secondo cui
nel nostro ordinamento la liceità dell'autotutela discende non solo
dall'incapacità dello Stato di garantire un'efficace tutela del
diritto minacciato, ma anche dalla sussistenza del requisito della proporzione
tra il danno provocato mediante l'azione difensiva e quello evitato.
Si deduce, quindi, che il fondamento della legittima difesa si identifica
nel principio del bilanciamento degli interessi. Si precisa, inoltre, che
il requisito della proporzione non comporta in via automatica l'illiceità
di una reazione dell'aggredito che cagioni all'aggressore un danno superiore
a quello minacciato, ma implica il divieto di reazioni difensive determinanti
un danno di gravità tali da risultare eticamente e socialmente intollerabile.
Premesse queste osservazioni, si può procedere a una disamina
analitica dei requisiti dell'aggressione e della reazione difensiva previsti
rispettivamente dalle cause di giustificazione in esame.
Anzitutto occorre evidenziare che, mentre l'art. 52 c.p. richiede che
oggetto dell'aggressione sia un diritto in senso lato, legittimando così
la tutela non solo di diritti inerenti alla personalità, ma anche
di diritti patrimoniali, l'art. 42 c.p.m.p. esige che oggetto dell'attacco
sia esclusivamente il diritto alla vita o all'integrità fisica.7
In dottrina8 si è, altresì, sostenuto che, a sostegno
dell'opportunità di circoscrivere l'oggetto della legittima difesa
militare, la formula generica "un diritto" potrebbe risultare eccessiva
comprendendo non solo un diritto patrimoniale, ma anche lo stesso diritto
all'onore. Ne consegue che se il superiore insultasse un suo inferiore,
costui sarebbe posto, per ciò stesso, in stato di legittima difesa,
e non sarebbe punibile se reagisse insultando a sua volta il superiore,
compiendo così un'azione penalmente proporzionata all'azione del
superiore. Si è osservato, peraltro, che se questo trattamento può
ritenersi lecito in diritto comune, dove l'ingiuria e la sua ritorsione
importano una contesa di carattere privato, non altrettanto può
sostenersi in diritto militare, ove al di sopra della difesa sta la disciplina
militare che deve prevalere su ogni altro interesse.
In proposito si è, peraltro, contestato9 che l'ingiuria non
appare riconducibile all'ambito della legittima difesa. Si specifica, infatti,
che reagire all'ingiuria o a qualunque aggressione con l'ingiuria non è
difendersi, perché l'ingiuria non ha alcuna attitudine di carattere
difensivo. Non a caso il legislatore comune ha sentito il bisogno di configurare
apposite scriminanti per simili situazioni. Si tratta della ritorsione
e provocazione ex art.599 c.p. e altrettanto ha previsto il legislatore
militare in ordine ai rapporti tra militari ex art. 228 c.p.m.p..
E' dato, altresì, rilevare che in ordine alle modalità
di aggressione, mentre nell'ambito del diritto penale comune l'attacco
può manifestarsi anche con l'uso di mezzi non violenti e persino
con atteggiamenti passivi, il legislatore militare richiede, invece, un
contegno attivo e violento.
La nozione giuridica di violenza è poi fornita dall'art. 43
c.p.m.p., il quale, ricomprendendo sotto la denominazione di violenza una
serie di reati contro l'incolumità personale, ha inteso restringere
il significato concettuale di violenza alle ipotesi in cui si assiste alla
lesione del diritto alla vita o all'integrità fisica. Tale definizione
giuridica è, quindi, diversa da quella del codice penale comune,
ove l'espressione risulta polivalente. Il codice Rocco ha, infatti, previsto
sia l'ipotesi di violenza propria che impropria.10
Quanto all'ingiustizia e all'attualità il codice penale militare
di pace richiama quanto previsto nel codice penale comune, anche se occorre
porre in rilievo alcune chiose.
