Dottrina
Le Avvocature pubbliche fra questioni nuove e nodi irrisolti.
(sottotitolo: Il valore delle fonti, la Cassazione e la Corte dei Conti)

di Antonella Trentini**

L’occasione per una riflessione su alcuni temi “irrisolti” involgenti le Avvocature pubbliche nasce dai recenti pareri del giudice contabile in merito al diritto al rimborso per i dipendenti avvocati della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo.
I pochi i precedenti sull’argomento portano, chi decida di addentrarvisi, a ragionare sul valore delle “fonti” del diritto, sulle funzioni nomofilattiche degli organi giurisdizionali e consultivi e sulla attribuibilità di tali funzioni nomofilattiche.
In particolare, alcune Corti dei Conti* italiane hanno espresso pareri con riguardo al diritto al rimborso per i dipendenti avvocati della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo, contrastanti con quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, intervenuta sia con la specifica Sezione Lavoro* che con le Sezioni Unite*.
La caratteristica fondamentale dell’avvocato dipendente di una pubblica amministrazione è l’esercizio “limitato” della professione. Tale fatto comporta alcune conseguenze di ordine pratico fra cui l’esistenza presso ogni Consiglio dell’Ordine dell’Avvocati un “elenco speciale”, in cui vengono inseriti gli avvocati dipendenti. Ciò sta a significare che un avvocato dipendente non può svolgere alcun tipo di attività libero-professionale se non per l’Ente che lo ha iscritto.
Questa è una importantissima linea di demarcazione e differenzia l’avvocato rispetto a tutti gli altri professionisti che prestano la loro attività come dipendenti di una pubblica amministrazione. E’ noto che ingegneri, architetti, geologi, commercialisti, ecc., iscrivendosi all’albo relativo, possono esercitare anche attività libero professionale previa autorizzazione da parte del datore di lavoro; allo stesso modo, mediante l’istituto del part time queste categorie professionali possono svolgere attività libero professionale. Tutto ciò agli avvocati dipendenti è precluso, intervenendo gli Ordini forensi a far sancire il divieto con legge 339/2003, salvato dalla Corte Costituzionale sia nel 2006 che recentemente nel marzo del 2009.
La questione non è di poco conto. Ma se ne è preso atto da tempo.
Di recente sta emergendo invece un monstrum giuridico perché introdotto in malam partem da “pareri” di alcune Corti dei Conti, con riguardo al tema in oggetto (Corte Conti Sez. Controllo Emilia-Romagna, parere n. 10/2009; Corte Conti Piemonte, parere n. 2/2007; Corte Conti Basilicata, parere n. 12/2007), su cui è necessario riflettere su basi scientifiche.
L’orientamento di natura “consultiva” espresso dalle citate Corti dei Conti si scontra con l’orientamento di natura “nomofilattica” espressa dalla Cassazione (Cass. S.U., n. 3928/2007) e dai giudici di merito (Trib. Torino, n. 4549/2001; Corte Appello Torino, n. 338 /2003).
Poiché si è in presenza di decisioni difformi su un medesimo tema, occorre ragionare sul valore delle fonti, nonché sui principi costituzionali di uguaglianza e di capacità economica e contributiva fra medesime professioni.
Il caso “nasce” nel 2007, poiché a distanza di un solo mese la Corte di Cassazione aveva sancito che “il pagamento della quota annuale di iscrizione del legale pubblico dipendente all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell’interesse esclusivo del datore di lavoro è rimborsabile dal predetto ente” (sent. n. 3928 del 20 febbraio 2007). Al contrario, la Corte dei Conti – Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, con un parere del 29 marzo 2007 (n. 2), aveva ritenuto che “il pagamento della quota annuale di iscrizione del legale pubblico dipendente all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell’interesse esclusivo del datore di lavoro non è rimborsabile dal predetto ente”.
