Giurisprudenza - Espropriazione

 


Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza, 20 gennaio 2020, n. 4

 

Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo».

 

DIRITTO

11. Premesso che le questioni decise dalla sentenza non definitiva (con contestuale ordinanza di rimessione a questa Adunanza plenaria) n. 5400/2019 con le statuizioni riportate sopra sub § 9. sono coperte da giudicato interno ed esulano ormai dall’ambito oggettivo della presente fase processuale, si osserva che logicamente prioritario è l’esame delle questioni sub §§ 9.1.a) e 9.1.b), con le quali la Sezione dubita dell’ammissibilità, nelle fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 ed attratte nell’ambito di giurisdizione del giudice amministrativo, della domanda di risarcimento dei danni da perdita della proprietà con rinuncia abdicativa, proposta dal proprietario di bene immobile occupato sine titulo dall’amministrazione.

La Sezione rimettente rileva, al riguardo, un contrasto giurisprudenziale nei termini puntualmente ricostruiti sopra sub § 9.2. attraverso la citazione delle diverse sentenze delle Sezioni semplici che si sono pronunciate in materia, cui vanno aggiunti la decisione del CGARS n. 486 del 25 maggio 2009, affermativa dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa implicata nella domanda di risarcimento per equivalente dei danni da perdita della proprietà (ma in vigenza della pregressa disciplina dell’art. 43), ed alcuni ulteriori arresti, sostanzialmente coevi o sopravvenuti all’ordinanza di rimessione, segnatamente le sentenze della Seconda Sezione n. 3195 del 17 maggio 2019 e n. 5050 del 18 luglio 2019, nonché la sentenza della Quarta Sezione n. 5703 del 13 agosto 2019, le quali hanno escluso che, nelle fattispecie concrete oggetto dei relativi giudizi e sulla base di un’interpretazione sistematica degli atti processuali di parte, potesse ravvisarsi, in concreto, una rinuncia abdicativa implicita nelle domande di risarcimento dei danni ivi proposte.

12. Prima di procedere alla soluzione delle questioni sottoposte all’esame di questa Adunanza, è necessario ripercorrere sinteticamente la storia degli effetti dell’occupazione sine titulo della proprietà privata da parte della pubblica amministrazione, che ha interessato in modo complesso la legislazione e la giurisprudenza (ordinaria ed amministrativa) degli ultimi decenni nel settore dell’espropriazione per pubblica utilità.

12.1. La giurisprudenza più risalente di questo Consiglio di Stato (ex multis: Sez. IV, 17 gennaio 1978, n. 14, e 19 dicembre 1975, n. 1327) conosceva l’istituto dell’espropriazione in sanatoria, rivolta ad assicurare ad opere pubbliche realizzate in virtù di occupazione d’urgenza scaduta o di occupazione abusiva la possibilità di sanatoria, in forza di un decreto di espropriazione emesso ex post, dotato di efficacia retroattiva. Tale giurisprudenza, idonea per un verso a ‘regolarizzare’ la situazione proprietaria del bene in capo all’amministrazione, palesava peraltro, proprio a causa dei suoi effetti retroattivi, limiti sul versante della tutela del privato, soprattutto sotto il profilo dei rapporti tra risarcimento del danno e indennità di espropriazione. Infatti, il privato, il quale restava proprietario del bene occupato, aveva diritto al solo risarcimento del danno determinato dalla perdita del godimento del bene occupato ed era comunque soggetto alla tardiva (rispetto ai termini stabiliti per l’espropriazione) emanazione del decreto di esproprio, ritenuto comunque idoneo a ricondurre il fatto dell’occupazione nell’alveo della legittimità procedimentale.

12.2. La Corte di cassazione – all’epoca il giudice ordinario era munito di giurisdizione in materia espropriativa sulla base del criterio generale di riparto – è, pertanto, stata indotta a elaborare un istituto volto a contemperare i problemi legati alla lesione del diritto di proprietà conseguente all’occupazione sine titulo e alla trasformazione del bene immobile per scopo di pubblica utilità con il riconoscimento di un’adeguata riparazione sul piano economico del proprietario. A ciò si aggiungeva la preclusione, per il giudice ordinario, di emanare sentenze di condanna della pubblica amministrazione alla restituzione dell’immobile trasformato per fini di interesse pubblico, con contestuale ordine di rimessione allo stato pristino.

Sono, così, stati elaborati i distinti istituti:

- della occupazione acquisitiva o appropriativa (talvolta definita anche accessione invertita) – attraverso l’inversione del principio civilistico superficies solo cedit, per cui il privato, a fronte dell’irreversibile trasformazione del bene di proprietà privata compiuta in funzione del perseguimento di un’utilità pubblica, perdeva la proprietà del bene e, quindi, la possibilità di ottenerne la restituzione, nonostante l’illegittimità del procedimento espropriativo e la mancanza di un titolo idoneo a determinare il trasferimento della proprietà dalla sfera privata a quella pubblica (ciò, a partire dalla sentenza fondamentale Cass. civ., Sez. un., 26 febbraio 1983, n. 1464; successivamente, ex plurimis, Cass. civ., Sez. un., 10 giugno 1988, n. 3940, e 25 novembre 1992, n. 12546) –, in relazione a fattispecie di illegittimità meno gravi del procedimento espropriativo, nelle quali l’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera pubblica avesse trovato consacrazione in una dichiarazione di pubblica utilità idonea a conferire all’opera effettiva natura pubblica ma non seguita da un formale atto ablativo;

- della occupazione usurpativa, caratterizzata dalla trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace (o perché mancante sin dall’inizio o perché venuta meno a seguito di annullamento giudiziale o perché carente dei suoi caratteri essenziali tipici, fra i quali la prefissione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dei lavori, o perché comunque divenuta inefficace), nella quale non operava l’accessione invertita per l’assenza di una dichiarazione di prevalenza funzionale dell’interesse pubblico e, quindi, la pubblica amministrazione non acquistava la proprietà del bene, di cui restava titolare il privato.

Uno dei presupposti dell’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva era costituito dalla «irreversibile trasformazione» del bene del privato, che era integrata non da una semplice manipolazione del bene o dall’impiego di esso per il soddisfacimento di interessi generali, ma occorreva che «l’opera dichiarata di pubblica utilità, anche se non ultimata, [fosse] emersa come strutturalmente e fisicamente nuova, così da evidenziare l’incompatibilità con essa dell’autonoma sopravvivenza del fondo inglobato» (v., ex plurimis, Cass. civ., Sez. I, 16 marzo 1994, n. 2507). Il rigore nell’interpretazione di tale presupposto valeva ad escludere l’occupazione acquisitiva in presenza di modifiche non irreparabili del bene occupato. Anche la Corte costituzionale, occupandosi nella sentenza 23 maggio 1995, n. 188, dell’occupazione acquisitiva, aveva evidenziato la rilevanza, nella costruzione giuridica dell’istituto, della radicale trasformazione del bene, affermando la necessità di un nesso di causalità diretta tra l’illecito della pubblica amministrazione e la «perdita del diritto di proprietà», nel senso che quest’ultima dovesse essere determinata, in via immediata e diretta, «[dal]l’azzeramento del contenuto sostanziale del diritto e [dal]la nullificazione del bene che ne costituisce l’oggetto, ossia «[dal]la vanificazione […] della individualità pratico-giuridica dell’area occupata, in conseguenza della materiale manipolazione dell’immobile nella sua fisicità, che ne comporta una trasformazione così totale da provocare la perdita dei caratteri e della destinazione propria del fondo, il quale in estrema sintesi non è più quello di prima», mentre l’acquisto in capo alla pubblica amministrazione del nuovo bene doveva considerarsi alla stregua di una «conseguenza ulteriore, eziologicamente dipendente non dall’illecito, ma dalla situazione di fatto – realizzazione dell’opera pubblica con conseguente non restituibilità del suolo in essa incorporato – che trova il suo antecedente storico nell’illecita occupazione e nella illecita destinazione del fondo alla costruzione dell’opera stessa».

12.3. Secondo la ricostruzione pretoria degli istituti sopra richiamati, l’occupazione acquisitiva, comportante l’estinzione del diritto di proprietà del privato e l’acquisizione a titolo originario in capo all’ente costruttore, costituiva un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti), che abilitava il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento dell’irreversibile trasformazione del fondo la condanna dell’ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma che – dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, d.-l. n. 333/1992 – era pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per la eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta, fino al giorno della liquidazione.

