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  CORTE COSTITUZIONALE -
  sentenza 10 giugno 2011 n. 181 anche in
  applicazione dell’aricolo 1 della CEDU dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40,
  commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in
  materia di espropriazione, che in caso di esproprio di un’area non
  edificabile, adotta il criterio del valore agricolo medio corrispondente al
  tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da
  espropriare e, quindi, contiene una disciplina che non tiene conto del valore
  del bene in concreto Ritenuto in fatto  1. — La Corte di appello di
  Napoli, con ordinanza depositata il 19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha
  sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma,
  della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
  5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per
  il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla
  legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto
  (recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi
  e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
  espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17
  agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
  autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore
  dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti
  dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la
  edificabilità dei suoli).  2. — La Corte territoriale
  riferisce di essere chiamata a pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla
  signora N. W. F. nei confronti del Comune di Montoro Superiore e diretto ad
  ottenere la condanna di quest’ultimo al pagamento (tra l’altro)
  dell’indennità di espropriazione e dell’indennità di occupazione
  legittima, relative all’esproprio di un suolo, appartenente
  all’attrice, situato nel territorio del detto ente. In una prima fase
  del processo il consulente di ufficio aveva rilevato che il terreno, pur se
  classificato come agricolo nel piano di fabbricazione adottato dal Comune di
  Montoro Superiore, era ubicato a ridosso del centro cittadino, in una zona in
  possesso di tutte le caratteristiche dei suoli edificatori, e sicuramente
  appetibile anche in vista di un suo possibile sfruttamento per fini diversi
  dall’edificazione, sicché lo aveva valutato in lire 55.851 al mq., con riferimento
  al dicembre 1982; successivamente era stata disposta una nuova consulenza,
  volta a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo 1985), il
  suolo de quo avesse valore agricolo o edificabile e a determinare
  l’importo delle due indennità. Il consulente aveva accertato che il
  terreno in questione era classificato nel catasto terreni del Comune di
  Montoro Superiore come "seminativo arborato" e che, in base al
  programma di fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972 al 12
  maggio 1997, era, per la sua maggiore estensione, destinato ad uso pubblico
  per servizi vari, per una parte minore inserito in zona B di completamento e
  per una terza parte interessato alla realizzazione di una strada. Tuttavia,
  in base alle prescrizioni del programma di fabbricazione, nella zona B
  dell’area espropriata era precluso ogni tipo di edificazione e non era
  consentita neppure la costruzione in aderenza con l’edificio, di
  proprietà dell’attrice, con essa confinante, soggetto,nel piano di
  recupero del Comune, soltanto ad interventi di restauro e di risanamento
  conservativo.  Una volta accertata la non
  edificabilità del suolo, il consulente aveva applicato i criteri di
  liquidazione delle indennità stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865
  del 1971, cui rinvia l’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 e,
  rilevato che il Comune di Montoro Superiore ricadeva nella regione agraria n.
  8 della Provincia di Avellino e che, nel 1985, in tale regione il
  valore agricolo medio di un terreno seminativo arborato era di lire 1.200 a mq., aveva
  determinato l’indennità di espropriazione spettante all’attrice
  in complessivi euro 588,76 (lire 1.140.000) e quella di occupazione in
  complessivi euro 49,06.  Tanto premesso, la Corte rimettente, chiamata
  a decidere unicamente della misura delle indennità di espropriazione e di
  occupazione spettanti all’attrice, dubita della legittimità
  costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, d.l. n. 333 del 1992,
  convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché
  dell’art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come
  sostituiti dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, «che, secondo il diritto
  vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo alle aree non
  aventi destinazione edilizia».  Ad avviso della rimettente tali
  disposizioni, non suscettibili di un’interpretazione diversa da quella
  letterale, stabiliscono un criterio di determinazione dei suoli agricoli e
  dei suoli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di
  mercato.  Invero - la Corte di merito prosegue -
  «ancorché non possa escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio
  (V.A.M.) di tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto,
  coincidenti, non v’è dubbio che assai spesso il primo valore risulti
  (anche notevolmente) superiore al secondo, in quanto l’appetibilità di
  un terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilità, ma da
  molteplici altri fattori, primi fra tutti la sua posizione e le concrete
  possibilità di suo sfruttamento per fini diversi dalla coltivazione».  La questione sarebbe rilevante
  nel presente giudizio. Infatti, sarebbe rimasto accertato che il valore di
  mercato del terreno in questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq.,
  con riferimento al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore
  di lire 55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore agricolo
  medio della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di appena lire 1.200 al
  mq. o, al più, di lire 6.200 al mq. (volendo ritenere erronea la determinazione
  del C.T.U. per non aver considerato che, trattandosi di terreno compreso in
  un centro edificato, l’indennità si sarebbe dovuta commisurare al
  valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella
  regione agraria, coprivano una superficie superiore al 5 per cento di quella
  coltivata nella regione stessa).  Inoltre, il suolo di proprietà
  della F. era certamente inedificabile, avuto riguardo alla natura
  conformativa (e non espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti,
  all’inesistenza di un presunto giudicato sull’edificabilità di
  fatto del suolo, alla costante giurisprudenza della Corte di cassazione,
  integrante un vero e proprio diritto vivente, alla stregua della quale il
  sistema introdotto dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 si caratterizza
  per una rigida dicotomia, con esclusione di un "tertium genus", tra
  "aree edificabili" ed "aree agricole" o "non
  classificabili come edificabili".  Al criterio
  dell’edificabilità di fatto, dunque, potrebbe farsi riferimento in via
  complementare ed integrativa, agli effetti della determinazione del concreto
  valore di mercato dell’area espropriata, soltanto nelle ipotesi
  (estranee al caso in esame) in cui sussistano cause idonee a ridurre o
  escludere le possibilità reali di edificazione o in cui difetti una
  classificazione del suolo da parte della pianificazione urbanistica.  Si dovrebbe, perciò, concludere
  che, trattandosi di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della
  legge n. 359 del 1992, l’indennità di esproprio andrebbe liquidata alla
  stregua dei criteri dettati dalle norme censurate, con la conseguenza che la
  somma spettante alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria.  In questo quadro, sarebbe
  ravvisabile, in primo luogo, violazione dell’art. 117, primo comma,
  Cost., per contrasto delle dette norme con l’art. 1 del primo
  protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
  dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla legge n. 848
  del 1955.  Il giudice a quo riassume, al
  riguardo, i principi affermati da questa Corte con le sentenze n. 348 e n.
