CORTE COSTITUZIONALE -
sentenza 10 giugno 2011 n. 181 anche in
applicazione dell’aricolo 1 della CEDU dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40,
commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in
materia di espropriazione, che in caso di esproprio di un’area non
edificabile, adotta il criterio del valore agricolo medio corrispondente al
tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da
espropriare e, quindi, contiene una disciplina che non tiene conto del valore
del bene in concreto
Ritenuto in fatto
1. — La Corte di appello di
Napoli, con ordinanza depositata il 19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per
il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla
legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto
(recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi
e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17
agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore
dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti
dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la
edificabilità dei suoli).
2. — La Corte territoriale
riferisce di essere chiamata a pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla
signora N. W. F. nei confronti del Comune di Montoro Superiore e diretto ad
ottenere la condanna di quest’ultimo al pagamento (tra l’altro)
dell’indennità di espropriazione e dell’indennità di occupazione
legittima, relative all’esproprio di un suolo, appartenente
all’attrice, situato nel territorio del detto ente. In una prima fase
del processo il consulente di ufficio aveva rilevato che il terreno, pur se
classificato come agricolo nel piano di fabbricazione adottato dal Comune di
Montoro Superiore, era ubicato a ridosso del centro cittadino, in una zona in
possesso di tutte le caratteristiche dei suoli edificatori, e sicuramente
appetibile anche in vista di un suo possibile sfruttamento per fini diversi
dall’edificazione, sicché lo aveva valutato in lire 55.851 al mq., con riferimento
al dicembre 1982; successivamente era stata disposta una nuova consulenza,
volta a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo 1985), il
suolo de quo avesse valore agricolo o edificabile e a determinare
l’importo delle due indennità. Il consulente aveva accertato che il
terreno in questione era classificato nel catasto terreni del Comune di
Montoro Superiore come "seminativo arborato" e che, in base al
programma di fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972 al 12
maggio 1997, era, per la sua maggiore estensione, destinato ad uso pubblico
per servizi vari, per una parte minore inserito in zona B di completamento e
per una terza parte interessato alla realizzazione di una strada. Tuttavia,
in base alle prescrizioni del programma di fabbricazione, nella zona B
dell’area espropriata era precluso ogni tipo di edificazione e non era
consentita neppure la costruzione in aderenza con l’edificio, di
proprietà dell’attrice, con essa confinante, soggetto,nel piano di
recupero del Comune, soltanto ad interventi di restauro e di risanamento
conservativo.
Una volta accertata la non
edificabilità del suolo, il consulente aveva applicato i criteri di
liquidazione delle indennità stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865
del 1971, cui rinvia l’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 e,
rilevato che il Comune di Montoro Superiore ricadeva nella regione agraria n.
8 della Provincia di Avellino e che, nel 1985, in tale regione il
valore agricolo medio di un terreno seminativo arborato era di lire 1.200 a mq., aveva
determinato l’indennità di espropriazione spettante all’attrice
in complessivi euro 588,76 (lire 1.140.000) e quella di occupazione in
complessivi euro 49,06.
Tanto premesso, la Corte rimettente, chiamata
a decidere unicamente della misura delle indennità di espropriazione e di
occupazione spettanti all’attrice, dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, d.l. n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché
dell’art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come
sostituiti dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, «che, secondo il diritto
vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo alle aree non
aventi destinazione edilizia».
Ad avviso della rimettente tali
disposizioni, non suscettibili di un’interpretazione diversa da quella
letterale, stabiliscono un criterio di determinazione dei suoli agricoli e
dei suoli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di
mercato.
Invero - la Corte di merito prosegue -
«ancorché non possa escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio
(V.A.M.) di tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto,
coincidenti, non v’è dubbio che assai spesso il primo valore risulti
(anche notevolmente) superiore al secondo, in quanto l’appetibilità di
un terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilità, ma da
molteplici altri fattori, primi fra tutti la sua posizione e le concrete
possibilità di suo sfruttamento per fini diversi dalla coltivazione».