Recentemente, il 28 aprile 2009, con parere n. 10, la Corte dei Conti – Sezione regionale di Controllo per l’Emilia-Romagna ha continuato nel solco anzidetto, precisando che poiché “gli strumenti di contrattazione collettiva non hanno mai previsto alcun specifico onere a carico dell’amministrazione e in assenza di espresse disposizioni di legge sul punto”, la corresponsione di tale contributo grava sul dipendente.
Come coniugare conclusioni così diverse fra loro, sia con riguardo alla forza del provvedimento che alla gerarchia delle fonti del diritto?
Qual è il “peso” di tali pronunciamenti cui l’Ente deve uniformarsi, senza correre rischi? 
Innanzi tutto vi è da precisare che la funzione consultiva delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti è prevista dall’art. 7, comma 8, della Legge n. 131 del 2003 che, innovando nel sistema delle tradizionali funzioni della Corte dei conti, dispone che le regioni, i comuni, le province e le città metropolitane possano chiedere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti “pareri” in materia di contabilità pubblica.
Dunque, la previsione normativa della funzione consultiva attribuita alla Corte dei Conti non trova allocazione in una previsione costituzionale, ma è inserita in una legge ordinaria e si inserisce in un procedimento amministrativo, vale a dire quello avviato da uno fra gli enti elencati e uno o più propri dipendenti (com’è il caso di specie), nella cui fase endoprocedimentale vi sia necessità di acquisire un “parere” funzionale all’emissione dell’atto finale del procedimento in cui s’inserisce.
Non si tratta di “parere obbligatorio”, ma di vero e proprio “parere consultivo”, facoltativo (in interventu) e dunque neppure giuridicamente vincolante. La sua natura giuridica, secondo i principi generali, risulta quella di atto amministrativo per il quale valgono i principi generali in materia di “pareri”. 
Tale connotazione fa sì che i pareri, ancorché aventi natura di atto amministrativo, non sono autonomamente impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in ragione della loro natura di atti endoprocedimentali non vincolanti e generali. 
D’altra parte laddove il legislatore ha voluto attribuire funzione nomofilattica alla Corte dei Conti, l’ha fatto espressamente, come dimostra la recentissima legge 3 agosto 2009, n. 102, all’art. 17, commi 30 e 30 bis, affidando però tale rilevante funzione al Presidente delle Sezioni Riunite Centrali e non alle singole sezioni regionali della Corte dei Conti. A dimostrazione che ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Questo è un dato. 
E purtroppo si scontra pesantemente con la “funzione nomofilattica” (prevista dall’art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario, R.D. 30 gennaio 1941, n.12), che attribuisce alla Corte di Cassazione il compito di “garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”, per salvaguardare tanto l’attuazione della legge nel caso concreto, quanto per fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per finalità di unità dell’ordinamento, onde evitare di violare il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art.3, comma 1, Cost.).
Non solo. L’organo dotato di funzione nomofilattica è anche vertice del sistema delle impugnazioni, motivo per cui la Cassazione Sezione Lavoro, essendo la sede naturale dei giudizi in materia di rapporto di pubblico impiego instaurati dopo il 30 giugno 1998, a fronte di insorgenza di contenziosi, è lì che verrebbero instaurati con epiloghi certamente poco propizi per le finanze degli enti.
Cosa afferma in sostanza la Suprema Corte in materia di debenza del contributo annuo.
Da un lato afferma che “il criterio discretivo delle spese risiede nell’interesse soggettivo alla spesa. (...). Pertanto,sono sicuramente nell’interesse della persona le spese per l’acquisizione dell’abilitazione alla professione forense; una volta però acquisita l’abilitazione le spese necessarie per l’esercizio della professione nell’interesse esclusivo del datore di lavoro anno per anno non attengono più all’acquisizione dello status, e sono pertanto a carico del datore di lavoro”.