  349 del 2007, richiama il dettato della citata norma convenzionale e
  sottolinea che la Corte
  europea dei diritti dell’uomo ha interpretato tale norma in numerose
  sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi anche
  in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di
  espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce
  un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o
  giuridica deve realizzare un "giusto equilibrio" tra le esigenze di
  interesse generale della comunità ed il principio della salvaguardia dei
  diritti e delle libertà fondamentali».  La necessità di salvaguardare
  detto equilibrio riguarderebbe, secondo la Corte europea, tutto il contenuto
  dell’art. 1 del primo protocollo.  Al fine di stabilire se le
  misure adottate da uno Stato, nell’interesse generale, garantiscano un
  giusto equilibrio e non riversino sul proprietario un peso sproporzionato,
  andrebbero prese in considerazione le modalità d’indennizzo previste
  dalle leggi interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe osservato che,
  senza il versamento di una somma ragionevole in rapporto al valore del bene,
  la privazione della proprietà che si realizza attraverso l’esproprio
  costituisce normalmente un’ingerenza eccessiva in violazione
  dell’art. 1 del primo protocollo, aggiungendo che, in caso di
  espropriazione isolata di un terreno, soltanto un indennizzo integrale può
  essere considerato ragionevole, mentre la mancanza di un tale indennizzo può
  giustificarsi soltanto in presenza di obiettivi legittimi di pubblica
  utilità, volti a perseguire misure di riforma economica o di giustizia
  sociale.  Ad avviso della Corte
  territoriale la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione
  dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non
  edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo
  medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria
  di appartenenza dell’area da espropriare), quindi del tutto svincolato
  dal valore di mercato dei suoli stessi, non sarebbe in grado di assicurare
  all’avente diritto un indennizzo integrale o almeno
  "ragionevole", così ponendosi in contrasto con l’art. 1 del
  primo protocollo, nell’interpretazione data dalla Corte europea.  Andrebbe escluso, poi, che tale
  interpretazione si ponga in conflitto con la tutela di interessi
  costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
  Infatti, anche l’art. 42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato
  da questa Corte nel senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad
  individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido
  in ogni fattispecie espropriativa o idoneo ad assicurare l’integrale
  riparazione della perdita subita dal proprietario espropriato,
  l’indennità medesima non deve mai essere meramente simbolica o
  irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (è richiamata la sentenza
  di questa Corte n. 5 del 1980).  È vero che, con sentenza n. 261
  del 1997, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
  costituzionale della normativa censurata, sollevata in riferimento agli artt.
  3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. La questione, però, in quella
  sede sarebbe stata affrontata in base a rilievi diversi, sicché la Corte si sarebbe limitata
  ad osservare che la soluzione adottata dal legislatore per semplificare il
  calcolo indennitario, ancorché non obbligata, non era irragionevole o
  arbitraria, in quanto di per sé non pregiudicava il serio ed effettivo
  ristoro del proprietario espropriato.  In questa sede, invece, verrebbe
  in evidenza l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo
  all’art. 1 del primo protocollo addizionale, in base alla quale non
  potrebbe ritenersi ragionevole qualsiasi criterio di determinazione
  dell’indennità che prescinda dal dato di partenza, costituito dal
  valore di mercato del bene espropriato, «non dovendosi più valutare se la
  norma interna di per sé "non pregiudichi" il serio ed effettivo
  ristoro della perdita del bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di
  assicurare tale ristoro in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione
  e non solo in via occasionale, in virtù di fattori casuali e contingenti,
  legati alla specifica situazione del terreno ablato».  In tale prospettiva - prosegue la Corte territoriale - «è la
  stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il
  calcolo dell’indennizzo - e non già la mancata previsione di una terza
  tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili - che
  appare priva di giustificazione».  La considerazione, del resto,
  sarebbe in linea con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del
  1980, poi ribadito nella sentenza n. 348 del 2007, ovvero che, affinché possa
  realizzarsi un serio ristoro «occorre far riferimento, per la determinazione
  dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue
  caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
  economica di esso, secondo legge» e che «il principio del serio ristoro è
  violato quando per la determinazione non si considerino le caratteristiche
  del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal
  valore di esso».  Tali principi, ancorché
  enunciati da questa Corte solo con riguardo ai terreni edificabili,
  dovrebbero ritenersi validi ed operanti anche in relazione ai terreni
  agricoli e, a maggior ragione, a quelli privi di possibilità legali ed
  effettive di edificazione, ai primi equiparati dalla legge n. 359 del 1992,
  perché nell’attuale contesto storico ed economico l’interesse del
  privato all’acquisto di tali categorie di terreni sarebbe determinato
  dalle possibilità di sfruttarli per fini diversi da quello di impiantarvi una
  coltivazione, sicché non sarebbe più predicabile una corrispondenza tra il
  loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato.  Per le medesime ragioni, la
  questione di legittimità costituzionale delle norme censurate per violazione
  dell’art. 42, terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata.  Infine, non sarebbe
  manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa
  all’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, e all’art. 16,
  commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, per violazione
  dell’art. 3 Cost.  Invero, rileva la rimettente,
  per effetto della sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse
  dall’ordinamento le disposizioni secondo le quali l’indennità di
  esproprio dei suoli edificabili andava determinata in misura pari alla media
  tra il valore venale e il reddito dominicale rivalutato degli ultimi dieci
  anni.  Per le espropriazioni ancora in
  corso (e per quelle future) è intervenuto l’art. 2 della legge 24
  dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
  pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), il cui comma 89, lettera
  a), ha sostituito l’art. 37, comma 1, decreto del Presidente della
  Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative
  e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. Testo A),
  e successive modificazioni, statuendo che l’indennità di espropriazione
  di un’area edificabile è determinata in misura pari al valore venale
  del bene e che, quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare
  interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25
  per cento. Per i giudizi ancora in corso, in cui è in contestazione la misura
  dell’indennità di esproprio, trova applicazione il criterio del valore
  venale del bene, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n.