La questione sarebbe rilevante
nel presente giudizio. Infatti, sarebbe rimasto accertato che il valore di
mercato del terreno in questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq.,
con riferimento al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore
di lire 55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore agricolo
medio della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di appena lire 1.200 al
mq. o, al più, di lire 6.200 al mq. (volendo ritenere erronea la determinazione
del C.T.U. per non aver considerato che, trattandosi di terreno compreso in
un centro edificato, l’indennità si sarebbe dovuta commisurare al
valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella
regione agraria, coprivano una superficie superiore al 5 per cento di quella
coltivata nella regione stessa).
Inoltre, il suolo di proprietà
della F. era certamente inedificabile, avuto riguardo alla natura
conformativa (e non espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti,
all’inesistenza di un presunto giudicato sull’edificabilità di
fatto del suolo, alla costante giurisprudenza della Corte di cassazione,
integrante un vero e proprio diritto vivente, alla stregua della quale il
sistema introdotto dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 si caratterizza
per una rigida dicotomia, con esclusione di un "tertium genus", tra
"aree edificabili" ed "aree agricole" o "non
classificabili come edificabili".
Al criterio
dell’edificabilità di fatto, dunque, potrebbe farsi riferimento in via
complementare ed integrativa, agli effetti della determinazione del concreto
valore di mercato dell’area espropriata, soltanto nelle ipotesi
(estranee al caso in esame) in cui sussistano cause idonee a ridurre o
escludere le possibilità reali di edificazione o in cui difetti una
classificazione del suolo da parte della pianificazione urbanistica.
Si dovrebbe, perciò, concludere
che, trattandosi di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della
legge n. 359 del 1992, l’indennità di esproprio andrebbe liquidata alla
stregua dei criteri dettati dalle norme censurate, con la conseguenza che la
somma spettante alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria.
In questo quadro, sarebbe
ravvisabile, in primo luogo, violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., per contrasto delle dette norme con l’art. 1 del primo
protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla legge n. 848
del 1955.
Il giudice a quo riassume, al
riguardo, i principi affermati da questa Corte con le sentenze n. 348 e n.
349 del 2007, richiama il dettato della citata norma convenzionale e
sottolinea che la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha interpretato tale norma in numerose
sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi anche
in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di
espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce
un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o
giuridica deve realizzare un "giusto equilibrio" tra le esigenze di
interesse generale della comunità ed il principio della salvaguardia dei
diritti e delle libertà fondamentali».
La necessità di salvaguardare
detto equilibrio riguarderebbe, secondo la Corte europea, tutto il contenuto
dell’art. 1 del primo protocollo.
Al fine di stabilire se le
misure adottate da uno Stato, nell’interesse generale, garantiscano un
giusto equilibrio e non riversino sul proprietario un peso sproporzionato,
andrebbero prese in considerazione le modalità d’indennizzo previste
dalle leggi interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe osservato che,
senza il versamento di una somma ragionevole in rapporto al valore del bene,
la privazione della proprietà che si realizza attraverso l’esproprio
costituisce normalmente un’ingerenza eccessiva in violazione
dell’art. 1 del primo protocollo, aggiungendo che, in caso di
espropriazione isolata di un terreno, soltanto un indennizzo integrale può
essere considerato ragionevole, mentre la mancanza di un tale indennizzo può
giustificarsi soltanto in presenza di obiettivi legittimi di pubblica
utilità, volti a perseguire misure di riforma economica o di giustizia
sociale.
Ad avviso della Corte
territoriale la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione
dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non
edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo
medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria
di appartenenza dell’area da espropriare), quindi del tutto svincolato
dal valore di mercato dei suoli stessi, non sarebbe in grado di assicurare
all’avente diritto un indennizzo integrale o almeno
"ragionevole", così ponendosi in contrasto con l’art. 1 del
primo protocollo, nell’interpretazione data dalla Corte europea.