Se da un lato il concetto di ingiustizia può riferirsi a quanto
sostenuto generalmente dalla dottrina penalistica, il concetto di attualità
va riferito non a un pericolo di offesa, ma a una violenza in atto, ovvero
presente al momento del fatto reattivo.
La dottrina11 ha, quindi, riconosciuto che l'attualità va stabilita
in rapporto a un materiale comportamento dell'aggressore, anziché
in rapporto a un mero pericolo.
Tale osservazione, implicante una contrazione del potere discrezionale
del giudice, ha sollevato l'emanazione da parte del Tribunale militare
di Padova di due ordinanze volte a denunciare l'illegittimità costituzionale
dell'art. 42 c.p.m.p., per contrasto con gli artt. 2-3 Costituzione, nella
parte in cui delinea la difesa legittima come necessità di respingere
una violenza attuale e ingiusta e non di reagire al pericolo attuale di
un'offesa ingiusta, come invece consente l'ordinamento penale comune.
La Corte Costituzionale,12 con sentenza interpretativa di rigetto,
ha respinto, tuttavia, l'eccezione ritenendola non fondata, in quanto ha
riconosciuto di non poter individuare la ratio della legittima difesa militare
nello status del militare, che si vorrebbe esposto al pericolo per dovere
di istituto. La Corte Costituzionale ha, dunque, ritenuto più coerente
al disposto normativo l'interpretazione secondo cui il legislatore militare,
ritenendo eccessiva la formula del codice penale comune, ha optato per
la soluzione adottata dal codice Zanardelli, che prevedeva la scriminante
solo in relazione alla necessità di respingere da sé o da
altri una violenza attuale e ingiusta.
Il giudice delle leggi ha, pertanto, riconosciuto che nella nozione
di violenza prevista dall'ordinamento penale militare è insito l'elemento
normativo del pericolo. Ne consegue che, chi respinge una violenza attuale
e ingiusta diretta a sopprimere il bene giuridico vita, respinge in concreto
il pericolo dell'offesa alla propria vita.
Degna di rilievo appare, altresì, la teoria elaborata di recente
dalla dottrina della c.d. "azione che si sta verificando", secondo la quale
non ricorre il requisito dell'attualità della violenza se l'azione
si è già verificata.
La Corte Costituzionale ha, pertanto, rimarcato come il requisito dell'attualità
agevoli la risoluzione delle ipotesi in cui di fatto si può manifestare
l'effettività della violenza. A titolo esemplificativo, si cita,
infatti, l'ipotesi di colui che aggredito con una percossa, qualora dovesse
attendere, prima di reagire, una rappresentazione chiara dell'attacco,
verrebbe a subire una negazione del suo diritto di autodifendersi. Appare,13
infatti, evidente che appoggiare un'interpretazione letterale del requisito
dell'attualità della violenza, legittimerebbe solo una reazione
tardiva e quindi inefficiente, in quanto si consentirebbe la reazione difensiva
solo nel momento in cui si concreta il materiale comportamento dell'aggressore.
Alla luce di quanto esposto, il giudice delle leggi ha dichiarato che
sarà onere del giudice di merito tener conto, secondo "l'id quod
plerumque accidit", nell'ambito di un episodio litigioso, proprio di quegli
atteggiamenti aggressivi che rappresentano il momento scatenante dell'azione
violenta.
Si può, quindi, affermare che l'attualità ex art. 42
c.p.m.p. è riconducibile a quella dell'art. 52 c.p..
Ne discende che pressoché unanime è l'auspicio,14 de
iure condendo, di abolizione dell’art. 42 c.p.m.p. ed esclusiva applicazione
dell’art. 52 c.p., in forza dei suggerimenti dottrinari,15 accolti dalla
Corte Costituzionale, tesi a introdurre dei temperamenti al rigore dell'attualità
militare, onde includere nella nozione di attualità anche quella
di imminenza. La stessa giurisprudenza16 è stata del resto sempre
molto attenta e incline a un'interpretazione volta a scemare le differenze
con la causa di giustificazione comune.