Invece, nell’occupazione usurpativa si configurava una mera occupazione illegittima dell’immobile privato, ricondotta nell’alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 Cod. civ., con le necessarie implicazioni sia in punto di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante dalla permanenza dell’illecita occupazione, sia in punto di esperibilità delle azioni reipersecutorie a tutela della non perduta proprietà del bene. La tesi per cui il privato, previa rinuncia abdicativa alla proprietà del bene, potesse optare per il risarcimento del danno (per equivalente) per la perdita definitiva del bene, è stata elaborata con specifico riferimento all’istituto della occupazione usurpativa, nella quale manca(va) qualsiasi collegamento tra occupazione del bene e interesse pubblico immanente al vincolo di scopo impresso all’opera dalla preventiva dichiarazione di pubblica utilità. In tale, specifico, contesto ricostruttivo la Corte di cassazione è pervenuta alla conclusione che, «poiché la valenza restitutoria dell’azione del privato potrebbe trovare ostacolo o nell’eccessiva onerosità di essa per il debitore (art. 2058, secondo comma, c.c.) o nel pregiudizio per l’economia nazionale (art. 2933, secondo comma, c.c.) […], o essere irragionevolmente antieconomica a cagione della irreversibilità – anche soltanto materiale – della trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in termini di risarcimento del danno per la perdita del bene» (v. Cass. civ., Sez. un., 4 marzo 1997, n. 1907; v. altresì Cass. civ. Sez. un., 18 febbraio 2000, n. 1814, per cui, «ove l’occupazione non sia assistita da una valida dichiarazione di pubblica utilità, la giurisprudenza più recente ha ammesso che l’azione risarcitoria possa essere esperita in sostituzione del rimedio restitutorio […] anche perché l’ordinamento non sembra sancire l’obbligatorietà della reintegrazione in forma specifica (ché, anzi, è proprio l’impossibilità della restituzione per superiori ragioni di economia pubblica il fondamento della negata riconsegna del bene, nella ricostruzione dell’istituto operata dalla giurisprudenza amministrativa: Cons. St., sez. V, 12 luglio 1996, n. 874»).

12.4. Diverse erano le conseguenze derivanti dalle due forme di occupazione in relazione al momento della perdita del diritto di proprietà in capo al privato e dell’acquisto in capo all’amministrazione:

- nel caso di occupazione appropriativa, tale momento veniva individuato – sia agli effetti della perdita che dell’acquisto – in quello in cui si realizzava l’irreversibile trasformazione del bene occupato (v. Cass. civ., Sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853; Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2004, n. 6184);

- nel caso di occupazione usurpativa, l’effetto della perdita della proprietà veniva ancorato a un momento successivo che «dipende[va] da una scelta [causalmente indotta dalla irreversibile trasformazione del fondo e dall’azzeramento di fatto delle facoltà proprietarie; n.d.e.] del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta[sse] per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria» (v. Cass. civ., 28 marzo 2001, n. 4451), e che segnava la cessazione della permanenza dell’illecito in seguito al venir meno del dovere di far cessare l’antigiuridicità mediante la restituzione del bene in conseguenza dell’opzione esercitata dal proprietario con «l’atto abdicativo implicito nella proposizione dell’azione di risarcimento del danno» (v. Cass. civ., Sez. un., 4 marzo 1997, n. 1907; nonché, con particolare chiarezza, Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2003, n. 6853: «[L]’opzione del proprietario per una tutela risarcitoria in luogo della pur possibile tutela restitutoria comporta un’implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato; ma da ciò non consegue quale effetto automatico l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’ente pubblico […]; l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del proprietario usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, esso non ha carattere accessivo (art. 934 c.c.), ma semmai occupatorio in relazione ad un bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogia all’art. 942 c.c.), ove non rileva la soddisfazione una pubblica utilità, giacché neppure può porsi questione di bilanciamento di interessi»).

Mentre, nel contesto di tale ultimo orientamento, l’effetto della perdita della proprietà in capo al privato è sempre stato ricondotto, in modo unanime, all’atto abdicativo, mai è stata trovata una soluzione univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante: in alcune sentenze, si prospettava una rinuncia «a favore dell’amministrazione», con ciò evocando le ipotesi di abbandono liberatorio disciplinate dal Codice civile (quali gli artt. 1070, 1004, 882 e 550 Cod civ.), nelle quali tuttavia è sempre presente anche un effetto traslativo coevo a quello abdicativo, mentre altre sentenze facevano riferimento alla ‘vacanza’ dell’immobile determinata dalla rinuncia abdicativa e al successivo acquisto, a titolo originario, in capo allo Stato ai sensi dell’art. 827 Cod. civ., lasciando tuttavia aperta la questione del trasferimento della proprietà all’ente espropriante o beneficiario, qualora diversi dallo Stato, oppure configuravano un modo di acquisto ‘occupatorio’ in analogia agli artt. 923, 940, 942 Cod. civ. (v., ad. es., Cass. civ., Sez. I., 18 febbraio 2000, n. 1814) o ad altre fattispecie civilistiche.

12.5. A ciò si aggiungeva che la spesso incerta e dibattuta riconduzione di alcune fattispecie all’occupazione acquisitiva o usurpativa – che, fino alla legge n. 205/2000, rilevava anche ai fini del riparto di giurisdizione – risentiva di un approccio tendenzialmente obsoleto ai concetti di carenza e cattivo uso del potere e faceva applicazione, spesso inappropriata, dello schema della degradazione del diritto (affievolimento del diritto - annullamento del provvedimento - riespansione del diritto), contribuendo a un quadro giurisprudenziale incerto e dagli esiti imprevedibili nelle singole fattispecie concrete dedotte in giudizio.

12.6. A fronte di un siffatto quadro normativo e giurisprudenziale, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) rilevava il contrasto degli istituti costruiti in via pretoria con l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (integrante altresì principio generale del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 6 del Trattato), che sancisce il diritto al pacifico godimento della proprietà e la garanzia che l’eventuale privazione del possesso avvenga nel rispetto delle regole normativamente fissate, quali principi sulla cui base interpretare il potere riconosciuto agli Stati contraenti di controllare l’uso della proprietà per la soddisfazione dell’interesse generale. La Corte EDU ha chiarito che la compatibilità degli istituti di origine giurisprudenziale sottoposti alla sua attenzione con la citata disposizione convenzionale avrebbe richiesto la sussistenza di una causa di pubblico interesse, il rispetto delle condizioni previste dalla legge e la realizzazione di un giusto equilibrio tra esigenze di carattere generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In particolare, la Corte ha rilevato che, anche quando l’ingerenza della pubblica amministrazione nel pacifico godimento di un bene avvenga per soddisfare un pubblico interesse, non è lecito prescindere dal rispetto delle forme e delle condizioni previste dalla legge, precisando che l’osservanza del principio di legalità svolge un ruolo tanto primario che la stessa valutazione in ordine all’effettiva attuazione di un «giusto bilanciamento» tra interesse pubblico e interesse privato viene intesa come una verifica «di secondo grado», da compiere dopo aver accertato che l’interferenza in questione soddisfi le esigenze di legalità e non sia arbitraria. Inoltre, secondo la Corte EDU, il principio di legalità e di preminenza del diritto, inteso in senso sostanziale e non meramente formale, si traduce in un preciso parametro di qualità della legge, la quale deve assumere i caratteri della accessibilità, della precisione e della chiarezza e, sotto il profilo processuale, deve offrire una tutela giurisdizionale effettiva, non garantita qualora si consenta «all’autorità di trarre beneficio da una situazione illegittima nella quale il proprietario del bene è posto dinanzi al fatto compiuto» (v., su tali principi, Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia).

La Corte EDU ha pertanto escluso la compatibilità con la Convenzione degli istituti in questione – che danno luogo a una espropriazione indiretta, permettendo alla pubblica amministrazione di acquisire un bene sine titulo in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera realizzata –, in quanto:

- il quadro normativo interno, di carattere essenzialmente giurisprudenziale, non dava regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, consentendo così interpretazioni contraddittorie se non addirittura arbitrarie;

- non era compatibile col principio di legalità un meccanismo che consentiva di trarre beneficio da una situazione illegale, per effetto della quale il privato fosse messo innanzi al «fatto compiuto»;

- risultavano pertanto violati i principi della certezza del diritto e dell’effettività della tutela giurisdizionale (v., ex multis, Corte EDU, sentenze 15 e 29 luglio 2004Scordino c. Italia; 19 maggio 2005Acciardi c. Italia; 15 luglio 2005, Carletta c. Italia; 21 dicembre 2006De Angelis c. Italia; 6 marzo 2007Scordino c. Italia; 4 dicembre 2007Pasculli c. Italia).