Andrebbe escluso, poi, che tale
interpretazione si ponga in conflitto con la tutela di interessi
costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
Infatti, anche l’art. 42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato
da questa Corte nel senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad
individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido
in ogni fattispecie espropriativa o idoneo ad assicurare l’integrale
riparazione della perdita subita dal proprietario espropriato,
l’indennità medesima non deve mai essere meramente simbolica o
irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (è richiamata la sentenza
di questa Corte n. 5 del 1980).
È vero che, con sentenza n. 261
del 1997, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
costituzionale della normativa censurata, sollevata in riferimento agli artt.
3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. La questione, però, in quella
sede sarebbe stata affrontata in base a rilievi diversi, sicché la Corte si sarebbe limitata
ad osservare che la soluzione adottata dal legislatore per semplificare il
calcolo indennitario, ancorché non obbligata, non era irragionevole o
arbitraria, in quanto di per sé non pregiudicava il serio ed effettivo
ristoro del proprietario espropriato.
In questa sede, invece, verrebbe
in evidenza l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo
all’art. 1 del primo protocollo addizionale, in base alla quale non
potrebbe ritenersi ragionevole qualsiasi criterio di determinazione
dell’indennità che prescinda dal dato di partenza, costituito dal
valore di mercato del bene espropriato, «non dovendosi più valutare se la
norma interna di per sé "non pregiudichi" il serio ed effettivo
ristoro della perdita del bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di
assicurare tale ristoro in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione
e non solo in via occasionale, in virtù di fattori casuali e contingenti,
legati alla specifica situazione del terreno ablato».
In tale prospettiva - prosegue la Corte territoriale - «è la
stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il
calcolo dell’indennizzo - e non già la mancata previsione di una terza
tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili - che
appare priva di giustificazione».
La considerazione, del resto,
sarebbe in linea con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del
1980, poi ribadito nella sentenza n. 348 del 2007, ovvero che, affinché possa
realizzarsi un serio ristoro «occorre far riferimento, per la determinazione
dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue
caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
economica di esso, secondo legge» e che «il principio del serio ristoro è
violato quando per la determinazione non si considerino le caratteristiche
del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal
valore di esso».
Tali principi, ancorché
enunciati da questa Corte solo con riguardo ai terreni edificabili,
dovrebbero ritenersi validi ed operanti anche in relazione ai terreni
agricoli e, a maggior ragione, a quelli privi di possibilità legali ed
effettive di edificazione, ai primi equiparati dalla legge n. 359 del 1992,
perché nell’attuale contesto storico ed economico l’interesse del
privato all’acquisto di tali categorie di terreni sarebbe determinato
dalle possibilità di sfruttarli per fini diversi da quello di impiantarvi una
coltivazione, sicché non sarebbe più predicabile una corrispondenza tra il
loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato.
Per le medesime ragioni, la
questione di legittimità costituzionale delle norme censurate per violazione
dell’art. 42, terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata.
Infine, non sarebbe
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa
all’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, e all’art. 16,
commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, per violazione
dell’art. 3 Cost.
Invero, rileva la rimettente,
per effetto della sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse
dall’ordinamento le disposizioni secondo le quali l’indennità di
esproprio dei suoli edificabili andava determinata in misura pari alla media
tra il valore venale e il reddito dominicale rivalutato degli ultimi dieci
anni.
Per le espropriazioni ancora in
corso (e per quelle future) è intervenuto l’art. 2 della legge 24
dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), il cui comma 89, lettera
a), ha sostituito l’art. 37, comma 1, decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. Testo A),
e successive modificazioni, statuendo che l’indennità di espropriazione
di un’area edificabile è determinata in misura pari al valore venale
del bene e che, quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare
interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25
per cento. Per i giudizi ancora in corso, in cui è in contestazione la misura
dell’indennità di esproprio, trova applicazione il criterio del valore
venale del bene, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n.