Si deve sottolineare, altresì, che in relazione all'art. 52
c.p. la giurisprudenza,17 sotto la scorta della dottrina prevalente,18
ravvisa il pericolo attuale in due classi di ipotesi costituite sia da
quelle in cui la verificazione del danno cui si riferisce la situazione
di pericolo appaia imminente, che da quelle in cui l'aggressione sia già
iniziata e sia ancora in corso di attuazione, ove la difesa si connota
per essere funzionale a evitare ulteriori eventi dannosi.
In entrambe le fattispecie l'azione difensiva è diretta a scongiurare
un danno che non si è ancora verificato o che non ha raggiunto tutta
la sua estensione.
L'esegesi della locuzione "pericolo attuale", così delineata,
consente di circoscrivere il concetto di "attualità" del pericolo,
ai soli casi in cui la verificazione del danno sia imminente o già
in atto.
Per apparire attuale il pericolo deve risultare inevitabile in se stesso,
perché altrimenti non sorgerebbe la necessità di difesa.
Il pericolo non attuale, infatti, non è inevitabile, perché
contro di esso si può invocare la tutela dello Stato in una delle
tre forme eventuali della potestà di polizia, disciplinare o giurisdizionale.
L'aggredito, invero, ha l'obbligo di contenersi in modo conforme alla polizia,
finché la tutela dello Stato può essere da lui invocata,
qualora, invece, non sia possibile tale eventualità l'unico limite
alla reazione è quello della proporzione.19
Quanto rilevato si giustifica considerando che, al di fuori di tali
situazioni, il soggetto in pericolo avrebbe la possibilità di rivolgersi
all'autorità per ottenere protezione. A favore di tale interpretazione
si schierano, altresì, ragioni di politica-criminale, in quanto
a fronte di un'incapacità dello Stato di intervenire con tempestività,
onde prevenire la commissione di reati, non può concedersi un ampliamento
delle facoltà di autotutela riconosciute ai privati.
Si puntualizza, inoltre, che la dottrina dominante20 utilizza, in relazione
al giudizio di probabilità dell'evento, il criterio della prognosi
postuma, secondo cui occorre chiedersi se un uomo medio, idealmente posto
nella medesima situazione in cui si è trovato l'agente, avrebbe
ritenuto probabile la verificazione dell'evento sulla base delle circostanze
conoscibili al momento dell'azione, integrate eventualmente da quelle di
fatto conosciute dall'agente concreto.
In ordine, invece, al requisito dell'ingiustizia dell'offesa si rileva
che, mentre un'impostazione conservatrice richiedeva che l'offesa fosse
ingiusta, cioè recata contra ius21 e quindi in violazione di una
norma di divieto, la dottrina oggi prevalente22 ritiene sufficiente che
l'offesa sia sine iure, cioè senza giustificazione ovvero senza
un titolo legittimante.
Venendo ora all'esame comparativo dei requisiti della reazione, si
deve rilevare anzitutto che a fronte del pericolo attuale di offesa e della
violenza attuale indicati dagli artt. 52 c.p. 42 c.p.m.p., si prevede rispettivamente,
a livello normativo, la necessità di difendere il diritto minacciato
e la necessità di respingere una violenza.
Si può, quindi, riconoscere che anche per la legittima difesa
militare il legislatore esige che la reazione risponda ai requisiti della
necessità e della proporzionalità.
La necessità implica l'impossibilità di scegliere tra
più soluzioni e impone la valutazione in concreto della situazione,
al fine di considerare tutte le circostanze del caso singolo: circostanze
di luogo, di persona o attinenti al tipo di aggressione.23
Il legislatore militare non ha ritenuto opportuno derogare, in ordine
a tale requisito, quanto previsto in sede di legittima difesa comune, anche
se, a un'analisi accurata del dettato dell'art. 42 c.p.m.p., non può
non rilevarsi che nell'ambito militare l'eventualità della fuga
assume connotati diversi rispetto a quanto previsto dall'art. 52 c.p..