  2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica). In sostanza, quindi,
  fatta salva l’ipotesi di espropriazione finalizzata alla attuazione
  d’interventi di riforma economico-sociale (per i quali, comunque, è
  prevista una riduzione dell’indennità del solo 25 per cento),
  l’indennità di esproprio per i suoli edificabili è oggi corrispondente
  al valore di mercato del bene.  L’adozione del diverso
  criterio, astratto e predeterminato, previsto, per i suoli agricoli e per
  quelli non edificabili, dalle norme della cui legittimità costituzionale si
  dubita crea una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari,
  non essendo ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla quale il
  diritto a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato
  dell’area espropriata non debba essere riconosciuto anche a coloro che
  abbiano un terreno privo di vocazione edilizia.  3. — Nel giudizio di cui
  alla citata ordinanza n. 351 del 2010 si è costituita, con memoria depositata
  il 13 dicembre 2010, la signora W. F., parte privata nel giudizio de quo
  chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della
  normativa censurata.  Dopo avere premesso che il
  terreno espropriato costituiva il retrostante "giardino-orto
  murato" del fabbricato di famiglia nel territorio di Montoro Superiore,
  che tale ente già dal 1997, con il piano regolatore generale, aveva eliminato
  i vincoli imposti con il programma di fabbricazione del 1972, classificando
  il fondo come edificabile, e che nel 2008 aveva alienato parte del suolo
  espropriato (mq.819), per l’importo di euro 86.256,00, la parte privata
  rileva che, con la sentenza n. 348 del 2007, questa Corte ha affermato il
  principio secondo cui, al fine di ritenere costituzionalmente legittima la
  norma che disciplina l’indennità di espropriazione, è necessario che
  questa costituisca un "serio ristoro" e che sussista un ragionevole
  legame tra l’indennizzo e il valore venale del bene, come prescritto
  dalla Corte di Strasburgo.  La mancanza del
  "ragionevole legame" tra l’indennizzo e il valore di mercato,
  rileva, ad avviso della deducente, anche con riguardo alle aree non
  edificabili, in quanto il valore agricolo medio risulterebbe di molto
  inferiore al detto valore di mercato (sono richiamati i dati emergenti dalle consulenze
  espletate durante il lungo iter del processo). Pertanto, la normativa
  censurata con l’ordinanza di rimessione contrasterebbe con i parametri
  costituzionali evocati in tale provvedimento, anche alla luce dei principi
  affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980.  4. — La Corte di appello di
  Napoli, con ordinanza depositata il 7 aprile 2010 (r. o. n. 305 del 2010),
  dubita della legittimità costituzionale delle norme già censurate con
  l’ordinanza di cui si è trattato in precedenza, in riferimento ai
  medesimi parametri da questa evocati.  La Corte territoriale premette di essere chiamata a pronunciarsi
  in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di Salerno, avente ad oggetto
  la domanda di pagamento delle indennità di espropriazione e di occupazione
  temporanea, relative ad alcuni terreni di proprietà dell’attrice,
  espropriati dal Comune (con decreti del 10 febbraio 1998 e del 22 giugno
  1999) per la realizzazione del parco del Mercatello.  Dopo avere esposto il complesso
  iter processuale della vicenda, la rimettente rileva che, con sentenza non
  definitiva, emessa in sede di rinvio dalla Corte di cassazione, il Collegio
  ha accertato: a) che il suolo era incluso dall’originario piano
  regolatore generale del Comune di Salerno, approvato con decreto del
  Presidente della giunta regionale in data 4 febbraio 1965, in zona intensiva
  C tipologia 9 a
  formazione lineare e semiaperta; e che una successiva variante, adottata con
  delibera della stessa amministrazione n. 71 del 18 dicembre 1989,
  definitivamente approvata dal Presidente della giunta regionale della
  Campania con decreto n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva individuato una zona B
  (Pastena) omogenea già satura in cui l’aveva inclusa, con destinazione
  a standard urbanistici consistenti in spazi pubblici o riservati ad attività
  collettive, al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o
  attrezzature pubbliche d’interesse generico; b) che, sulla base dei
  criteri enunciati dalla Corte di cassazione, e cioè sulla base
  dell’esame dei requisiti oggettivi, di natura e struttura, che
  presentavano i vincoli contenuti nella variante, doveva ritenersi sussistente
  il carattere conformativo di essa (che consentiva di tenerne conto ai fini
  indennitari); c) che la natura inedificabile del suolo emergeva con chiarezza
  proprio dal disposto dell’art. 7, ultimo comma, della variante, secondo
  cui «Tutte le aree attualmente libere ricadenti nelle zone omogenee B, anche
  se comprese nei piani di recupero, a servizio o pertinenze (cortili, giardini
  e comunque spazi liberi a qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di
  fabbricati, sono assolutamente inedificabili anche in sede di recupero,
  ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti».  Ciò posto, la Corte napoletana osserva
  che, per la determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione
  temporanea, dovrebbe applicarsi il criterio del valore agricolo medio, ai
  sensi dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis, comma 4, del d.l.
  n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
  che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al titolo II
  della legge n. 865 del 1971). Essa, però, dubita della legittimità
  costituzionale del citato art. 5-bis, comma 4 (applicabile ai giudizi in
  corso alla data di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto),
  nonché della legittimità costituzionale dell’art. 16, commi quinto e
  sesto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della
  legge n. 10 del 1977, in
  quanto tali norme contemplano un criterio di determinazione delle indennità
  per i suoli agricoli e per quelli non edificabili del tutto disancorato dal
  loro effettivo valore di mercato.  La rimettente segnala che la
  questione è rilevante in quel giudizio. Infatti essa, con sentenza non
  definitiva, ha accertato la natura non edificabile del suolo e il valore
  agricolo medio per le colture prevalenti (agrumeto e frutteto), riportate nei
  dati catastali. In particolare, espone che il detto valore, all’epoca
  dei decreti di esproprio (anni 1998 e 1999), era per il frutteto di lire 8.670 a mq. e, per
  l’agrumeto, di lire 13.770
   a mq. per il 1998, ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a fronte di un
  valore di mercato (emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal
  consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da un atto
  notarile di compravendita) ed a lire 188.580 per il 1997 (desunto da un atto
  notarile di chiusura espropriativa).  A sostegno della non manifesta
  infondatezza, poi, svolge argomentazioni analoghe a quelle addotte
  nell’ordinanza depositata il 19 marzo 2010.  5. — Nel giudizio di
  legittimità costituzionale, con atto depositato il 4 novembre 2010, è
  intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
  dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
  dichiarata manifestamente infondata.  L’interveniente ripercorre
  l’iter normativo e giurisprudenziale, riguardante l’indennità di
  espropriazione, prendendo le mosse dall’art. 39 della legge n. 2359 del
  1865. Richiama alcune leggi speciali, pone l’accento sulla legge n. 865
  del 1971, come modificata dalla legge n. 10 del 1977, e rileva che con tale
  disciplina l’indennità fu commisurata al valore agricolo, ovvero allo
  stato dei luoghi relativo alle colture effettivamente praticate. Questa
  impostazione, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, fu determinata dal
  passaggio da un sistema di pianificazione edilizia di tipo autorizzatorio ad
  un sistema concessorio, in forza del quale lo jus aedificandi non fu più
  considerato una facoltà compresa nel diritto di proprietà del suolo ma una
  situazione giuridica attribuita a seguito di concessione. Tale normativa,
  però, non superò il vaglio di legittimità costituzionale (è richiamata la
  sentenza n. 5 del 1980), poiché questa Corte affermò che «l’indennizzo
  espropriativo deve costituire un "serio ristoro", e pertanto deve
  essere riferito al valore del bene ricavabile dalle sue caratteristiche
  essenziali e dalla sua potenziale utilizzazione economica».  Dopo una normativa transitoria,
  ritenuta a sua volta costituzionalmente non legittima (sentenza n. 223 del
  1983), il legislatore intervenne di nuovo con l’art. 5-bis del d.l. n.