2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica). In sostanza, quindi,
fatta salva l’ipotesi di espropriazione finalizzata alla attuazione
d’interventi di riforma economico-sociale (per i quali, comunque, è
prevista una riduzione dell’indennità del solo 25 per cento),
l’indennità di esproprio per i suoli edificabili è oggi corrispondente
al valore di mercato del bene.
L’adozione del diverso
criterio, astratto e predeterminato, previsto, per i suoli agricoli e per
quelli non edificabili, dalle norme della cui legittimità costituzionale si
dubita crea una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari,
non essendo ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla quale il
diritto a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato
dell’area espropriata non debba essere riconosciuto anche a coloro che
abbiano un terreno privo di vocazione edilizia.
3. — Nel giudizio di cui
alla citata ordinanza n. 351 del 2010 si è costituita, con memoria depositata
il 13 dicembre 2010, la signora W. F., parte privata nel giudizio de quo
chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della
normativa censurata.
Dopo avere premesso che il
terreno espropriato costituiva il retrostante "giardino-orto
murato" del fabbricato di famiglia nel territorio di Montoro Superiore,
che tale ente già dal 1997, con il piano regolatore generale, aveva eliminato
i vincoli imposti con il programma di fabbricazione del 1972, classificando
il fondo come edificabile, e che nel 2008 aveva alienato parte del suolo
espropriato (mq.819), per l’importo di euro 86.256,00, la parte privata
rileva che, con la sentenza n. 348 del 2007, questa Corte ha affermato il
principio secondo cui, al fine di ritenere costituzionalmente legittima la
norma che disciplina l’indennità di espropriazione, è necessario che
questa costituisca un "serio ristoro" e che sussista un ragionevole
legame tra l’indennizzo e il valore venale del bene, come prescritto
dalla Corte di Strasburgo.
La mancanza del
"ragionevole legame" tra l’indennizzo e il valore di mercato,
rileva, ad avviso della deducente, anche con riguardo alle aree non
edificabili, in quanto il valore agricolo medio risulterebbe di molto
inferiore al detto valore di mercato (sono richiamati i dati emergenti dalle consulenze
espletate durante il lungo iter del processo). Pertanto, la normativa
censurata con l’ordinanza di rimessione contrasterebbe con i parametri
costituzionali evocati in tale provvedimento, anche alla luce dei principi
affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980.
4. — La Corte di appello di
Napoli, con ordinanza depositata il 7 aprile 2010 (r. o. n. 305 del 2010),
dubita della legittimità costituzionale delle norme già censurate con
l’ordinanza di cui si è trattato in precedenza, in riferimento ai
medesimi parametri da questa evocati.
La Corte territoriale premette di essere chiamata a pronunciarsi
in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di Salerno, avente ad oggetto
la domanda di pagamento delle indennità di espropriazione e di occupazione
temporanea, relative ad alcuni terreni di proprietà dell’attrice,
espropriati dal Comune (con decreti del 10 febbraio 1998 e del 22 giugno
1999) per la realizzazione del parco del Mercatello.