La dottrina24 ha, infatti, riconosciuto che in relazione alla legittima
difesa comune la fuga può in determinate situazioni avvenire senza
pregiudizio alcuno per la dignità del privato, non altrettanto può
affermarsi con riguardo all'ipotesi in cui il soggetto in fuga sia un militare.
Tale comportamento cozza, infatti, con le regole dell'etica militare e
con il sentimento dell'onore. La ritirata viene interpretata, quindi, come
un cedimento dell'autorità di fronte alla violenza.
Ne discende, pertanto, che nell'ambito del diritto penale militare
per la dottrina, fuori del caso in cui l'offesa possa essere evitata con
un commodus discessus, la persona aggredita non è tenuta a fuggire.
Merita, peraltro, di essere precisato25 che nella legittima difesa
militare, il c.d. prestigio della divisa emerge sia nel caso in cui il
militare aggredito fugga, sia quando reagisca. Se fugge dà l'impressione
di essere codardo, se reagisce nuoce al prestigio della divisa, offendendo
l'incolumità personale di un altro militare, spesso di un superiore
gerarchico, e comunque ledendo più in generale gli interessi della
disciplina o del servizio.
Deve ritenersi, peraltro, che la qualità di militare di entrambi
i soggetti instauri una parità di condizioni personali e stabilisca
tra i soggetti un rapporto analogo a quello esistente tra i privati. E'
possibile, quindi, risolvere il problema del commodus discessus in chiave
analoga a quella adottata nel diritto penale comune.
Tale orientamento interpretativo si discosta, tuttavia, da quella dottrina26
che rileva che il giudice nella valutazione della possibilità di
evitare l'offesa diversa dalla reazione difensiva, deve tener conto che
al militare incombono doveri di dignità e onore che gli vietano,
sotto il profilo etico, di sottrarsi alla violenza con la fuga o altro
mezzo meno lesivo della dignità, dell'onore e del prestigio. Ne
consegue che non appare condivisibile far discendere dall'equiparazione
testé citata, un trattamento analogo a quello esistente tra i privati.
Anzi, tali doveri di natura etica consentono di delineare diversamente
la posizione del militare rispetto a quella del cittadino comune, nel senso
di prevedere per il militare un obbligo ulteriore, in quanto non potendo
fuggire non avrebbe potuto nemmeno adeguatamente difendersi.
In realtà, a seguito dell'intervento della Corte costituzionale
richiamato, si osserva27 che il tema della maggiore ristrettezza del commodus
discessus per il militare andrebbe ridefinito con toni meno marcati, stante
la recente normativa disciplinare che ha circoscritto anche sotto questo
profilo gli obblighi del militare, in forza della constatazione che nelle
ipotesi di legittima difesa militare l'aggressore è di regola un
militare e che pertanto tra i contendenti si innesta un rapporto analogo
a quello tra i privati.
Certo è che la dottrina maggioritaria28 ritiene che la necessità
difensiva implichi l'inesistenza di alternative lecite idonee a eliminare
il pericolo.
Si richiede, pertanto, che la condotta sia stata in grado di neutralizzare
il pericolo di offesa contro cui si reagiva, si impone, altresì,
che il pericolo non poteva essere evitato mediante una condotta alternativa
lecita, né mediante un contegno meno lesivo di quello in concreto
tenuto. Si esige, quindi, l'inevitabilità altrimenti del pericolo,
pretendendo che il soggetto aggredito non possa evitare il pericolo se
non attraverso quel fatto offensivo29.
La condotta difensiva deve connotarsi, tra quelle praticabili, per
la minore lesività, a parità di efficacia difensiva e rischi
per l'aggredito30. Questo principio è accolto dalla giurisprudenza
unanimemente, la quale però ricava tale carattere dal requisito
della proporzione. Tale disamina invita il giudice ad appurare tutte le
circostanze della situazione concreta comprese la maggiore o minore prestanza
fisica e prontezza di riflessi sia dell'aggressore che dell'aggredito.