  333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
  prevedendo due differenti criteri, il primo per i suoli edificabili (commi 1
  e 2), il secondo per le aree agricole o, comunque, non edificabili (comma 4).
  Questi criteri, ritenuti costituzionalmente legittimi (è richiamata la
  sentenza n. 283 del 1993), furono in sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40,
  commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, recante il T.U. delle espropriazioni per
  pubblica utilità.  Sul tema, però, intervenne la Corte europea dei diritti
  dell’uomo che, con decisione del 29 marzo 2006 (in causa Scordino
  contro Italia), definì non ragionevole e iniqua l’indennità contemplata
  in applicazione del criterio di cui all’art. 5-bis, stabilendo, tra
  l’altro, che, pur sussistendo al riguardo un ampio potere discrezionale
  dello Stato, senza una somma ragionevolmente proporzionale al valore venale
  del bene, una privazione di proprietà costituisce generalmente un pregiudizio
  eccessivo, nonché chiarendo che un’assenza totale di indennizzo può
  giustificarsi, sotto il profilo dell’art. 1 (del protocollo
  addizionale), solo in circostanze eccezionali, ancorché detta norma non
  garantisca sempre il diritto ad una riparazione integrale.  L’indirizzo espresso dalla
  Corte europea - prosegue la difesa dello Stato - fu poi condiviso da questa
  Corte che, con sentenza n. 348 del 2007, dichiarò fondata la questione di
  legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992,
  sollevata in relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, estendendo la
  declaratoria all’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.  La Corte, infatti, «ha ritenuto che i criteri per la
  determinazione dell’indennità di espropriazione debbano aver riguardo
  della base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo
  potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme e i vincoli
  degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori», pur non essendo
  necessario un ristoro integrale.  Quanto fin qui riportato, ad
  avviso dell’Avvocatura erariale, farebbe interamente riferimento alle
  aree edificabili. In ordine all’indennità espropriativa concernente le
  aree non edificabili (art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, ora
  sostituito dall’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001), oggetto
  del presente giudizio,il giudice a quo si sarebbe limitato ad effettuare un
  parallelismo con la diversa vicenda relativa ai terreni non edificabili,
  senza alcuna motivazione sul punto. Infatti, non avrebbe spiegato per quali
  ragioni, nel caso di specie, non vi sarebbe una determinazione
  dell’indennità commisurata all’effettivo valore del bene.  Invece, andrebbe posto in
  evidenza che, con riguardo alla disciplina previgente, questa Corte già
  avrebbe rilevato che le norme concernenti la determinazione
  dell’indennità «sono, pertanto, tuttora applicabili
  all’espropriazione di aree con destinazione agricola,in relazione alle
  quali non è stato riconosciuto sussistente alcun profilo di
  incostituzionalità, stante il collegamento della liquidazione
  dell’indennità con le effettive caratteristiche e la destinazione
  economica del bene» (sentenza n. 1022 del 1988).  La difesa dello Stato richiama
  l’art. 16 della legge n. 865 del 1971, cui l’art. 5bis, comma 4
  cit., rinvia, nonché l’art. 40 del d.P.R. n. 327 del 2001, rilevando
  che da entrambe le norme si potrebbe evincere come il valore
  dell’indennità sia legato al concreto valore del fondo, determinato dal
  valore agricolo e dai manufatti legittimamente realizzati, ed afferma che le
  vicende relative ai terreni agricoli mai avrebbero evidenziato problematiche
  particolari in ordine all’effettivo ristoro determinato
  dall’indennità espropriativa. Per le aree edificabili, invece, i
  problemi maggiori sarebbero stati collegati al passaggio «da un sistema di
  licenza edilizia a un sistema concessorio», diretto in sostanza ad
  equiparare, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, aree
  edificabili ad aree non edificabili, sul presupposto che la possibilità di
  costruire su un terreno non sarebbe una facoltà insita nel diritto di
  proprietà sullo stesso, ma dovesse costituire oggetto di una specifica
  concessione da parte dell’Amministrazione.  Ciò non sarebbe avvenuto con
  riguardo all’indennità per l’espropriazione delle aree non
  edificabili, della cui legittimità la giurisprudenza mai avrebbe dubitato.
  Infatti, basare l’indennizzo sulla coltura praticata sul terreno, o, in
  mancanza, sul tipo di coltura praticata nella zona, tenuto conto del valore
  dei manufatti legittimamente realizzati, costituirebbe un criterio adeguato
  per la determinazione del "serio ristoro".  Inoltre, andrebbe considerata la
  possibilità del sindacato giurisdizionale sulle tabelle formate dalle commissioni
  amministrative per il calcolo dell’indennizzo, giungendo fino alla
  relativa disapplicazione. Ancora, andrebbe ricordato che sia la decisione
  della Corte europea nella causa Scordino contro lo Stato italiano, sia la
  sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, avrebbero ritenuto non idonea
  l’indennità a causa della decurtazione del 40 per cento del valore,
  qualora non si fosse pervenuti alla cessione volontaria. Mai si sarebbe
  postulata una determinazione precisa e puntuale del valore del bene - quasi che
  l’indennizzo fosse un risarcimento dei danni - ma anzi si sarebbe
  sottolineato come «il ristoro possa non essere integrale purché faccia
  riferimento al valore del bene determinato in ragione del suo effettivo e
  potenziale utilizzo», proprio come stabilito dall’art. 16 legge n. 865
  del 1971 e dall’art. 40 d.P.R. n. 327 del 2001.  Nessuna decurtazione sarebbe
  stata prevista per le aree non edificabili, sicché il giudice a quo si
  sarebbe limitato a tracciare un astratto parallelismo con la disciplina
  dettata per l’indennità espropriativa dei suoli edificabili, senza
  tener conto delle concrete differenze tra le due fattispecie.  6. — Nel giudizio di
  legittimità costituzionale, con memoria depositata il 5 novembre 2010, si è
  costituita la parte privata L. F., aderendo alle argomentazioni esposte
  nell’ordinanza di rimessione e concludendo per la declaratoria di
  fondatezza della questione.  7. — Con memoria
  depositata l’8 novembre 2010 si è costituito anche il Comune di
  Salerno, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore (previa
  delibera della Giunta municipale n. 1130 del 15 ottobre 2010).  L’ente territoriale, dopo
  aver richiamato le vicende che hanno scandito la controversia in corso tra le
  parti, ricorda che la tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione ha
  già formato oggetto di esame da parte di questa Corte con sentenza n. 261 del
  1997, che dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale
  della normativa in questa sede censurata, sollevata in riferimento agli artt.