Dopo avere esposto il complesso
iter processuale della vicenda, la rimettente rileva che, con sentenza non
definitiva, emessa in sede di rinvio dalla Corte di cassazione, il Collegio
ha accertato: a) che il suolo era incluso dall’originario piano
regolatore generale del Comune di Salerno, approvato con decreto del
Presidente della giunta regionale in data 4 febbraio 1965, in zona intensiva
C tipologia 9 a
formazione lineare e semiaperta; e che una successiva variante, adottata con
delibera della stessa amministrazione n. 71 del 18 dicembre 1989,
definitivamente approvata dal Presidente della giunta regionale della
Campania con decreto n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva individuato una zona B
(Pastena) omogenea già satura in cui l’aveva inclusa, con destinazione
a standard urbanistici consistenti in spazi pubblici o riservati ad attività
collettive, al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o
attrezzature pubbliche d’interesse generico; b) che, sulla base dei
criteri enunciati dalla Corte di cassazione, e cioè sulla base
dell’esame dei requisiti oggettivi, di natura e struttura, che
presentavano i vincoli contenuti nella variante, doveva ritenersi sussistente
il carattere conformativo di essa (che consentiva di tenerne conto ai fini
indennitari); c) che la natura inedificabile del suolo emergeva con chiarezza
proprio dal disposto dell’art. 7, ultimo comma, della variante, secondo
cui «Tutte le aree attualmente libere ricadenti nelle zone omogenee B, anche
se comprese nei piani di recupero, a servizio o pertinenze (cortili, giardini
e comunque spazi liberi a qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di
fabbricati, sono assolutamente inedificabili anche in sede di recupero,
ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti».
Ciò posto, la Corte napoletana osserva
che, per la determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione
temporanea, dovrebbe applicarsi il criterio del valore agricolo medio, ai
sensi dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis, comma 4, del d.l.
n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al titolo II
della legge n. 865 del 1971). Essa, però, dubita della legittimità
costituzionale del citato art. 5-bis, comma 4 (applicabile ai giudizi in
corso alla data di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto),
nonché della legittimità costituzionale dell’art. 16, commi quinto e
sesto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della
legge n. 10 del 1977, in
quanto tali norme contemplano un criterio di determinazione delle indennità
per i suoli agricoli e per quelli non edificabili del tutto disancorato dal
loro effettivo valore di mercato.
La rimettente segnala che la
questione è rilevante in quel giudizio. Infatti essa, con sentenza non
definitiva, ha accertato la natura non edificabile del suolo e il valore
agricolo medio per le colture prevalenti (agrumeto e frutteto), riportate nei
dati catastali. In particolare, espone che il detto valore, all’epoca
dei decreti di esproprio (anni 1998 e 1999), era per il frutteto di lire 8.670 a mq. e, per
l’agrumeto, di lire 13.770
a mq. per il 1998, ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a fronte di un
valore di mercato (emergente dagli atti di comparazione acquisiti dal
consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da un atto
notarile di compravendita) ed a lire 188.580 per il 1997 (desunto da un atto
notarile di chiusura espropriativa).
A sostegno della non manifesta
infondatezza, poi, svolge argomentazioni analoghe a quelle addotte
nell’ordinanza depositata il 19 marzo 2010.
5. — Nel giudizio di
legittimità costituzionale, con atto depositato il 4 novembre 2010, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente infondata.
L’interveniente ripercorre
l’iter normativo e giurisprudenziale, riguardante l’indennità di
espropriazione, prendendo le mosse dall’art. 39 della legge n. 2359 del
1865. Richiama alcune leggi speciali, pone l’accento sulla legge n. 865
del 1971, come modificata dalla legge n. 10 del 1977, e rileva che con tale
disciplina l’indennità fu commisurata al valore agricolo, ovvero allo
stato dei luoghi relativo alle colture effettivamente praticate. Questa
impostazione, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, fu determinata dal
passaggio da un sistema di pianificazione edilizia di tipo autorizzatorio ad
un sistema concessorio, in forza del quale lo jus aedificandi non fu più
considerato una facoltà compresa nel diritto di proprietà del suolo ma una
situazione giuridica attribuita a seguito di concessione. Tale normativa,
però, non superò il vaglio di legittimità costituzionale (è richiamata la
sentenza n. 5 del 1980), poiché questa Corte affermò che «l’indennizzo
espropriativo deve costituire un "serio ristoro", e pertanto deve
essere riferito al valore del bene ricavabile dalle sue caratteristiche
essenziali e dalla sua potenziale utilizzazione economica».