12.6.1. Quanto allo strumentario rimediale, la Corte EDU, pur rilevando che la restituzione del bene costituiva la forma più adeguata di riparazione a favore del proprietario illegittimamente spogliato del suo bene, non escludeva affatto, qualora tale rimedio non fosse praticabile (oppure non fosse previsto nell’ordinamento interno) e la non restituzione si rilevasse «plausibile in concreto», la via della compensazione per equivalente, che avrebbe dovuto corrispondere al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. sentenze Belvedere Alberghiera c. Italia, cit., § 69; Scordino c. Italia n. 3, cit., § 16). In particolare, la Corte EDU in tale ultima sentenza ha bensì affermato che «lo Stato dovrebbe, prima di tutto, prendere misure che abbiano l’obiettivo di evitare qualsiasi occupazione non a norma di terreni, sia che si tratti di occupazione sine titulo fin dall’inizio, ovvero che si tratti di occupazione inizialmente autorizzata e diventata successivamente sine titulo», e che in tutti i casi in cui un terreno sia già stato oggetto di occupazione illegittima e sia stato trasformato senza il decreto di esproprio, «lo Stato convenuto dovrebbe sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la restituzione del terreno sistematicamente e per principio». Ma la stessa Corte ha, poi, aggiunto che «quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto, lo Stato convenuto dovrebbe garantire il pagamento di una somma corrispondente al valore che avrebbe la restituzione in natura», e, nel contempo, dovrebbe anche adottare «misure di bilancio adeguate al fine di concedere, se è il caso, il risarcimento per le perdite subite e che non sarebbero compensate dalla restituzione in natura o dal pagamento sostitutivo» (v. § 6 della citata sentenza). Peraltro, già nella sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006 Scordino c. Italia n. 1, è stato affermato che «la praticabilità della restitutio in integrum è rimessa al diritto nazionale e, ove esso la escluda, deve essere accordato un indennizzo corrispondente al valore di mercato del bene».

Premesso che l’indirizzo della Corte è stato confermato anche in alcune sentenze più recenti (sentenza 22 dicembre 2009Guiso-Gallisay c. Italia, §§ 90 e 96; sentenza 23 ottobre 2012, Soc. Immobiliare Podere Trieste c. Italia, § 18; sentenza 13 gennaio 2015Rolim Commercial S.A. c. Portogallo, §§ 12 e 13), va rilevato che anche in altri ordinamenti europei (ad es. in Francia e in Spagna) è prevista la ‘sostituzione’ della restitutio in integrum con una giusta indennità, qualora il ripristino dello stato anteriore sia eccessivamente oneroso per l’interesse pubblico.

13. Sempre sul piano dello strumentario rimediale, pure la Corte costituzionale si è espressa nel senso che la restituzione è la regola, ma che, laddove vi siano preminenti ragioni di interesse pubblico, la stessa può essere trasformata in riparazione per equivalente (integrante l’extrema ratio).

La Corte costituzionale nella sentenza n. 293/2010 aveva indicato tra le soluzioni da adottare quella di «espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei», da intendere come una (e non l’unica ed esclusiva) delle possibili soluzioni. Infatti, la stessa Corte in precedenza, nella sentenza n. 349/2007, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del criterio allora vigente di determinazione del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, aveva rilevato che «alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito», con ciò sostanzialmente subordinando la non restituzione ad adeguate misure compensative.

14. Per porre rimedio alle incoerenze con la Convenzione europea rilevate dalla Corte EDU, è stato emanato l’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, entrato in vigore il 30 giugno 2003), il quale, nelle intenzioni del legislatore, aveva il fine di ovviare alla mancanza di una base legale dell’acquisizione del bene alla proprietà pubblica come effetto di occupazioni illegittime e sine titulo e dell’intervenuta trasformazione del bene, attribuendo all’autorità, «che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», il potere di disporre, «valutati gli interessi in conflitto», l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile.

Il citato art. 43 è stato emanato dal legislatore delegato per dare una ‘legale via d’uscita’ alle diffuse e risalenti situazioni di illegalità che si erano stratificate nel corso del tempo, consentendo alle amministrazioni di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, con atti formali ancorati a una compiuta normativa e comunque sindacabili dal giudice amministrativo, quando il bene fosse stato «modificato per scopi di interesse pubblico».

L’Adunanza plenaria, con la decisione n. 2/2005, reputava espunto dall’ordinamento interno l’istituto dell’occupazione acquisitiva, sostituito da quello delineato dall’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 che consentiva alla pubblica amministrazione di emanare un provvedimento di acquisizione delle aree utilizzate a fini di interesse pubblico, ed affermava che detto provvedimento veniva a costituire l’unico titolo idoneo a trasferire all’amministrazione il diritto di proprietà sul bene illegittimamente occupato, nel contempo circoscrivendo in modo rigoroso l’esercizio di detto potere ablativo: il provvedimento di acquisizione, cui peraltro potevano attribuirsi solo effetti ex nunc, doveva essere emanato, valutati gli interessi in conflitto, solo ove l’interesse pubblico, posto a raffronto con quello privato, avesse particolare rilevanza, non potendo il provvedimento di acquisizione divenire uno strumento ordinario dell’azione amministrativa, alternativo alla procedura legittima, ma dovendo esso essere usato in casi assolutamente eccezionali, nei quali si ravvisasse (motivando adeguatamente) la particolare rilevanza dell’interesse pubblico che avesse giustificato il sacrificio privato alla restituzione del bene.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 293/2010, dichiarava incostituzionale l’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 per eccesso di delega ex art. 76 Cost., in quanto andava oltre il «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti» (come stabilito dalla legge di delegazione 8 marzo 1999, n. 50), ma vi aggiungeva un lungo e significativo obiter, prospettando un «legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU», sul rilievo che la Corte EDU «ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’Amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da “azioni illegali”, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo “buona e debita forma”, sicché non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità».

L’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 presentava ulteriori criticità, poiché – oltre a prevedere l’acquisizione disposta sulla base di un provvedimento dell’amministrazione – ai commi 3 e 4 disciplinava la c.d. acquisizione giudiziaria, riguardante le ipotesi in cui la pubblica amministrazione, nel corso del giudizio per l’annullamento di un atto del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di disporre, in caso di fondatezza della domanda, la condanna al risarcimento del danno per equivalente, con esclusione della restituzione del bene espropriato. Infatti, in tal modo l’esercizio del potere ablativo, di natura discrezionale, anziché svolgersi in sede procedimentale con le garanzie partecipative e gli oneri istruttori e motivazionali propri del procedimento e provvedimento amministrativo, si sarebbe manifestato attraverso un’eccezione processuale sollevata dalla difesa dell’amministrazione, e la relativa decisione finale sarebbe stata rimessa all’organo giudicante, in violazione del principio di separazione dei poteri e dell’esigenza di delineare il potere di acquisizione in termini più certi e prevedibili.

15. Al fine di colmare la lacuna aperta dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 e, nel contempo, di superare le controverse questioni di diritto sostanziale e processuale sorte in sede di applicazione dell’art. 43, il legislatore è intervenuto con l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 – inserito dall’art. 34 d.-l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111 –, che, sotto la rubrica «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico», testualmente recita: «1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.

3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.

4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.

5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.

6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.

7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo ne dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.

8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo».

15.1. Il nuovo istituto assolve alla funzione di ricondurre a legalità le (nel passato frequenti) situazioni connotate dall’utilizzazione, da parte della pubblica amministrazione, del bene immobile di un privato per scopi di interesse generale, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.

In sostanziale recepimento dei principi elaborati dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2/2005, il legislatore ha, a tal fine, configurato un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale e da peculiari e autonomi presupposti, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc)il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene utilizzato al patrimonio indisponibile in funzione del mantenimento dell’opera pubblica realizzata (o, comunque, delle modificazioni apportate al bene) sine titulo. L’interesse pubblico prevalente, sorretto da attuali ed eccezionali ragioni, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale – rafforzato, stringente e assistito dalle garanzie partecipative rigorose delineate dalla legge n. 241/1990 con particolare riferimento ai procedimenti amministrativi che sfociano in provvedimenti discrezionali – basato sull’emersione di ragioni attuali ed eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio, dovendo in particolare essere dimostrato, in modo specifico e concreto, che non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative.

Con ciò, la norma attribuisce alla pubblica amministrazione il potere, valutati gli interessi in conflitto, di disporre l’acquisizione (al patrimonio indisponibile) dell’immobile appartenente al privato e utilizzato senza titolo, in presenza dei presupposti e alle condizioni da essa stabiliti, e disciplina la misura dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita definitiva del bene, valutato al valore venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 d.P.R. n. 327/2001), maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare ulteriori autonome voci di danno (v., in tal senso, la ricostruzione dell’istituto nella sentenza n. 2/2016 dell’Adunanza plenaria – la quale, peraltro, è intervenuta su una fattispecie specifica di ottemperanza a un giudicato amministrativo relativo a una vicenda acquisitiva ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, al diverso fine di chiarire l’ampiezza dei poteri del commissario ad acta –, in parte qua condivisa da questo Collegio).