Si osserva, altresì, che mentre la dottrina più recente,31
seguita dalla giurisprudenza,32 considera la tutela dell'onore non più
sufficiente a giustificare la lesione di beni di primaria importanza dell'aggressore,
qualora tale offesa possa essere evitata senza alcun rischio personale
per l'aggredito mediante il mero allontanamento, una tesi risalente33 distingueva
la possibilità di evitare lo scontro attraverso una ritirata non
vergognosa, da quella definita "turpis fuga", rappresentata da un contegno
disonorevole per la collettività.
Ne consegue che, in ossequio a tale premessa, la giurisprudenza meno
recente,34 distinguendo la fuga dal c.d. commodus discessus, riconosceva
che quest'ultimo, consistendo in una ritirata agevole e sicura, oltre che
lecito era doveroso, in quanto chi si comportava diversamente, accettava
implicitamente il pericolo, ma non si difendeva per necessità. La
doverosità del discessus viene meno solo quando esso comporti per
l'aggredito un rischio sproporzionato rispetto a quello che la condotta
difensiva comporterebbe a carico dell'aggredito.
Merita, altresì, di essere sottolineato che per tale dottrina35
è necessario non solo valutare i mezzi adoperati dal reagente, ma
anche la personalità dei soggetti. Tale precisazione si giustifica
se si considera che quanto risulta lecito nei rapporti personali può
divenire eccessivo o illecito, quando tra aggredito e aggressore intercorrono
vincoli di natura etica o giuridica. Tale è il caso della relazione
che intercede tra un superiore gerarchico e l'inferiore nell'ambito del
consorzio militare.
Quanto al requisito della proporzione si rinvia all'analisi esposta
analiticamente nel paragrafo dedicato al giudizio di proporzione.
Da ultimo, merita di essere sottolineato che tra i requisiti della
reazione difensiva, vi è in dottrina36 chi ritiene necessario un
ulteriore carattere della difesa rappresentato dalla involontarietà
del pericolo.
Si tratta, peraltro, di una soluzione controversa, stante la mancata
espressa formulazione da parte del legislatore di tale requisito.
La previsione dell'estremo in esame in via interpretativa viene, tuttavia,
giustificata con diverse motivazioni.
Anzitutto si argomenta che la volontaria causazione del pericolo farebbe
venir meno la necessità della condotta difensiva, che presuppone
l'assenza di qualsiasi nesso eziologico con il fatto proprio dell'imputato.37
In secondo luogo in tali fattispecie verrebbe meno la costrizione della
condotta, in quanto la necessità difensiva è stata non subita
dal soggetto, ma cagionata con il proprio comportamento volontario.38
Infine, secondo un punto di vista sostenuto prevalentemente in giurisprudenza,39
la legittima difesa richiederebbe l'elemento soggettivo dell'animus defendendi,
che risulta, peraltro, incompatibile con l'atteggiamento di colui che provoca
l'altrui azione aggressiva o si espone volontariamente al pericolo di una
tale aggressione.
L'orientamento interpretativo giurisprudenziale richiamato non è,
tuttavia, condiviso dalla dottrina prevalente,40 secondo la quale l'esclusione
della scriminante nell'ipotesi di volontaria causazione del pericolo appare
un residuo storico del principio del "versari in re illicita", secondo
cui chi con il proprio comportamento volontariamente si espone all'aggressione
altrui sarebbe tenuto a subire tutte le conseguenze che ne discendono,
salvo quelle che appaiono del tutto imprevedibili ex ante.