  3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost.  Il Comune richiama i principi
  affermati dalla menzionata sentenza, rimarcando che essa,
  nell’escludere la possibilità di introdurre nell’ordinamento un
  "tertium genus" tra aree edificabili e quelle non edificabili, ha
  ritenuto la detta disciplina non irragionevole e non arbitraria, e comunque
  non idonea a pregiudicare il serio ristoro del proprietario espropriato; ed
  afferma che «il Collegio distrettuale, mentre non ha potuto sostenere che, in
  ogni caso, il valore di mercato e il V. A. M. sono sempre notevolmente
  differenziati, attraverso i riferimenti alle ipotesi elencate a titolo di
  esempio si è collocato pur sempre nell’ottica di un utilizzo del suolo
  agricolo privo di attitudine edificatoria quale complemento di insediamenti
  edilizi e, quindi, mirando alla valorizzazione, ai fini della determinazione
  dell’indennità di espropriazione, di quel tertium genus dei beni
  ablati», per l’appunto escluso dalla sentenza n. 261 del 2007.  La Corte rimettente avrebbe ritenuto di poter superare la
  preclusione derivante da tale sentenza, evocando come parametro
  costituzionale violato l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
  con le norme internazionali convenzionali e, in particolare, col primo
  protocollo addizionale della CEDU.  Ad avviso dell’ente, le
  argomentazioni al riguardo svolte nell’ordinanza non sarebbero
  rilevanti ai fini del tema in questione, perché non vi sarebbe alcuna norma o
  direttiva comunitaria (cui peraltro la materia espropriativa è estranea) in
  contrasto con il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione
  delle aree non edificabili, come disciplinato dalle disposizioni oggi in
  esame, mentre tutte le decisioni della Corte di Strasburgo avrebbero avuto
  riguardo a suoli con destinazione edificatoria, per i quali il meccanismo
  fissato dalla normativa, poi dichiarata illegittima, avrebbe comportato una
  sensibilissima decurtazione del valore di mercato.  In particolare, le decisioni del
  giudice di Strasburgo, pronunziate contro lo Stato italiano, avrebbero
  ritenuto incompatibile con il dettato dell’art. 1 dell’allegato 1
  alla Convenzione la privazione di un terreno in forza della cosiddetta
  "occupazione acquisitiva"(sono richiamate varie decisioni della
  Corte europea), ed avrebbe chiarito che «benché lo Stato contraente goda di
  un margine di discrezionalità nel determinare l’indennizzo in
  dipendenza di un’espropriazione legittima, l’art. 5 bis legge
  n.359/1992, parametrando l’indennità di espropriazione ad un valore
  largamente inferiore a quello di mercato del bene espropriato, senza prendere
  in considerazione la tipologia dell’esproprio, determina una rottura
  del "giusto equilibrio" tra le esigenze dell’interesse
  generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
  dell’individuo, violando l’art. 1 del Protocollo n. 1 della
  Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, alla stregua della
  giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo è consentita una
  quantificazione dell’indennizzo inferiore al valore commerciale nei
  soli casi di espropriazione correlata a riforme economiche, sociali o
  politiche o in presenza di particolari circostanze di pubblica utilità» (è
  richiamata la sentenza della Corte europea in causa Scordino contro Italia).  L’ente territoriale rileva
  che tale indirizzo è stato confermato da questa Corte con le sentenze n. 348
  e n. 349 del 2007.  Osserva, poi, che non sarebbe
  determinante, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale in esame, la
  comparazione operata dalla rimettente tra il valore agricolo medio per le
  colture prevalenti (agrumeto o frutteto), riportate nei dati catastali, e il
  valore di mercato del suolo come emergente dagli atti acquisiti dal
  consulente di ufficio. Infatti, andrebbe rilevato che il procedimento di
  formazione delle tabelle del valore agricolo medio, disciplinato
  dall’art. 16 legge n. 865 del 1971, sarebbe realizzato da esperti
  particolarmente qualificati, sicché non sarebbe possibile contestare in linea
  di principio la congruenza e la correttezza delle stime eseguite atte ad
  individuare i dati per i calcoli necessari.  In particolare, la cadenza annua
  fissata per la compilazione delle tabelle comporterebbe un aggiornamento
  periodico delle stime e, quindi, garantirebbe l’aderenza di queste ai
  dati reali, a differenza della normativa dettata per le aree edificabili. Ed
  andrebbe, altresì, sottolineato, come chiarito di recente anche dalla Corte
  di cassazione, che l’indennità di espropriazione per i terreni agricoli
  «deve essere determinata secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971,
  artt. 15 e 16, richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4,
  ovvero commisurata al valore agricolo medio, secondo i tipi di coltura
  effettivamente in atto, contemplati dalle tabelle redatte dalle competenti
  commissioni, disapplicabili dal giudice per vizi di legittimità, e non
  sostituendo ad esse, per ragioni di opportunità, le proprie autonome
  valutazioni» (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, Sezioni
  Unite Civili, n. 22753 del 2009).  Inoltre, a prescindere dal
  rilievo che manca qualsiasi prova circa la natura dei suoli individuati
  nell’ordinanza di rimessione quali parametri di riferimento, sarebbe
  erronea la presunzione della Corte di merito, secondo cui si potrebbe
  valutare la legittimità costituzionale della normativa in esame con riguardo
  ad un singolo caso.  Ad avviso del Comune, la
  questione di legittimità costituzionale della normativa censurata andrebbe
  dichiarata inammissibile, perché esporrebbe argomenti già respinti da questa
  Corte, e comunque infondata, anche in riferimento all’art. 117, primo
  comma, Cost., perché formulata sull’indimostrato presupposto che la
  determinazione dell’indennità secondo i criteri tabellari conduca in
  ogni caso alla liquidazione di un indennizzo in misura irrisoria o, comunque,
  molto inferiore al valore di mercato del bene.  Non vi sarebbe dubbio, invece,
  che un esproprio compiuto per realizzare una variante generale al piano
  regolatore di una città, al fine di garantire il rispetto degli standard
  urbanistici prescritti dal legislatore nazionale, e che ha comportato una
  nuova zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso,
  sia sicuramente finalizzata ad una profonda modifica urbanistica "di
  pubblica utilità", per la quale «è consentita una quantificazione
  dell’indennizzo inferiore al valore commerciale».  La tesi esposta
  nell’ordinanza di rimessione sarebbe basata sul dato apodittico che il
  valore agricolo medio, maggiorato attraverso i correttivi dettati dal
  legislatore, determini un’indennità meramente simbolica o arbitraria.  Il Comune, poi, contesta i
  rilievi mossi dalla Corte territoriale alla sentenza di questa Corte n. 261