La pubblica amministrazione – all’esito della valutazione delle circostanze e comparati gli interessi in conflitto secondo i criteri previsti dal comma 4 dell’art. 42-bis – è posta dinanzi all’alternativa, oggetto di valutazione provvedimentale, o di disporre l’acquisizione o di restituire l’area al proprietario previo ripristino dello stato anteriore (affrontando le spese di demolizione e di ripristino). Ritiene, in particolare, questo Collegio che, nello specifico contesto procedimentale e provvedimentale delineato dall’art. 42-bis, la misura della restituzione previa rimessione allo stato pristino dell’immobile illegittimamente occupato e trasformato non possa essere ri(con)dotta al mero obbligo di natura civilistica conseguente alla lesione del diritto di proprietà e, dunque, a un mero effetto legale della determinazione di non acquisire l’immobile, ma costituisca espressione di una specifica volontà provvedimentale. Infatti, in sede di bilanciamento dei contrapposti interessi privati e pubblici, ed attesa la necessità di motivare in ordine all’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del provvedimento di acquisizione (tra le quali rientra la restituzione del bene previa rimessione in pristino), dovranno essere prese in considerazione anche le specifiche circostanze in tesi ostative all’alternativa restitutoria (quali, ad es., eventuali costi eccessivi e sproporzionati rispetto al valore del bene illegittimamente modificato, con la precisazione che si tratta di uno solo dei possibili elementi valutativi, da solo insufficiente a giustificare l’acquisizione, restando primario e prioritario quello relativo alla sussistenza di ragioni attuali ed eccezionali di prevalenti esigenze pubbliche, e non bastando un mero riferimento generico ad eccessive difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione). L’inestricabile interdipendenza reciproca delle valutazioni da porre a base dei diversi esiti procedimentali e provvedimentali comporta che l’eventuale concreta restituzione del bene previa riduzione in pristino, disposta all’esito di siffatta valutazione, non può che costituire espressione dell’esercizio della (doverosa) funzione attribuita alla pubblica amministrazione in materia espropriativa nel contesto dello speciale procedimento ablativo all’esame, sebbene contenutisticamente coincidente con l’obbligo restitutorio di stampo civilistico.

Sotto altro profilo, il dovere dell’amministrazione di far venir meno la occupazione sine titulo, ossia di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto non incisa dall’occupazione medesima (in primis, attraverso la restituzione previa rimessione in pristino), costituisce espressione del principio generale di legalità dell’azione amministrativa (particolarmente stringente nel settore espropriativo, ai sensi dell’art. 42, secondo e terzo comma, Cost.; v. infra sub § 15.2.), nella specie convogliata nella procedura speciale quale delineata dall’art. 42-bis, nonché dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.). Deve pertanto ritenersi la sussistenza di un obbligo di provvedere ex art. 2 l. n. 241/1990 sull’istanza del proprietario volta a sollecitare il potere di acquisizione ex art. 42-bis (o, in alternativa, a disporre la restituzione del bene), fermo restando il carattere discrezionale della valutazione rimessa alla pubblica amministrazione sul merito dell’istanza.

Infatti, la Corte costituzionale nella sentenza n. 71/2015 – parzialmente interpretativa di rigetto, con la quale sono state dichiarate infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 in riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., nonché in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. –, per un verso ha indicato, quale una delle possibili soluzioni per superare l’inerzia della pubblica amministrazione autrice dell’illecito e compulsarla all’esercizio del potere ex art. 42-bis (che a tal fine non stabilisce alcun termine), l’assegnazione giudiziale di un termine «per scegliere tra l’adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis e la restituzione dell’immobile» (v. § 6.6.3. della sentenza), e, per altro verso, ha rilevato che «l’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” […]. Dunque solo quando siano state escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà» (§ 6.7. della sentenza, con passaggio motivazionale ribadito al § 6.9.1.), specificando altresì che «il privato sarà ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il proprio ruolo partecipativo, eventualmente facendo valere l’esistenza delle “ragionevoli alternative” all’adozione dell’annunciato provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene» (§ 6.8.).

In altri termini, l’istituto disciplinato dall’art. 42-bis non si muove in una logica meramente rimediale rispetto a un pregresso comune illecito civilistico, ma risponde nel contempo all’esigenza di consentire alla pubblica amministrazione di «riprende[re] a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino» (v. Corte cost. n. 71/2015).

15.2. L’istituto dell’acquisizione ex art. 42-bis, quale sopra ricostruito, deve ritenersi conforme ai principi di legalità vigenti sia nell’ordinamento interno sia in quello sovranazionale.

Nell’ordinamento interno, nel particolare settore dell’espropriazione per pubblica utilità, il principio di legalità del potere ablativo attribuito alla pubblica amministrazione è sancito direttamente dalla Costituzione:

- il secondo comma dell’art. 42 Cost. («La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi d’acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti») demanda alla legge la determinazione dei modi di acquisto della proprietà, sia in via generale, sia in relazione a situazioni peculiari, sempre in presenza della finalità di assicurarne la funzione sociale;

- il terzo comma dell’art. 42 Cost. («La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale») sancisce il principio della tipicità e tassatività delle fattispecie espropriative, ma ciò non implica che il potere espropriativo debba riferirsi ad un’unica ipotesi ablativa prefigurata in via generale e accompagnata da sequenze procedimentali costanti ed unitarie, potendosi essa esplicare legittimamente anche quando – sempre se sorretta da motivi d’interesse generale – si riferisca a fattispecie ablative divergenti dal modello generale, purché tipizzate dalla legge.

Come sopra messo in evidenza, la peculiarità del procedimento all’esame è costituito dalla circostanza che lo stesso si innesta su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su un titolo astrattamente annullabile sub iudice (con la precisazione che, alla luce di una combinata lettura dei primi due commi dell’art. 42-bis, l’istituto deve ritenersi applicabile sia alle ipotesi olim qualificate di occupazione acquisitiva sia a quelle di occupazione usurpativa).

La Corte costituzionale, con la sopra citata sentenza n. 71/2015, ha affermato la compatibilità dell’istituto all’esame con l’art. 42 Cost., evidenziandone le caratteristiche salienti e ricostruendone la peculiare funzione e struttura (v., in particolare, il § 6.7. della sentenza).

Con la stessa sentenza, è altresì stata affermata la conformità dell’istituto – a norma del comma 8 dell’art. 42-bis da ritenersi applicabile anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore (purché non oggetto di rapporti esauriti), per i quali siano pendenti processi, e anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, proprio in funzione dell’eliminazione definitiva del fenomeno delle espropriazioni indirette e della situazione di deficit strutturale dell’ordinamento interno ripetutamente stigmatizzati dalla Corte EDU – ai canoni della Convenzione, per un verso, attraverso la riconduzione (per il passato) delle occupazioni illegittime tutt’ora pendenti nell’alveo della legalità tramite il potere di adottare un formale provvedimento acquisitivo e, per altro verso, attraverso la configurazione (per il futuro, ossia per le situazioni successive alla sua entrata in vigore) dell’istituto come procedura ablativa di natura eccezionale, e non già come ordinaria alternativa ad una procedura espropriativa condotta «in buona e debita forma», con ciò escludendo la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (v. §§ 6.9. e 6.9.1. della sentenza).

Del pari, è stata affermata la rispondenza ai canoni convenzionali e costituzionali dell’indennizzo previsto dall’art. 42-bis.

16. Le questioni rimesse all’Adunanza plenaria quali enucleate nell’ordinanza di rimessione e riportate sopra sub §§ 9.1.a) e 9.1.b) devono essere risolte nel senso propugnato nell’ordinanza di rimessione, alla luce della sopra proposta ricostruzione dell’istituto della acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che segna la fine alla prassi delle espropriazioni indirette stigmatizzate dalla Corte EDU e le riconduce nell’alveo della legalità attraverso l’attribuzione all’amministrazione occupante del potere discrezionale, doveroso quanto all’avvio del relativo procedimento e discrezionale in ordine alla scelta finale tra acquisizione e restituzione, secondo gli stringenti parametri valutativi delineati nel comma 4.

Un breve cenno va, preliminarmente, fatto alle sentenze n. 735/2015 delle Sezioni unite e n. 2/2016 dell’Adunanza plenaria, richiamate dagli appellanti incidentali nei propri scritti difensivi a suffragio della propria tesi difensiva affermativa dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa implicita nella richiesta di risarcimento dei danni da perdita del bene.