Note
1 Manassero A., "I codici penali militari", Milano, 1951, p.134
2 Venditti R., "Il diritto penale militare nel sistema penale italiano",
Milano, 1997, p.155
3 Venditti R., op. cit., p. 157
4 Fiandaca G. - Musco E., "Diritto penale", pt. gen. Bologna, 1989,
p. 245; Padovani T., "Diritto penale", 1995, p. 497; Santamaria D., "Lineamenti
di una dottrina delle esimenti", Milano, 1961, p. 277; Romano M., Commentario
sistematico, I, art.52, p.519
5 Venditti R., op. cit., p. 156
6 Grosso C.F., " Difesa legittima e Stato di necessità", 1964,
p.305
7 Grosso C. F., "Legittima difesa", in Enc. dir. XXIV, 1974, p.27;
Altavilla, "Difesa legittima" in Noviss. Dig. Ital. V, 1960, p.619; Marini,
"Lineamenti del sistema penale", Torino, 1993, p.387
8 Manassero A., op. cit., p.134
9 Venditti R., op. cit., p. 160
10 Antolisei F., "Manuale di diritto penale", pt. gen., Milano, 1996,p.134;
Marini, "Delitti contro la persona", Torino, 1993, p.277
11 Venditti R., op. cit., p. 161
12 Corte Cost. 03.06.1987 n. 225, in Giur Cost. 1987, I, p.1703
13 Brunelli- Mazzi, "Diritto penale militare", II ediz., Milano, 1998,
p.118
14 Maffei C., "Difesa legittima nel diritto penale militare", in Digesto
Disc. pen., Torino, III,1989, p.515
15 Demalde, "La legittima difesa nel codice penale comune e nel codice
penale militare di pace", in Riv. pen., 1947, p. 622; Scagliola, "La legittima
difesa secondo l'art. 42 c.p.m.p." in Arch. pen., 1962, I, p.53
16 T.S.M. 24.04.1979, R.G.M. 1979, 330
17 Cass. 28.01.1991, C.E.D. 187110; Cass. 10.02.1984, C.E.D. 166201;
Cass. 24.11.1984, C.E.D. 168982
18 Mantovani F., "Diritto penale", pt.gen., Padova, 1992, p.267
19 Manzini V., "Trattato di diritto penale", Torino, 1981, p. 405
20 Mantovani F., op. cit., p. 271; Altavilla, "Difesa legittima", NsD,
V, 1960,626
21 Manzini V., op. cit., p. 399
22 Fiandaca G.- Musco E., op. cit., p.249; Mantovani F., op. cit.,
p. 268; Bettiol, "Diritto penale", Padova, 1982, p. 342
23 Mantovani F., op. cit., p. 270
24 Antolisei F., "Manuale di diritto penale", pt.gen., Milano, 1996,
p. 165
25 Venditti R., op. cit., p. 166
26 Maffei C., op. cit., p. 518
27 Brunelli-Mazzi, op. cit., p. 120
28 Fiandaca G.- Musco E., op. cit., p. 249; Mantovani F., op. cit.,
p. 270
29 Mantovani F., op. cit., p. 271
30 Padovani T., "Difesa legittima", Diritto penale, III, 1989, 510
31 Mantovani F., op. cit., p. 270
32 Cass. 25.05.1993, C.E.D. 195857
33 Manzini V., op. cit., p.406
34 Cass. 23.10.1967 in Cass. pen. Mass. 1968, 1054
35 Manzini V., op. cit., p. 408
36 Grosso C. F., "Legittima difesa" in Enc. dir., XXIX, Milano, 1974,
p.27
37 Manzini V., op. cit., p. 408; Cass. 26.10.1990, C.E.D. 186660; Cass.
17.10.1986, C.E.D. 174309
38 Padovani T., "Difesa legittima", Diritto penale, III, 1989, p.497;
Cass. 04.05.1992, C.E.D.190565
39 Cass. 14.12.1992, C.E.D. 129791; Cass, 12.11.1990, C.E.D.186295;
Cass. 26.11.1982, C.E.D. 157873
40 Padovani T., "Difesa legittima ", Dir. pen., III, 1989,497; Romano
M., in Commentario sistematico I, art. 52, p. 523
Giudizio di proporzione
Strettamente connesso alla necessità di difendersi è il
requisito della proporzione tra offesa e difesa.