Dopo una normativa transitoria,
ritenuta a sua volta costituzionalmente non legittima (sentenza n. 223 del
1983), il legislatore intervenne di nuovo con l’art. 5-bis del d.l. n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
prevedendo due differenti criteri, il primo per i suoli edificabili (commi 1
e 2), il secondo per le aree agricole o, comunque, non edificabili (comma 4).
Questi criteri, ritenuti costituzionalmente legittimi (è richiamata la
sentenza n. 283 del 1993), furono in sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40,
commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, recante il T.U. delle espropriazioni per
pubblica utilità.
Sul tema, però, intervenne la Corte europea dei diritti
dell’uomo che, con decisione del 29 marzo 2006 (in causa Scordino
contro Italia), definì non ragionevole e iniqua l’indennità contemplata
in applicazione del criterio di cui all’art. 5-bis, stabilendo, tra
l’altro, che, pur sussistendo al riguardo un ampio potere discrezionale
dello Stato, senza una somma ragionevolmente proporzionale al valore venale
del bene, una privazione di proprietà costituisce generalmente un pregiudizio
eccessivo, nonché chiarendo che un’assenza totale di indennizzo può
giustificarsi, sotto il profilo dell’art. 1 (del protocollo
addizionale), solo in circostanze eccezionali, ancorché detta norma non
garantisca sempre il diritto ad una riparazione integrale.
L’indirizzo espresso dalla
Corte europea - prosegue la difesa dello Stato - fu poi condiviso da questa
Corte che, con sentenza n. 348 del 2007, dichiarò fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992,
sollevata in relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, estendendo la
declaratoria all’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte, infatti, «ha ritenuto che i criteri per la
determinazione dell’indennità di espropriazione debbano aver riguardo
della base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo
potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme e i vincoli
degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori», pur non essendo
necessario un ristoro integrale.
Quanto fin qui riportato, ad
avviso dell’Avvocatura erariale, farebbe interamente riferimento alle
aree edificabili. In ordine all’indennità espropriativa concernente le
aree non edificabili (art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, ora
sostituito dall’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001), oggetto
del presente giudizio,il giudice a quo si sarebbe limitato ad effettuare un
parallelismo con la diversa vicenda relativa ai terreni non edificabili,
senza alcuna motivazione sul punto. Infatti, non avrebbe spiegato per quali
ragioni, nel caso di specie, non vi sarebbe una determinazione
dell’indennità commisurata all’effettivo valore del bene.
Invece, andrebbe posto in
evidenza che, con riguardo alla disciplina previgente, questa Corte già
avrebbe rilevato che le norme concernenti la determinazione
dell’indennità «sono, pertanto, tuttora applicabili
all’espropriazione di aree con destinazione agricola,in relazione alle
quali non è stato riconosciuto sussistente alcun profilo di
incostituzionalità, stante il collegamento della liquidazione
dell’indennità con le effettive caratteristiche e la destinazione
economica del bene» (sentenza n. 1022 del 1988).
La difesa dello Stato richiama
l’art. 16 della legge n. 865 del 1971, cui l’art. 5bis, comma 4
cit., rinvia, nonché l’art. 40 del d.P.R. n. 327 del 2001, rilevando
che da entrambe le norme si potrebbe evincere come il valore
dell’indennità sia legato al concreto valore del fondo, determinato dal
valore agricolo e dai manufatti legittimamente realizzati, ed afferma che le
vicende relative ai terreni agricoli mai avrebbero evidenziato problematiche
particolari in ordine all’effettivo ristoro determinato
dall’indennità espropriativa. Per le aree edificabili, invece, i
problemi maggiori sarebbero stati collegati al passaggio «da un sistema di
licenza edilizia a un sistema concessorio», diretto in sostanza ad
equiparare, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, aree
edificabili ad aree non edificabili, sul presupposto che la possibilità di
costruire su un terreno non sarebbe una facoltà insita nel diritto di
proprietà sullo stesso, ma dovesse costituire oggetto di una specifica
concessione da parte dell’Amministrazione.