La Corte di cassazione nella sentenza n. 735/2015 – pubblicata il 19 gennaio 2015, dunque in data anteriore alla pronuncia della Corte costituzionale n. 71 del 30 aprile 2015 – si occupa della tematica della rinuncia abdicativa al § 7 della sentenza nel contesto di una causa in cui la stessa era investita della questione dell’individuazione del dies quo del diritto al risarcimento dei danni da occupazione illegittima, richiamando la propria giurisprudenza formatasi in tema di occupazione usurpativa che aveva individuato nella rinuncia abdicativa una delle ipotesi (accanto a quelle della restituzione, dell’accordo transattivo e della compiuta usucapione) di cessazione dell’illecito permanente perpetrato dall’amministrazione con l’occupazione/manipolazione illegittima del bene del privato, la quale ultima era ritenuta inidonea a determinare il trasferimento della proprietà in capo all’amministrazione ed era qualificata come illecito di diritto comune determinante la sua responsabilità per i danni. La Corte di cassazione si limitava, al riguardo, a ribadire che, «in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. e plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28 marzo 2001, n. 4451 e Cass. 12 dicembre 2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (Cass. 3 maggio 2005, n. 9173; Cass. 18 febbraio 2000, n. 1814)», senza ulteriori approfondimenti della questione specifica che qui viene in rilievo.

L’Adunanza plenaria, con la successiva sentenza n. 2/2016, ha richiamato la sentenza della Corte di cassazione n. 735/2015, elencando, in via meramente incidentale, la rinuncia abdicativa (da ritenersi implicita nella domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà) quale una delle possibili ipotesi di cessazione dell’illecito permanente.

Le richiamate sentenze non trattano, pertanto, ex professo le questioni rimesse a questa Adunanza plenaria, che possono articolarsi nei seguenti quesiti:

(i) se la tesi che riconosce al proprietario del bene illegittimamente occupato e trasformato dalla pubblica amministrazione la facoltà di rinunciare al diritto di proprietà e di chiedere il risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà, con l’effetto di determinare la cessazione dell’illecito permanente di occupazione sine titulo, sia compatibile con l’istituto delineato dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, che si colloca nel settore ordinamentale speciale delle espropriazioni per pubblica utilità;

(ii) se una siffatta rinuncia abdicativa possa, in linea generale, ritenersi implicita nella domanda risarcitoria per equivalente proposta in sede giudiziale (sempre, s’intende, con riferimento al danno da perdita della proprietà, attraverso la richiesta di un risarcimento che, quale posta principale, comprenda il valore venale del bene).

16.1. Va preliminarmente rilevato che ai fini della soluzione delle questioni all’esame non occorre affrontare, in questa sede, il tema dell’astratta ammissibilità nell’ordinamento generale, sotto uno stretto profilo civilistico, della rinuncia al diritto di proprietà su un bene immobile. Appare, al riguardo, sufficiente accennare alla dottrina civilistica prevalente che, argomentando da una serie di indici normativi – tratti dagli artt. 827, 923, 1350 n. 5) e 2643 n. 5), Cod. civ., nonché dalle norme che prevedono fattispecie di c.d. abbandono liberatorio, quali gli artt. 1170, 882, 550 e 1004 Cod. civ. – propende per l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto dominicale, che assume i tratti di una rinuncia traslativa nei casi di abbandono liberatorio (infatti, in queste ultime ipotesi la rinuncia alla proprietà del bene immobile non ne produce la ‘vacanza’, ma l’acquisto della sua titolarità in capo, rispettivamente, al proprietario del fondo dominante, al proprietario confinante, agli altri eredi o legatari e agli altri comproprietari).

16.2. Ciò premesso, come sopra anticipato, al quesito sub § 16.(i) deve essere fornita risposta negativa.

16.2.1. In primo luogo, va rilevato che la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, al dichiarato fine di apprestare un ulteriore strumento di tutela del proprietario leso dall’occupazione illegittima e dalla trasformazione del fondo da parte della pubblica amministrazione, genera un’irrazionalità amministrativa di tipo funzionale, in quanto lascia ‘aperta’ e irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione.

Occorre, al riguardo, precisare che, in linea generale, i provvedimenti ablativi del diritto di proprietà (quale che sia il loro regime, ordinario o speciale) danno luogo ad un effetto privativo in capo al privato e, correlativamente, ad un effetto acquisitivo in capo all’amministrazione, essendo circolarmente l’uno conseguenza dell’altro (a prescindere dalla ricostruzione delle singole fattispecie espropriative come acquisti a titolo derivativo in senso stretto, o meno). Spezzare il nesso tra effetto privativo ed effetto acquisitivo significa privare la vicenda espropriativa della sua causa giuridica.

Ebbene, come sopra esposto sub § 12.4., nel contesto dell’orientamento affermativo dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa quale strumento alternativo di tutela del privato leso dall’occupazione illegittima in funzione della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà, non è mai stata fornita una soluzione certa e univoca in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.

In particolare, in tale contesto, l’effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante non può essere ricondotto all’art. 827 Cod. civ., il quale prevede l’acquisto – a titolo originario e non iure successionis, come nella diversa fattispecie disciplinata dall’art. 586 Cod. civ. – dei beni vacanti da parte dello Stato (segnatamente, al suo patrimonio disponibile; v., su tale ultimo punto, Cass. civ., 14 aprile 1966, n. 942).

Pur in tesi non attribuendo all’art. 827 Cod. civ. una portata meramente transitoria collegata all’entrata in vigore del Codice civile – volta, cioè, a disciplinare la sola situazione giuridica dei beni che, in ragione di discipline pregresse, a tale momento siano stati privi di proprietario –, la sua applicazione alle vicende espropriative quale quella all’esame giammai consentirebbe di sprigionare l’effetto dell’acquisto della proprietà del bene (che, peraltro, secondo le previsioni dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, dovrebbe avvenire al patrimonio indisponibile) in capo all’amministrazione occupante diversa dallo Stato, ma ne determinerebbe l’acquisto al patrimonio disponibile di quest’ultimo (o, nelle Regioni a statuto speciale della Sardegna, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, al patrimonio delle rispettive Regioni, in forza degli articoli 14, 34 e 67 dei rispettivi statuti speciali), con la conseguenza che l’ente occupante, pur ad avvenuto versamento della somma liquidata a titolo risarcitorio, non ne diverrebbe proprietario.

Né a risolvere lo iato tra effetto abdicativo della rinuncia ed effetto acquisitivo in capo all’amministrazione occupante, determinato dall’applicazione dell’art. 827 Cod. civ., appare idonea la tesi, per cui la rinuncia alla titolarità del bene dovrebbe ritenersi risolutivamente condizionata all’inadempimento dell’amministrazione occupante all’obbligo di corrispondere il controvalore monetario liquidato dal giudice al momento della definizione della controversia, sicché la rinuncia, interinalmente efficace, consoliderebbe i propri effetti al momento dell’effettivo ed integrale versamento del risarcimento da parte dell’amministrazione occupante; secondo tale tesi, il relativo provvedimento di liquidazione escluderebbe in via definitiva la verificazione dell’evento (appunto l’inadempimento) dedotto in condizione e sarebbe soggetto a trascrizione ai sensi del combinato disposto degli artt. 2643 n. 5) e 2645 Cod. civ. «anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia» (v., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636). Infatti, la tesi si scontra con il rilievo che la trascrizione assolve alla funzione dell’opponibilità a terzi degli atti dispositivi di diritti reali, ma non ne integra la validità o l’efficacia né può assurgere a elemento costitutivo della fattispecie traslativa o acquisitiva, con la conseguenza che, in mancanza di idoneo titolo d’acquisto in capo all’amministrazione occupante, l’ordine di trascrizione in favore di quest’ultima resterebbe privo di base legale.

Neppure appare possibile l’applicazione analogica di altre fattispecie di acquisto a titolo originario per fatti ‘occupatori’ disciplinate dal Codice civile, quali gli artt. 923, 940 o 942 Cod. civ., in quanto si incorrerebbe nella violazione del principio di legalità delle fattispecie ablative, sancito dalla Costituzione e dalla CEDU (v. sopra sub §§ 12.6. e 13.).

Ad analoga obiezione si espongono i tentativi di ricostruire in via pretoria fattispecie traslative complesse, mediate da eventuali sentenze costitutive, atteso il principio di tassatività delle sentenze costitutive di effetti traslativi o acquisitivi di diritti reali, né offrendo l’art. 34, comma 1, lettera e), Cod. proc. amm. una sufficiente base legale per pronunce di siffatto tenore.

Né, infine, appare configurabile un’ipotesi di formazione tacita di un accordo traslativo tra parte privata e pubblica amministrazione – ad es., ipotizzando un atto di consenso del privato coessenziale alla dismissione della proprietà e la non opposizione all’acquisto da parte dell’amministrazione –, attesa la necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti traslativi della proprietà immobiliare, tanto più se parte contrattuale è una pubblica amministrazione.

16.2.2. In secondo luogo, s’impone il rilievo che l’evento della perdita della proprietà è un elemento costitutivo del fatto illecito produttivo del danno.