Si tratta di un estremo normativo, costitutivo della scriminante in
esame, non previsto dal codice Zanardelli e introdotto dal codice Rocco,
al fine di controbilanciare la scelta decisamente innovativa dei compilatori
di ampliare la portata dell'esimente, estendendola alla difesa dei diritti
patrimoniali.
L'innovazione si ravvisa ove si consideri che la tradizione giuridica
riconosceva la causa di giustificazione in parola, solo nei casi di violenza
alla persona o di aggressioni al domicilio e al patrimonio alle quali fosse
correlato anche un pericolo per la vita o l'incolumità individuale.
Ne conseguiva che determinante, ai fini della configurazione della
legittima difesa, era la lesione di un diritto personale.
L'ampliamento della sfera dei diritti oggetto di possibile autotutela
richiedeva, peraltro, l'introduzione di un limite alla reazione difensiva
e più in particolare di uno sbarramento al principio per cui l'aggressore
avrebbe dovuto sopportare tutti gli effetti derivanti dalla propria condotta
illecita.
Tale previsione si giustificava con il riconoscere carattere prioritario
all'istanza generale della società al rispetto di un giudizio di
equilibrio tra l'offesa e la difesa, subordinando così a tale esigenza
l'interesse particolare dell'aggredito concretantesi nel principio individualistico
del "versari in re illicita".
E' necessario, peraltro, puntualizzare quanto autorevolmente sostenuto
dalla dottrina,1 secondo cui ciò che è consentito nella legittima
difesa comune al privato che reagisce a un'aggressione configurando gli
estremi di un reato comune, non può essere ugualmente consentito
al militare che reagisce ponendo in essere un reato militare.
La ratio di tale trattamento diversificato si evince considerando che
il militare che si difende realizzando un fatto concreto conforme al tipo
di un reato militare, viola, al contempo, il vincolo di disciplina che
lo lega all'ordinamento militare e qualora l'aggressione sia posta in essere
da un superiore gerarchico viola anche i doveri derivanti dal rapporto
di subordinazione.
La dottrina ha, tuttavia, rilevato che, relativamente al significato
concettuale di tale requisito, la disciplina dettata dall'art. 52 c.p.
non subisce deroghe nel sistema penale militare, stante la corrispondente
formulazione legislativa.
Ne consegue che la giurisprudenza militare,2 in conformità a
quanto osservato dalla dottrina segue, in tema di valutazione della proporzione,
la giurisprudenza di legittimità.3
Questo precisato, l'analisi degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali
consente di riconoscere che non vi è concordia tra dottrina e giurisprudenza
in ordine al significato attribuito al giudizio di proporzione e che lo
stesso risulta mutevole in corrispondenza del mutare dei tempi e quindi
della relativa sensibilità giuridica.
Appare, pertanto, necessario ai fini di una trattazione che sia il
più possibile esauriente, procedere a un excursus in chiave storica
dell'interpretazione dell'art. 52 c.p. fornita dalla dottrina con l'entrata
in vigore del codice Rocco.
Si può, dunque, preliminarmente osservare che a lungo la proporzione
tra offesa e difesa è stata intesa come proporzione tra mezzi e
in particolare tra mezzi usati dall'aggredito e mezzi a sua disposizione.4
Ne discende che per calibrare l'adeguatezza o l'eccessività
della difesa, e quindi per valutare se la reazione difensiva sia stata
proporzionata o eccessiva rispetto all'aggressione patita, non si deve
procedere a una comparazione tra il male subito o che vi era pericolo di
subire e quello inflitto per reazione. Il confronto deve essere, invece,
instaurato tra i mezzi reattivi che l'aggredito aveva a propria disposizione
e i mezzi da lui adoperati.