  del 1997, richiamando il principio affermato da detta sentenza, secondo cui
  «la scelta legislativa non presenta caratteri di irragionevolezza o di
  arbitrarietà tali da far riscontrare un vizio sotto i profili denunciati, né
  comunque pregiudica di per sé il serio ed effettivo ristoro del proprietario
  espropriato». Pertanto, sarebbe privo di pregio l’assunto che «è la
  stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il
  calcolo dell’indennizzo - e non già la mancata previsione di una terza
  tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili - che
  appare priva di giustificazione».  Infatti, come già sottolineato,
  il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione per i suoli
  agricoli o non aventi attitudini edificatorie contemplerebbe una serie di
  parametri correttivi in aumento, proprio allo scopo di giungere ad una
  individuazione del valore del bene espropriato prossimo a quello di mercato.  In questo quadro andrebbe
  dichiarata la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza, e in
  subordine l’inammissibilità o l’infondatezza, delle questioni
  sollevate.  8. — La Corte di appello di Lecce,
  con ordinanza depositata l’8 ottobre 2010, ha sollevato, in
  riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale
  dell’art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con
  modificazioni, dal d.l. n. 333 del 1992, e dell’art. 40, commi 1 e 2,
  del d.P.R. n. 327 del 2001.  La Corte distrettuale premette di dover pronunciare nella
  controversia promossa da M. G. P. e M. A. (quali eredi di I. M. C.) nei
  confronti del Comune di Francavilla Fontana, concernente (tra l’altro)
  la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa ad un
  suolo, già oggetto di cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio
  e qualificato non edificatorio dalla medesima Corte di appello con sentenza
  non definitiva n. 611 del 2010, pronunciata a seguito di rinvio disposto
  dalla Corte di cassazione.  La rimettente ricorda che
  l’indennità di espropriazione per i suoli agricoli e, come nella
  specie, per quelli gravati da vincolo di inedificabilità va determinata, ai
  sensi della normativa vigente all’epoca della cessione, sulla base del
  «valore agricolo medio del terreno, a prescindere dalla sua destinazione
  economica, quale si determina in base alla media dei valori, nell’anno
  solare precedente il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati
  nell’ambito della medesima regione agraria, nei quali siano praticate
  le medesime colture in opera nel fondo espropriato». Ciò per consolidata
  giurisprudenza della Corte di cassazione, in applicazione degli artt. 15 e 16
  legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni, che devolvono alla
  commissione provinciale l’individuazione del valore agricolo medio.  La giurisprudenza avrebbe
  altresì puntualizzato, sempre con orientamento univoco, «che il parametro di
  riferimento non coincide con il prezzo di mercato del fondo e con il suo
  valore venale».  Ad avviso della rimettente,
  l’ordinamento si starebbe «evolvendo in senso divergente». In
  particolare, per le aree edificabili, a seguito della declaratoria di
  illegittimità costituzionale, adottata da questa Corte con la sentenza n. 348
  del 2007 e relativa all’art. 5-bis, commi 1 e 2, d.l. n. 333 del 1992,
  convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché
  all’art. 37, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, si applicherebbe il
  criterio del valore di mercato del bene: ai sensi dell’art. 39 legge n.
  2359 del 1865 «nei giudizi di espropriazione in corso soggetti al regime
  pregresso»; ai sensi dell’art. 2, comma 89, lettera a), legge n. 244
  del 2007, «nei procedimenti espropriativi in corso».  Pertanto, prima il giudice delle
  leggi, poi il legislatore e la giurisprudenza formatasi a seguito dei
  relativi interventi, avrebbero preso come "punto di arrivo" -
  quanto alle aree edificabili - il valore di mercato del bene; e ciò starebbe
  a significare che oggi, per i giudizi in corso, sempre in relazione alle aree
  predette, il "serio ristoro", richiamato in numerose sentenze di
  questa Corte, sarebbe fatto coincidere con il prezzo di mercato.  Già sotto questo profilo, la
  diversa disciplina di cui alla normativa censurata, disancorata dal prezzo di
  mercato o valore venale, applicabile ai suoli agricoli e a quelli (come nella
  specie) raggiunti da vincoli di inedificabilità, apparirebbe irragionevole e,
  quindi, di dubbia costituzionalità, ai sensi dell’art. 3 Cost.  Il valore agrario, previsto di
  fatto in via automatica, potrebbe non rivelarsi un "serio ristoro"
  e, plausibilmente, non si rivelerebbe tale nella presente vicenda, avuto
  riguardo alla qualità e alla localizzazione del suolo (alla periferia del
  paese).  Sotto altro aspetto, la
  questione di legittimità costituzionale della normativa censurata si porrebbe
  con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., costituente il parametro
  in base al quale questa Corte pronunciò la declaratoria di illegittimità
  costituzionale di cui alla sentenza n. 348 del 2007.  La rimettente, poi, richiama la
  giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e il dettato
  dell’art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione europea,
  rimarcando che l’osservanza degli obblighi internazionali che ne
  discendono esigerebbe piena riparazione del pregiudizio derivante
  dall’esproprio, anche nel caso di suoli agricoli o equiparati, mediante
  la commisurazione dell’indennità al loro valore di mercato.  9. — Nel giudizio di
  legittimità costituzionale è intervenuto, con atto depositato il 19 gennaio
  2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
  dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
  dichiarata manifestamente infondata, sulla base di considerazioni analoghe a
  quelle esposte con l’atto d’intervento depositato nel giudizio r.
  o. n. 305 del 2010 (punto 5, che precede).  10. — Nei giudizi
  contrassegnati con i n. r. o. 305 e del 2010., in prossimità
  dell’udienza di discussione, il Comune di Salerno e la parte privata
  (quest’ultima, però, fuori termine) hanno depositato memorie
  illustrative.  Considerato in diritto  1. — La Corte di appello di Napoli
  (sezione prima civile, in diversa composizione), con le due ordinanze
  indicate in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 42,
  terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione - questioni di
  legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11
  luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
  pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
  nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e
  sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
  dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
  pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n.