Aderendo alla tesi della rinuncia abdicativa, l’evento dannoso (perdita della proprietà) verrebbe cagionato dallo stesso danneggiato, in contrasto con i principi che presiedono all’illecito aquiliano, che esigono un rapporto di causalità diretta tra evento dannoso e comportamento del soggetto responsabile, nella specie invece interrotto dalla rinuncia dello stesso danneggiato, la quale soltanto – secondo la tesi all’esame – determina l’effetto della perdita.

Né tale rilievo appare superabile con l’obiezione per cui il proprietario verrebbe ‘costretto’ ad abdicare in quanto con l’occupazione gli sarebbe rimasto un bene totalmente privo di utilità, sicché sarebbe l’irreversibile trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione ad averne causato la perdita: infatti, per un verso, in caso di contestazione s’imporrebbe la necessità di (spesso complessi) accertamenti giudiziari sul grado di trasformazione del fondo idoneo a giustificare l’atto abdicativo, dall’esito per definizione incerto, con la conseguente introduzione, sotto diversa veste, dell’acquisizione giudiziaria già prevista nel pregresso art. 43 d.P.R. n. 327/2001 ed espunta dall’ordinamento per le criticità che la connotavano, e, per altro verso, attraverso la riconduzione causale della perdita del bene alla sua occupazione e trasformazione sine titulo da parte dell’amministrazione si (re)introdurrebbe una forma di espropriazione indiretta in contrasto con i canoni della CEDU.

Se, invece, la determinazione circa la rinuncia abdicativa fosse rimessa alla libera e insindacabile (sotto il profilo causale) scelta del proprietario – come sotteso alla tesi della sua ammissibilità, quale espressione della libera autodeterminazione del proprietario in ordine al diritto di proprietà sul bene leso dall’occupazione illegittima –, l’applicazione di tale strumento negoziale alle vicende delle occupazioni illegittime contrasterebbe con i richiamati principi civilistici in tema di illecito aquiliano.

16.2.3. Da ultimo, si osserva che la disciplina del procedimento espropriativo speciale ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 regola, in modo tipico, esaustivo e tassativo, il procedimento di (ri)composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale cui è preordinata l’acquisizione del bene alla mano pubblica comportante la cessazione dell’illecito permanente. L’operatività dell’istituto postula, sul piano logico-giuridico, che la formale titolarità della proprietà risulti ancora in capo al privato (e non sia venuta meno, in tesi, con l’eventuale rinuncia implicita nella proposizione della domanda risarcitoria): infatti, l’adozione dell’atto, unitamente alla liquidazione dell’indennizzo, rappresenta il necessario presupposto per il trasferimento del diritto di proprietà in favore dell’amministrazione.

Una volta disciplinata dal legislatore in modo compiuto ed esauriente, la procedura ablativa speciale – presupponente l’occupazione illegittima e la correlativa modificazione del bene da parte dell’amministrazione (in sé prive di riflessi in ordine alla titolarità del bene) – ‘tipizza’ i poteri dell’amministrazione e ‘conforma’ la facoltà di autodeterminazione del proprietario in ordine alla sorte del bene rimasto di sua proprietà.

Per quanto riguarda l’amministrazione, essa è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma.

Quanto al privato – e corrispondentemente all’alternativa posta in termini funzionali all’amministrazione –, la sua facoltà di autodeterminazione resta conformata (sul piano legislativo, ex art. 42, secondo e terzo comma, Cost.) nel senso che al medesimo è attribuita la potestà di compulsare la pubblica amministrazione, attraverso una correlativa istanza/diffida, all’esercizio del potere/dovere di porre comunque termine alla situazione di illecito permanente costituita dall’occupazione senza titolo e ricondurla a legalità secondo la seguente alternativa:

- o adottando il provvedimento di acquisizione sulla base degli stringenti criteri motivazionali delineati dal comma 4 dell’art. 42-bis, verso la corresponsione dell’indennizzo parametrato ai criteri stabiliti nel precedente comma 1;

- oppure, in mancanza dell’acquisizione, disponendo la restituzione del bene previa rimessione allo stato pristino (con salvezza, in entrambe le ipotesi, del diritto al risarcimento dei danni per il periodo dell’occupazione illegittima e degli eventuali danni ulteriori).

Altre soluzioni, che potevano trovare una spiegazione in presenza di una lacuna legislativa, non sono ipotizzabili, in quanto resterebbe irrisolta la definizione di una base legale certa per l’effetto traslativo della proprietà. Di conseguenza, all’interprete non è consentito più (se mai lo sia stato) di ricorrere all’analogia iuris per integrare la fattispecie normativa di diritto amministrativo settoriale in materia espropriativa, quale tassativamente predeterminata dal legislatore, attraverso il ricorso ad un istituto di natura prettamente privatistica, al dichiarato fine di aggiungere un ulteriore strumento di tutela del privato, limitativo e derogatorio all’istituto dell’art. 42-bis. Siffatta operazione ermeneutica – oltre a non essere necessaria sotto il profilo della garanzia della effettività della tutela del proprietario leso, in quanto sussistono idonei mezzi coercitivi affinché l’amministrazione occupante provveda a compiere la scelta tra acquisizione o restituzione – comporta, invero, uno stravolgimento dell’assetto d’interessi sotteso e (ri)composto (d)alla particolare procedura ablativa disciplinata dal citato articolo di legge; affida la decisione sulla sorte del bene ad un atto eventuale e unilaterale del proprietario, cui si finirebbe per attribuire una sorta di diritto potestativo direttamente ricadente nella sfera giuridica dell’amministrazione; e si risolve, in definitiva, nell’inammissibile introduzione praeter legem di una nuova fattispecie ablativa/traslativa (peraltro, lasciando irrisolta la questione fondamentale circa il titulus e il modus adquirendi della proprietà del bene in capo all’ente occupante), la cui disciplina è, invece, riservata alla legge e informata alla tassatività e tipicità dei poteri ablatori e delle relative procedure.

Concludendo sul punto, preminenti esigenze di sicurezza giuridica, implicanti la prevedibilità, per tutti i soggetti coinvolti (compresa la parte pubblica), della fattispecie ablativa/acquisitiva, non possono che escludere la rilevanza dell’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà dell’immobile, ai fini della cessazione dell’illecito permanente costituito dall’occupazione sine titulo del bene di proprietà privata e della riconduzione della situazione di fatto a legalità.

Come sopra ripetutamente accennato, l’ordinamento processuale amministrativo appresta uno strumentario processuale efficace per reagire all’eventuale inerzia della pubblica amministrazione con l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm., oppure, a seconda della fase in cui pende il processo e del tipo di azione esercitata, attraverso l’assegnazione, nella sentenza cognitoria, di un termine per provvedere in ordine all’acquisizione o (in caso di non acquisizione) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lettera b), Cod. proc. amm., con eventuale contestuale nomina di un commissario ad acta a norma dell’art. 34, comma 1, lett. e), Cod. proc. amm. per il caso di persistente inottemperanza all’ordine di provvedere (al fine, appunto, di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell’alveo della legalità attraverso l’esercizio del correlativo potere, di natura vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo). In particolare, l’iniziativa procedimentale e il successivo giudizio sul silenzio costituiscono mezzi con cui il proprietario del bene occupato può far valere l’interesse ad ottenere un ristoro pecuniario in luogo della restituzione del bene, che, per le ragioni sopra esposte, non può più trovare tutela attraverso il meccanismo della rinuncia abdicativa (che rimetterebbe alla determinazione unilaterale del privato la decisione sulla sorte del bene, al contempo lasciando irrisolta la vicenda acquisitiva).

Viene, con ciò, offerta al privato una tutela celere, concentrata e definitiva dell’interesse leso, senza necessità di ricorrere alla costruzione della rinuncia abdicativa. Ricorso, per quanto si è detto, non più consentito in assenza di una lacuna legislativa e anzi in presenza di una disciplina volta a fornire una base legale specifica, certa e prevedibile, all’effetto ablativo della proprietà.

16.3. Il carattere assorbente della risposta al quesito precedente rende non rilevante il quesito sub § 16.(ii), che comunque rafforza le criticità della teoria della rinuncia abdicativa.

16.3.1. In primo luogo, la proposizione di una domanda risarcitoria del pregiudizio sofferto rispetto a un bene, attraverso la richiesta di una somma corrispondente al controvalore del bene, nulla esprime realmente in ordine alla volontà di preservarne, o meno, la titolarità.

Infatti, siffatta domanda non è né logicamente né giuridicamente incompatibile con la volontà di permanere titolare del diritto di proprietà, potendo anche il danno da perdita del godimento del bene, in vista della sua proiezione tendenziale all’infinito in ragione di una prospettata radicale e irreversibile trasformazione del bene, finire per equivalere al valore di scambio, sicché la mera richiesta di un risarcimento del danno commisurato al valore del bene appare del tutto neutra sotto il profilo della volontà di rinunciare, o meno, alla proprietà.