Ciò non sarebbe avvenuto con
riguardo all’indennità per l’espropriazione delle aree non
edificabili, della cui legittimità la giurisprudenza mai avrebbe dubitato.
Infatti, basare l’indennizzo sulla coltura praticata sul terreno, o, in
mancanza, sul tipo di coltura praticata nella zona, tenuto conto del valore
dei manufatti legittimamente realizzati, costituirebbe un criterio adeguato
per la determinazione del "serio ristoro".
Inoltre, andrebbe considerata la
possibilità del sindacato giurisdizionale sulle tabelle formate dalle commissioni
amministrative per il calcolo dell’indennizzo, giungendo fino alla
relativa disapplicazione. Ancora, andrebbe ricordato che sia la decisione
della Corte europea nella causa Scordino contro lo Stato italiano, sia la
sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, avrebbero ritenuto non idonea
l’indennità a causa della decurtazione del 40 per cento del valore,
qualora non si fosse pervenuti alla cessione volontaria. Mai si sarebbe
postulata una determinazione precisa e puntuale del valore del bene - quasi che
l’indennizzo fosse un risarcimento dei danni - ma anzi si sarebbe
sottolineato come «il ristoro possa non essere integrale purché faccia
riferimento al valore del bene determinato in ragione del suo effettivo e
potenziale utilizzo», proprio come stabilito dall’art. 16 legge n. 865
del 1971 e dall’art. 40 d.P.R. n. 327 del 2001.
Nessuna decurtazione sarebbe
stata prevista per le aree non edificabili, sicché il giudice a quo si
sarebbe limitato a tracciare un astratto parallelismo con la disciplina
dettata per l’indennità espropriativa dei suoli edificabili, senza
tener conto delle concrete differenze tra le due fattispecie.
6. — Nel giudizio di
legittimità costituzionale, con memoria depositata il 5 novembre 2010, si è
costituita la parte privata L. F., aderendo alle argomentazioni esposte
nell’ordinanza di rimessione e concludendo per la declaratoria di
fondatezza della questione.
7. — Con memoria
depositata l’8 novembre 2010 si è costituito anche il Comune di
Salerno, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore (previa
delibera della Giunta municipale n. 1130 del 15 ottobre 2010).
L’ente territoriale, dopo
aver richiamato le vicende che hanno scandito la controversia in corso tra le
parti, ricorda che la tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione ha
già formato oggetto di esame da parte di questa Corte con sentenza n. 261 del
1997, che dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale
della normativa in questa sede censurata, sollevata in riferimento agli artt.
3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost.
Il Comune richiama i principi
affermati dalla menzionata sentenza, rimarcando che essa,
nell’escludere la possibilità di introdurre nell’ordinamento un
"tertium genus" tra aree edificabili e quelle non edificabili, ha
ritenuto la detta disciplina non irragionevole e non arbitraria, e comunque
non idonea a pregiudicare il serio ristoro del proprietario espropriato; ed
afferma che «il Collegio distrettuale, mentre non ha potuto sostenere che, in
ogni caso, il valore di mercato e il V. A. M. sono sempre notevolmente
differenziati, attraverso i riferimenti alle ipotesi elencate a titolo di
esempio si è collocato pur sempre nell’ottica di un utilizzo del suolo
agricolo privo di attitudine edificatoria quale complemento di insediamenti
edilizi e, quindi, mirando alla valorizzazione, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione, di quel tertium genus dei beni
ablati», per l’appunto escluso dalla sentenza n. 261 del 2007.
La Corte rimettente avrebbe ritenuto di poter superare la
preclusione derivante da tale sentenza, evocando come parametro
costituzionale violato l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
con le norme internazionali convenzionali e, in particolare, col primo
protocollo addizionale della CEDU.