  1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di
  spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
  residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14
  legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).  A sua volta la Corte di appello di Lecce,
  con l’ordinanza del pari indicata in epigrafe, ha sollevato questione
  di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n.
  333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
  nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
  unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
  espropriazione per pubblica utilità - Testo A), in riferimento agli artt. 3 e
  117 Cost.  Ad avviso delle rimettenti, la
  normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione
  dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non
  edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo
  medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria
  di appartenenza dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla
  considerazione dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e
  tale da non assicurare all’avente diritto il versamento di un
  indennizzo integrale o, quanto meno, "ragionevole", si porrebbe in
  contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per
  la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
  (CEDU), cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica
  ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
  dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
  1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il
  20 marzo 1952), nella interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti
  dell’uomo, così violando l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto
  al quale la disposizione convenzionale opererebbe come norma interposta.  Inoltre, sarebbe violato
  l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia
  tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione
  dell’indennità di esproprio, valido in ogni fattispecie espropriativa,
  o ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal
  proprietario, l’indennità non può mai essere simbolica o irrisoria, ma
  deve rappresentare un "serio ristoro". Per realizzare tale risultato
  si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in relazione alle sue
  caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
  economica di esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la
  sentenza n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in relazione ai
  terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle rimettenti, anche con
  riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili.  Infine, sarebbe configurabile
  anche violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i
  suoli agricoli e per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata
  disparità di trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari
  di suoli edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore
  di mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione.  2. — I tre giudizi di
  legittimità costituzionale, per l’identità dell’oggetto e dei
  parametri evocati, vanno riuniti e decisi con la medesima sentenza.  3. — L’ordinanza
  della Corte di appello di Lecce censura (tra l’altro) l’art. 5-bis,
  comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
  n. 359 del 1992.  Detta norma dispone che «Per la
  valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le
  possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento
  dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio».  Come il dettato normativo
  rivela, si tratta di disposizione diretta ad individuare i criteri per la
  valutazione di edificabilità delle aree. Nel caso di specie, è pacifico, ed
  emerge dall’ordinanza di rimessione, che il suolo de quo, oggetto di
  cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio, è stato dichiarato
  non edificatorio dalla Corte di appello di Lecce con sentenza non definitiva
  n. 611 del 2010. Pertanto la
   Corte rimettente non deve fare applicazione della norma
  suddetta, in ordine alla quale, del resto, non si rinviene
  nell’ordinanza una specifica motivazione diretta a spiegare le ragioni
  della sua evocazione.  Ne deriva che la questione,
  sollevata con riferimento al citato art. 5-bis, comma 3, deve essere
  dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.  4. — Ai fini
  dell’identificazione del thema decidendum, con riguardo alle norme
  censurate e ai parametri invocati, si deve osservare che le due ordinanze
  della Corte di appello di Napoli, nei rispettivi dispositivi, censurano (tra
  l’altro) l’art. 16, commi quarto e quinto, della legge n. 865 del
  1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977. Peraltro,
  come emerge in modo chiaro dalle motivazioni delle ordinanze, le disposizioni
  impugnate sono quelle dettate dall’art. 16, commi quinto e sesto, il
  cui tenore è anche trascritto nelle ordinanze medesime, sicché nessun dubbio
  può nutrirsi circa l’oggetto delle questioni, in forza del noto
  criterio secondo cui il dispositivo va interpretato in riferimento alla
  motivazione (sentenza n. 236 del 2009).  A sua volta, l’ordinanza
  della Corte di appello di Lecce nel dispositivo solleva la questione di
  legittimità costituzionale con riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e
  all’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, senza menzionare
  la legge n. 865 del 1971, al cui titolo II il medesimo art. 5-bis rinvia.
  Nella motivazione, però, sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge n. 865
  del 1971 e successive modificazioni, «che devolvono alla Commissione
  provinciale l’individuazione del valore agricolo medio», mentre le
  argomentazioni svolte rendono palese che oggetto delle censure è, per
  l’appunto, il criterio del valore agricolo medio, o "valore
  agrario", «previsto di fatto in via automatica e, come tale, non
  influenzabile da quello venale». Anche in tal caso, dunque, in base allo
  stesso principio dianzi indicato, l’oggetto della questione è
  agevolmente identificabile.  5. — Le ordinanze di
  rimessione (a parte l’accenno contenuto in quella della Corte di
  appello di Lecce) non coinvolgono nello scrutinio di legittimità
  costituzionale l’art. 15 legge n. 865 del 1971, nel testo sostituito
  dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, concernente la determinazione
  dell’indennità di espropriazione non accettata nel termine di cui
  all’art. 12, primo comma, della medesima legge n. 865 del 1971. Ai
  sensi di tale disposizione, su richiesta del presidente della giunta regionale,
  la commissione competente per territorio di cui al successivo art. 16
  determina l’indennità, sulla base del valore agricolo con riferimento
  alle colture effettivamente praticate sul fondo espropriato, anche in
  relazione all’esercizio dell’azienda agricola. Il dettato
  letterale della norma, dunque, non richiama il valore agricolo medio.
  Tuttavia la giurisprudenza della Corte di cassazione, con indirizzo ormai
  configurabile come diritto vivente, ha ripetutamente affermato che gli artt.