Considerata la rilevanza degli effetti dell’atto abdicativo, comportante la perdita del diritto di proprietà su un bene immobile, non appare ammissibile, per ragioni di certezza del traffico giuridico immobiliare, ancorare l’effetto a manifestazioni di volontà enucleabili da atti processuali a contenuto non univoco, in violazione dei principi di accessibilità, precisione e prevedibilità cui deve essere improntata la disciplina delle procedure ablative nonché lo stesso regime giuridico di circolazione dei beni, per di più immobili.

16.3.2. In secondo luogo, occorre rilevare che l’atto di rinuncia al diritto di proprietà su beni immobili è soggetto alla forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350, n. 5), Cod. civ., per cui vanno redatti per iscritto «gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti» (nei quali rientra anche il diritto di proprietà).

Ebbene, anche in ipotesi aderendo all’orientamento giurisprudenziale e dottrinario che ritiene ammissibile una manifestazione tacita di volontà nel contesto di un atto per la cui validità è richiesta la forma scritta – con la motivazione che una forma vincolata non significa che la volontà debba essere espressa, essendo sufficiente che la stessa vi sia contenuta, anche in forma tacita, ma in modo da rilevare, per quanto qui interessa, una volontà incompatibile con il mantenimento del diritto di proprietà –, l’atto formale contenente la volontà tacita di rinuncia deve, in ogni caso, assumere la forma scritta ad substantiam (scrittura privata o atto pubblico), ossia essere munita della sottoscrizione personale della parte, autenticata o comunque riconosciuta nelle forme di legge.

Tratterebbesi di requisito formale da vagliare caso per caso attraverso l’esame degli atti processuali di parte in tesi suscettibili di essere interpretati quali atti contenenti una volontà abdicativa.

Nel caso concreto sub iudice, né l’atto per motivi aggiunti del 31 ottobre 2007 né quello successivo notificato il 24 maggio 2013 – con cui erano state veicolate le domande di risarcimento per equivalente rapportate al valore venale del bene (oltre ai danni da perdita del godimento per occupazione illegittima) – recano la sottoscrizione personale delle parti, né risulta conferita al difensore una procura speciale a disporre del diritto di proprietà attraverso un’eventuale rinuncia abdicativa.

16.3.3. Pertanto, anche sotto i profili sopra esaminati, la teoria della rinuncia abdicativa all’atto della sua applicazione pratica appaleserebbe una serie di criticità.

16.4. Concludendo, in risposta alle questioni rimesse a questa Adunanza plenaria nell’ordinanza di rimessione e riportate sopra sub §§ 9.1.a) e 9.1.b) si deve affermare il seguente principio di diritto:

«Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo».

16.4.1. La soluzione della questione sub § 9.1.e) è consequenziale ai sopra affermati principi di diritto e dovrà essere risolta dalla Sezione rimettente in sede di decisione definitiva della causa.

16.4.2. Da ultimo, si impongono due precisazioni.

Esula dall’ambito oggettivo del presente giudizio e dalle questioni rimesse a questa Adunanza plenaria ogni questione relativa all’ammissibilità e agli eventuali presupposti dell’acquisto per usucapione in capo all’amministrazione del bene occupato sine titulo, trattandosi di tematica irrilevante ai fini della decisione del presente giudizio.

Quanto alla previsione, contenuta nel comma 7 dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, per cui l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione deve dare comunicazione dello stesso alla Corte dei conti, si osserva che tale comunicazione è funzionale all’eventuale esercizio dell’azione di responsabilità in relazione alle vicende che hanno dato luogo alla presupposta occupazione illegittima, la quale può – e deve, in presenza dei relativi presupposti – essere comunque esercitata anche nei casi di pronunce di condanna al risarcimento dei danni per equivalente (sia del giudice ordinario sia di quello amministrativo); invero, sotto tale profilo, il passaggio attraverso il procedimento ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 nulla immuta in punto di responsabilità amministrativa e l’emanazione dell’atto di acquisizione, volto ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, non comporta di per sé la sussistenza di una responsabilità amministrativa.

17. Procedendo all’esame delle questioni di natura processuale rimesse a questa Adunanza e riportate sopra sub §§ 9.1.c) e 9.1.d) – del seguente tenore: «c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis; d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione» –, osserva il Collegio che:

- nel caso di specie, gli originari ricorrenti e odierni appellanti incidentali con i motivi aggiunti notificati il 24 maggio 2013 hanno proposto, in via subordinata (rispetto alla domanda principale di risarcimento dei danni da perdita della proprietà per equivalente), domanda di «trasferimento oneroso della proprietà» (con ciò evidentemente riferendosi all’acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001) o, in alternativa, di restituzione del terreno, tant’è che il TAR, previa reiezione della domanda principale, ha accolto la domanda subordinata adottando le statuizioni riportate sopra sub § 5., senza che avverso tali statuizioni fosse stato interposto appello condizionato (né in via principale né in via incidentale);

- le questioni all’esame si risolvono pertanto nella prospettazione di un quesito astratto e ipotetico, non rilevante ai fini della decisione del presente giudizio.

Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc. amm., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.

Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito.

18. Premesso che ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm. l’Adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, sussistano i presupposti perché, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto di cui al precedente § 16.4., la causa sia rimessa alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva.

Deve pertanto essere disposta la restituzione degli atti alla Sezione rimettente, che dovrà statuire anche in ordine alle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), pronunciando nella causa d’appello come in epigrafe promossa, enuncia il principio di diritto di cui al precedente § 16.4., restituendo per il resto gli atti alla Sezione rimettente ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.; spese al definitivo.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 13 novembre 2019, con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi, Presidente

 

per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata

 

Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza, 20 gennaio 2020, n. 2

 

1. La questione di diritto sottoposta a questa Adunanza riguarda la configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall'occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.

Deve in primo luogo perimetrarsi il tema d’indagine oggetto del presente giudizio.

La questione, infatti, non riguarda l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa, che conosce un vivace dibattito in altri settori dell’ordinamento.

Infatti, benché il Legislatore non abbia espressamente disciplinato in una norma ad hoc la rinuncia abdicativa, la prevalente tradizionale dottrina ne afferma la sua ammissibilità.

Trattasi di un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell'esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso.

Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all'intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell'atto, tant'è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia cd. traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell'acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l'effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge.

Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l'intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato.

L’oggetto del presente giudizio è, al contrario, limitato alla rinuncia abdicativa nella materia dell’espropriazione, e riguarda la mera possibilità di riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A., in seguito, come detto, all’irreversibile trasformazione del fondo occupato.

2. La tesi della rinuncia abdicativa deriva dai principi affermati in tema dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 9 febbraio 2016, n. 2, intervenuta peraltro per la diversa finalità di chiarire quali siano i poteri del commissario ad acta nominato per l’esecuzione dei provvedimenti occorrenti ad ottemperare ad un giudicato amministrativo relativo ad una vicenda di acquisizione cd. sanante ex art. 42-bis. TUEs.

La tesi in discussione è stata per la prima volta organicamente e sistematicamente ammessa dalla giurisprudenza amministrativa con la sentenza del CGA 25 maggio 2009, n. 486 ed è stata ricostruita negli stessi termini dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 gennaio 2015, n. 735), per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205-2000, che ha poi previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa.

Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono state anche Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961, nonché Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686.

Ancora di recente la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 3517-2019, resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, ha ribadito princìpi consolidati in dichiarata adesione a quanto espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2016.

Anche la giurisprudenza di questo Consiglio si è più volte pronunciata nel senso dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia espropriativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2018, n. 3105; Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2018, n. 2396).

3. L’orientamento favorevole evidenzia che tale linea ricostruttiva presenta, sul piano pratico, aspetti favorevoli per il privato espropriato.

In primo luogo, infatti, valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile ex art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato.

In secondo luogo, offre maggiori garanzie di compensare integralmente l’utilità (rectius: il bene) perduto dal privato, poiché, il quantum deve essere corrisposto al soggetto espropriato a titolo di risarcimento del danno (che è ordinariamente integrale) e non a titolo di indennizzo (che invece, come è noto, è solo parametrato al valore del bene perduto).

Inoltre, poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della relativa domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le note implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione.

Questa Adunanza ritiene tuttavia che l’ipotesi ricostruttiva della rinuncia abdicativa, quanto meno nella materia in esame, non possa essere condivisa.

Essa, invero, sul piano strutturale e normativo, si espone a un triplice ordine di obiezioni; e segnatamente:

- non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante;

- la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali;

- soprattutto, e in senso decisivo e assorbente, non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo. Va ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare, in materia di espropriazione cd. indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd.occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica. E’ noto che tale istituto non può più trovare spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ne hanno evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea, in particolare per quanto riguarda l'art. 1 del primo protocollo Addizionale (ex multis, sentenza CEDU 17 novembre 2005).