La giurisprudenza risalente ha, quindi, accolto tale impostazione riconoscendo
che, quando la reazione viene esercitata con i soli mezzi che l'aggredito
ha a sua disposizione, ricorre la legittima difesa qualunque evento dannoso
abbia risentito l'aggressore.5
In realtà, secondo quanto sostenuto autorevolmente,6 il significato
reale dell'interpretazione in chiave di proporzione tra i mezzi è
di superare l'equilibrio tra i beni giuridici, assicurando all'aggredito
il diritto di difendere qualunque suo interesse, anche patrimoniale, con
una qualsiasi azione difensiva, anche più lesiva per l'aggressore,
qualora fosse l'unica consentita dalla situazione di fatto.
In proposito, si rileva, tuttavia, che ben altra è la realtà
legislativa. Tale dottrina afferma, infatti, che l'evoluzione storica e
soprattutto il tenore letterale della legge impongono di concepire l'elemento
della proporzione come un giudizio che intercorre tra gli interessi dell'aggredito
e dell'aggressore.
Malgrado quanto appena osservato, la giurisprudenza ha con successo
recepito tale criterio di proporzione, riconoscendo che nella legittima
difesa la proporzionalità si riferisce all'entità dell'offesa
e non all'importanza del diritto leso. Il rapporto che il giudice deve,
quindi, istituire per accertare l'adeguatezza o l'eccessività della
difesa va compiuto non tra il male minacciato e inflitto, bensì
tra i mezzi reattivi che l'aggredito aveva a disposizione e i mezzi adoperati,
perché di fronte alla violenza dell'offesa minacciata la qualità
del diritto posto in pericolo è irrilevante.7
Nella Relazione al Re viene, invero, espressamente affermato che la
difesa deve essere proporzionata all'entità dell'offesa e non necessariamente
all'importanza dell'interesse che si vuole difendere.8
Si tratta di un orientamento che abbraccia l'insegnamento della giurisprudenza
tedesca, secondo cui non è necessario un calcolo del bilanciamento
dei beni, in quanto opera quale limite della difesa non il valore dei beni
giuridici confliggenti, bensì l'intensità dell'aggressione.9
Merita, peraltro, di essere segnalato che il criterio della proporzione
dei mezzi, se risulta indiscusso nelle ipotesi in cui sia in gioco la vita
dell'aggredito, dà adito, viceversa, a riserve e perplessità
qualora il conflitto avvenga tra un bene patrimoniale e la vita umana.
In tali casi si richiede, infatti, non l'uso dei mezzi che si hanno
a disposizione, ma un comportamento che sia ispirato a una valutazione
civica della personalità dell'aggressore. La validità di
tale orientamento appare, pertanto, compromessa se si tiene conto dei limiti
in cui incorre nella risoluzione dei casi pratici. Viene, pertanto, ribadito
che l'aggredito deve adoperare il mezzo meno lesivo. Ne discende che la
legittimità della reazione dovrà escludersi, qualora si accerti
che ben si poteva adottare un contegno più moderato.10
Come corollario di questa premessa, si deduce che non si ritiene legittimo
il ricorso alla violenza, quando chi è aggredito nella persona avrebbe
potuto evitare una reazione difensiva con un commodus discessus che gli
avrebbe consentito di respingere ogni pericolo.
In termini più generali, si può convenire che è
onere dell'aggredito adottare, a fronte dell'aggressione, un comportamento
prudente, ispirato a come si regolerebbe ipoteticamente la forza pubblica
nell'impedire l'arbitrio dell'aggressore.
Si impone, quindi, l'esigenza di accertare la sussistenza del requisito
della proporzione, in quanto qualora, per colpa del reagente, la reazione
difensiva risulti esorbitante rispetto alla necessità di difendere
un diritto proprio o altrui, contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta,
sarà configurabile un'ipotesi di eccesso colposo nella legittima
difesa ex art. 55 c.p.. |