  15 e 16 della legge n. 865 del 1971 (nel testo sostituito dall’art. 14
  della legge n. 10 del 1977) vanno letti in collegamento l’uno con
  l’altro, sicché il valore agricolo menzionato nell’art. 15, primo
  comma, secondo periodo, è per l’appunto il valore agricolo medio contemplato
  dal combinato disposto delle due norme (ex multis: Cass., sentenza n. 17679
  del 2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009; Cass., sent.
  n. 17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006).  Del resto, anche le ordinanze di
  rimessione trattano unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili,
  sicché lo scrutinio di legittimità costituzionale deve essere esteso anche al
  citato art. 15, primo comma, secondo periodo, unico essendo per i detti suoli
  il criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione.  6. — Nel merito, le
  questioni sono fondate.  6.1. — In premessa, si
  deve ricordare che, ai sensi dell’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001
  «Le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i
  quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta
  la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso
  continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data» (fissata al
  30 giugno 2003: art. 59 del citato d.P.R.). Nelle controversie a quibus, come
  si evince dalle date dei decreti di esproprio e (quanto all’ordinanza
  della Corte di appello di Lecce) dalla data di stipula dell’atto di
  cessione volontaria con riserva di conguaglio, le suddette dichiarazioni erano
  intervenute in epoca molto risalente, sicché trova applicazione la normativa
  censurata, non già l’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001,
  evocato dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale detta Corte non
  deve fare applicazione.  6.2. — La normativa
  censurata è dettata dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992,
  convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 che, per la
  determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree
  agricole ed a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia
  alle norme di cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive
  modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio è all’art. 16,
  commi quinto e sesto, di detta legge, come sostituiti dall’art. 14
  della legge n. 10 del 1977.  La norma, per la parte oggetto
  di censura, stabilisce che l’indennità di espropriazione, per le aree
  esterne ai centri edificati di cui all’art. 18, è commisurata al valore
  agricolo medio annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali,
  valore corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da
  espropriare (comma quinto); ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri
  edificati, l’indennità è commisurata al valore agricolo medio della
  coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade
  l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento
  di quella coltivata della regione agraria stessa (comma sesto).  Tale disciplina, ad avviso delle
  rimettenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo
  addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
  e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, CEDU),
  nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
  e quindi violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., nel testo
  introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
  titolo V della parte seconda della Costituzione).  6.3. — In via preliminare,
  si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i
  rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU,
  come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati
  nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla
  luce di essi, si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non
  suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina
  censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo
  ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro
  costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del
  parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse
  data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento
  costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate).  Orbene, la Corte europea, con
  decisione della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse
  dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona
  fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere
  privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle
  condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto
  internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto
  degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per
  disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse
  generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi
  oppure di ammende»  Ha poi stabilito (tra gli altri)
  i seguenti principi: a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del
  protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza,
  relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni,
  devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima
  norma (punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve
  contemperare un "giusto equilibrio" tra le esigenze
  dell’interesse generale della comunità e il requisito della
  salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c)
  nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo
  Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i
  mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti
  dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per
  il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base
  dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo
  potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio
  in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto
  94); e) come la Corte
  ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in
  ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce
  un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può
  essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo
  n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita
  dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in caso di
  "espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica utilità,
  soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto
  ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica
  utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure
  tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare
  un indennizzo inferiore al valore di mercato (punto 97). I principi,
  stabiliti dalla Corte di Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato
  conferma nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si è
  richiamata (tra le più recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà
  contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca
  contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1°aprile 2008, in causa Gigli
  Costruzioni s.r.l. contro Italia).  6.4. — Nella
  giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione che
  l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo
  comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita
  subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con
  l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare - non
  può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma
  deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991;
  sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del
  1983; sentenza n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che,
  per raggiungere tale finalità, «occorre fare riferimento, per la
  determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle
  sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
  economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la
  congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia
  meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene».  Ad analoghe conclusioni è giunta
  la già citata sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere
  esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle
  caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla
  sentenza n. 355 del 1985).  Si deve rilevare, a questo
  punto, che le suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non
  significa, tuttavia, che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli
  ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria.  Invero, l’art. 1 del primo
  protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione
  chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas
  rei. E non a caso la Corte
  europea ha posto in risalto proprio tale previsione generale, stabilendo che
  alla luce di essa (prima proposizione) vanno interpretati i disposti della
  seconda e della terza (sentenza Scordino contro Italia, punto 78). Del resto,
  non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in
  esame, un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo,
  tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non
  suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la
  sentenza n. 348 del 2007
   ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte
  costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel
  ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di
  espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato».
  E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene,
  perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà
  postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta
  indennità.  Con ciò non si vuol negare che
  le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non
  omogeneo. Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i
  suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che
  l’indennità si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene».  In senso contrario non varrebbe
  richiamare la sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata
  non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa
  censurata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.  Infatti, quella pronuncia è
  anteriore alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
  3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché
  nella fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro
  costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost.,
  attualmente vigente.  7. — Alla luce di detto
  parametro, in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale
  della CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti
  dell’uomo, nonché dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora
  verificare il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione
  contemplato dalla normativa censurata, la quale prevede che, per i suoli
  agricoli e per quelli non edificabili, la detta indennità sia commisurata al
  valore agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata
  dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni.
  Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito
  delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni provinciali, con le
  modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi richiamate).  Orbene, il valore tabellare così
  calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo,
  ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene.
  Restano così trascurate le
  caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
  non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza
  di elementi come l’acqua, l’energia elettrica,
  l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo
  e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio,
  dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole
  legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della
  Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il "serio ristoro"
  richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n.
  348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto).  E’ vero che il legislatore
  non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di
  espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è
  garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di
  Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica
  utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in
  rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio
  l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità
  dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali
  meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo
  sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165
  del 1988), in guisa da garantire il "giusto equilibrio"tra
  l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
  degli individui.  Sulla base delle esposte
  considerazioni deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
  della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo
  comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale
  della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
  libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di
  Strasburgo, e con l’art. 42, terzo comma, Cost.  Gli ulteriori profili dedotti in
  riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti.  8. — Ai sensi
  dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
  e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata
  l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del
  d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di
  espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione
  dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile,
  adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio
  del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella
  zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una
  disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla
  presente sentenza.  La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al
  comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di
  un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è
  previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è
  determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle
  colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi
  legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio
  dell’azienda agricola.  La mancata previsione del valore
  agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul
  fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente
  orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.  Per questi motivi  LA CORTE
   COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,  dichiara l’illegittimità
  costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio
  1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
  convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato
  disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi
  quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
  dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
  pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n.
  1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di
  spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
  residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14
  della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);  dichiara, ai sensi
  dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
  e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità
  costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3,
  decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
  delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
  per pubblica utilità);  dichiara inammissibile la
  questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del
  d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del
  1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, dalla
  Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.  Così deciso in Roma, nella sede
  della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.  Depositata in Cancelleria il 10
  giugno 2011.        |