In altre parole, ciò che emerge è il seguente quadro:
- Quello dell’iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo non è un requisito richiedibile per l’assunzione, poiché l’iscrizione è consentita dagli ordini forensi solo e in quanto il dipendente venga adibito in via esclusiva e continuativa, con provvedimento formale, ad un ufficio legale costituito. Dunque il requisito soggettivo che può essere richiesto ai fini dell’assunzione di un dipendente avvocato è unicamente il possesso dell’abilitazione forense, necessaria per la successiva iscrizione del dipendente nell’interesse del datore.
- Neppure è parificabile al contributo annuo sostenuto soggettivamente dagli altri professionisti, atteso che questi ultimi non hanno vincoli di esclusività verso il loro datore di lavoro.
- Non può trovare condivisione neanche il principio secondo cui vi è divieto per gli enti di sostenere spese non previste, poiché neppure vi sono norme legislative o contrattuali che le pongano a carico del dipendente. E’ vero il contrario, visto che esistono norme che vietano di discriminare tra loro i cittadini ed i lavoratori, e sono di rango costituzionale. 
Infatti, mentre attraverso la nomofilachia della Corte Suprema di Cassazione ogni avvocato dipendente di ente pubblico, da nord a sud, vedeva rimborsato il contributo anticipato per conto del proprio datore di lavoro, oggi, sulla base di questi “pareri” semplici ed esigui pareri si assiste ad una situazione differenziata in relazione al medesimo problema, determinando disparità di trattamento fra lavoratori svolgenti le medesime funzioni.
- Né può dirsi conferente il richiamo delle Corti dei Conti alla previsione “contrattuale” del contributo, atteso che non si tratta di voce stipendiale, bensì di rimborso spese e, pertanto, si torna a volo d’aquila alla tesi della Suprema Corte, ovvero stabilire l’esclusività dell’interesse soggettivo.
Infine, facendo gravare sul dipendente pubblico il contributo annuale per l’iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati, così come grava sull’avvocato libero professionista, si determina un ulteriore grave discrimen, poiché si viola il principio della soggettività in base al quale l’avvocato libero professionista sopporta spese sostenute nell’interesse proprio (iscrizione Albo Avvocati), mentre l’avvocato dipendente sopporterebbe spese sostenute nell’esclusivo interesse del datore di lavoro.
La conclusione di tale attualissima e discussa questione, al pari dei nodi irrisolti “oneri riflessi”, del datore di lavoro, indennità c.d. di toga, ratei di tredicesima mensilità sugli onorari per le cause vinte, finirà certamente per approdare nelle aule giudiziarie e provocare numerosi contenziosi, con pesanti condanne a spese di soccombenza, il tutto a fronte di modestissimi importi.
Non sarebbe meno rischioso per la responsabilità erariale delle pubbliche amministrazioni seguire la via indicata dal giudice naturale di vertice con sentenza, piuttosto che affidarsi a pochi pareri privi di valore giuridico e nomofilattico?
La soluzione sarebbe a portata di mano, affidandosi semplicemente alle generali regole che regolano le fonti del diritto e la loro gerarchia, in nome di un semplicissimo principio: la buona amministrazione.
* I pareri delle Corti dei Conti citate sono sul sito www.corteconti.it; le sentenze di Cassazione sono sul sito www.italgiureweb.it; la sentenza del Tribunale di Torino – Sez. Lavoro è sul sito www.inps.it, con commento del Giudice del Lavoro, dott. Stefano Visonà;
interessante commento del Presidente TAR Lombardia, dott. Ezio Maria Barbieri, su Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, Il Sole 24 Ore, novembre 2007, n. 11, e del dott. Masimiliano Atelli, Magistrato Corte dei Conti Lombardia, in Diritto e Pratica amministrativa, Il Sole 24 Ore, Luglio/Agosto 2007, n. 7/8.
**Coordinatore Avvocatura Comunale Unica
Cultore di diritto amministrativo, Università degli Studi di Bologna
Segretario Nazionale U.N.A.E.P.
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