4. Per quanto riguarda la prima obiezione (mancata spiegazione esauriente della vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante), si deve rilevare, infatti, che se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante.

Nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 c.c. possa essere la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge, ed effettivamente tale norma prevede che gli immobili che non sono in proprietà di alcuno spettino al patrimonio dello Stato, quale effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto (vacanza del bene).

Tuttavia, tale acquisto, peraltro a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’Autorità espropriante, attuale occupante e in possesso del bene, che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del privato.

La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta.

Né l’effetto traslativo può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa implicita a favore dell’Amministrazione espropriante), atteso che, come è noto, le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Se l’atto non è in sé idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’Amministrazione espropriante non potrà già di per sé essere trascrivibile e all’eventuale ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe riconoscersi base legale.

5. Per quanto riguarda la seconda obiezione (rinuncia abdicativa quale atto implicito, ma carenza in tale rinuncia delle caratteristiche essenziali degli atti impliciti), si deve ricordare che la rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura.

Nel campo del diritto amministrativo, come è noto, è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando l’Amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 5887 e, di recente, Cons. Stato, Sez. V, n. 589 del 2019).

Ciò che emerge dalla dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo è inequivocabilmente la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato il quale contiene “per implicito” un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa claris verbis nel testo del provvedimento medesimo.

E’ evidente, in questa ricostruzione, che non sussistono violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è ricavabile da un’interpretazione non meramente letterale dell’atto.

Nel caso di specie, tuttavia, l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti che, così come ricordato, riguarda solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato.

Né è possibile, evidentemente, utilizzare lo stesso paradigma per ricondurre la volontà di chiedere il risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata.

In primo luogo, sul piano sostanziale, non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere (null’altro che) la rinuncia del privato al bene: la domanda risarcitoria, infatti, denuncia inequivocabilmente un illecito di cui la parte richiede la riparazione; ma a fronte della pluralità di strumenti offerti dall’ordinamento nonché in presenza di una disciplina legale del procedimento espropriativo, la domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene.

Sul piano formale, poi, va considerato che la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ha la disponibilità dello stesso e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi, in quanto atto incidente e dispositivo di un bene immobiliare proprio della parte.

Né è, altrettanto evidentemente rinvenibile una procura a vendere (rectius: a rinunciare) nel mandato difensivo della parte al proprio difensore, che non contiene neppure implicitamente una legittimazione al difensore a rinunciare al diritto di proprietà del proprio assistito.

6. Ma, al di là delle criticità che appalesa l’adesione alla teoria della rinuncia abdicativa nella materia in questione, è decisiva, per la soluzione del quesito posto, la terza ed ultima obiezione (assenza di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove è centrale il principio di legalità), di cui deve rimarcarsi il carattere assorbente per escludere l’operatività della rinuncia abdicativa quale strumento legalmente idoneo a definire l’assetto degli interessi coinvolti in una vicenda di espropriazione cd.indiretta.

Al riguardo, si deve ricordare in primo luogo che, ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3 Cost., la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (che, peraltro, “ne determina i modi di acquisto”) e può essere, “nei casi preveduti dalla legge”, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.

La rinuncia abdicativa non costituisce uno dei casi previsti dalla legge.

Anzi, in una certa prospettiva, sembra richiamare –come si accennava- l’ormai tramontato istituto dell'occupazione acquisitiva, di cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea.

Come è noto, l’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l’irreversibile trasformazione dell’area, è un istituto di origine pretoria, sorto con la sentenza della Corte di Cassazione 26 febbraio 1983, n. 1464.

L’istituto, che pure rispondeva, nel silenzio della legge, all’esigenza pratica e sistematica di definire l’assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato e il conseguente assetto degli interessi, risultava peraltro evidentemente privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con la conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non assurge a titolo di acquisto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo dell’Amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso.

L’istituto della rinuncia abdicativa, di chiara matrice pretoria, finirebbe per presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi entrando in eliminabile tensione con i principi enunciati dalla Corte Europea e con le guarentigie apprestate al diritto di proprietà dalla nostra Carta Costituzionale.

7. E’ nel delineato contesto normativo che il legislatore nazionale è intervenuto per regolare la fattispecie in esame, fornendo per ciò stesso una base legale, sistematica e coerente, alla disciplina ivi prevista, dapprima con l’art. 43 TUEs. (approvato con il d.P.R. n. 327-2001 ed entrato in vigore il 30 giugno 2003) e poi, dopo la dichiarazione della sua incostituzionalità per eccesso di delega, con l’art. 42-bis (introdotto nel testo unico dall’art. 34, comma 1, L. n. 111 del 2011).

Infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da parte della Autorità devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo.

L’art. 42-bis, in particolare:

- prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto;

- in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione degli interessi;

- comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di carattere permanente (Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2; Sez. IV, 31 maggio 2019 n. 3658; Sez. IV, 13 maggio 2019, n. 3070; Sez. IV, 21 marzo 2019, n. 1869; Sez. IV, 18 febbraio 2019, n. 1121; Sez. IV, 18 maggio 2018, n. 3009; Sez. IV, 30 agosto 2017, n. 4106; Sez. IV, 1° agosto 2017, n. 3838; cfr. Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Sez. IV, 27 giugno 2007, n. 3752; Sez. IV, 16 giugno 2007, n. 2582, con considerazioni sull’allora vigente art. 43, rilevanti nel sistema incentrato sull’art. 42-bis);

- esclude che il giudice decida la ‘sorte’ del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario;

- a maggior ragione, non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene. Come se il proprietario del bene fosse titolare di una sorta di diritto potestativo a imporre il trasferimento della proprietà, mediante rinuncia al bene (implicita o esplicita che sia), previa corresponsione del suo controvalore (non rileva, sotto questo profilo, se a titolo risarcitorio o indennitario).

L’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione.

La fattispecie di cui al predetto art. 42-bis è evidentemente delineata in termini di potere-dovere: non implica certo che l’Amministrazione debba necessariamente procedere all’acquisizione del bene, ma impone che essa eserciti doverosamente il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di potere-dovere, o doverosità di certe funzioni, che è nota da tempo nel tessuto del diritto amministrativo e che discende dai noti principi di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.).

Già l’art. 43, poi dichiarato incostituzionale, peraltro, aveva consapevolmente introdotto nel sistema norme di chiusura, volte ad attribuire all’autorità amministrativa il potere di dare a regime una soluzione al caso concreto quando gli atti del procedimento divengano inefficaci per decorso del tempo o siano annullati dal giudice amministrativo, consentendo ‘una legale via d’uscita per gli illeciti già verificatisi’ (Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Sez. IV, 6 agosto 2014, n. 4203; Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4696): analoghe considerazioni valgono, dunque, per l’art 42-bis che ne ha ereditato lo scopo e la funzione.

8. Ad avviso dell’Adunanza, dunque, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante. E se la norma non prevede alcun riferimento a un’ipotesi di rinuncia abdicativa – che, peraltro, così delineata, avrebbe tutti i caratteri strutturali e gli effetti di una rinuncia traslativa- è stato per converso introdotto nell’ordinamento una disciplina specifica e articolata che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione del bene o acquisizione della proprietà nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previsti. Nessuna norma attribuisce per contro al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare l’attribuzione della proprietà all’amministrazione espropriante previa corresponsione del risarcimento del danno.

Inoltre, poiché l’art. 42-bis dispone che il titolo di acquisto possa essere l’atto di acquisizione (espressione di una scelta dell’autorità), si ritiene che non si possa attribuire alcun rilievo a tal fine a un atto diverso, vale a dire al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; in altre parole, né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno.

Invero, per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento.

La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis.

Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato.

Qualora, invece, sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall’articolo 42bis all’amministrazione.

Non sarebbe peraltro ammissibile una richiesta solo risarcitoria, in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso. Il che non significa che il giudice possa nondimeno, ove ne ricorrano i presupposti fattuali, accogliere la domanda.

A ben vedere, infatti, la domanda risarcitoria, al pari delle altre domande che contestino la validità della procedura espropriativa, consiste essenzialmente nell’accertamento di tale illegittimità e nella scelta del conseguente rimedio tra quelli previsti dalla legge. E’ infatti la legge speciale, nel caso di espropriazione senza titolo valido, a indicare quali siano gli effetti dell’accertata illegittimità: il trasferimento non avviene per carenza di titolo e il bene va restituito. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa (e non di una mera facoltà di scelta) a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti richiesti dall’articolo 42 bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento (e quindi con piena e integrale soddisfazione delle pretese dell’espropriato).

Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali.

Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito.

9. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, deve dichiararsi il seguente principio di diritto:

- per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.

 

 

 

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