Ad avviso dell’ente, le
argomentazioni al riguardo svolte nell’ordinanza non sarebbero
rilevanti ai fini del tema in questione, perché non vi sarebbe alcuna norma o
direttiva comunitaria (cui peraltro la materia espropriativa è estranea) in
contrasto con il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione
delle aree non edificabili, come disciplinato dalle disposizioni oggi in
esame, mentre tutte le decisioni della Corte di Strasburgo avrebbero avuto
riguardo a suoli con destinazione edificatoria, per i quali il meccanismo
fissato dalla normativa, poi dichiarata illegittima, avrebbe comportato una
sensibilissima decurtazione del valore di mercato.
In particolare, le decisioni del
giudice di Strasburgo, pronunziate contro lo Stato italiano, avrebbero
ritenuto incompatibile con il dettato dell’art. 1 dell’allegato 1
alla Convenzione la privazione di un terreno in forza della cosiddetta
"occupazione acquisitiva"(sono richiamate varie decisioni della
Corte europea), ed avrebbe chiarito che «benché lo Stato contraente goda di
un margine di discrezionalità nel determinare l’indennizzo in
dipendenza di un’espropriazione legittima, l’art. 5 bis legge
n.359/1992, parametrando l’indennità di espropriazione ad un valore
largamente inferiore a quello di mercato del bene espropriato, senza prendere
in considerazione la tipologia dell’esproprio, determina una rottura
del "giusto equilibrio" tra le esigenze dell’interesse
generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell’individuo, violando l’art. 1 del Protocollo n. 1 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, alla stregua della
giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo è consentita una
quantificazione dell’indennizzo inferiore al valore commerciale nei
soli casi di espropriazione correlata a riforme economiche, sociali o
politiche o in presenza di particolari circostanze di pubblica utilità» (è
richiamata la sentenza della Corte europea in causa Scordino contro Italia).
L’ente territoriale rileva
che tale indirizzo è stato confermato da questa Corte con le sentenze n. 348
e n. 349 del 2007.
Osserva, poi, che non sarebbe
determinante, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale in esame, la
comparazione operata dalla rimettente tra il valore agricolo medio per le
colture prevalenti (agrumeto o frutteto), riportate nei dati catastali, e il
valore di mercato del suolo come emergente dagli atti acquisiti dal
consulente di ufficio. Infatti, andrebbe rilevato che il procedimento di
formazione delle tabelle del valore agricolo medio, disciplinato
dall’art. 16 legge n. 865 del 1971, sarebbe realizzato da esperti
particolarmente qualificati, sicché non sarebbe possibile contestare in linea
di principio la congruenza e la correttezza delle stime eseguite atte ad
individuare i dati per i calcoli necessari.
In particolare, la cadenza annua
fissata per la compilazione delle tabelle comporterebbe un aggiornamento
periodico delle stime e, quindi, garantirebbe l’aderenza di queste ai
dati reali, a differenza della normativa dettata per le aree edificabili. Ed
andrebbe, altresì, sottolineato, come chiarito di recente anche dalla Corte
di cassazione, che l’indennità di espropriazione per i terreni agricoli
«deve essere determinata secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971,
artt. 15 e 16, richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4,
ovvero commisurata al valore agricolo medio, secondo i tipi di coltura
effettivamente in atto, contemplati dalle tabelle redatte dalle competenti
commissioni, disapplicabili dal giudice per vizi di legittimità, e non
sostituendo ad esse, per ragioni di opportunità, le proprie autonome
valutazioni» (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, Sezioni
Unite Civili, n. 22753 del 2009).
Inoltre, a prescindere dal
rilievo che manca qualsiasi prova circa la natura dei suoli individuati
nell’ordinanza di rimessione quali parametri di riferimento, sarebbe
erronea la presunzione della Corte di merito, secondo cui si potrebbe
valutare la legittimità costituzionale della normativa in esame con riguardo
ad un singolo caso.
Ad avviso del Comune, la
questione di legittimità costituzionale della normativa censurata andrebbe
dichiarata inammissibile, perché esporrebbe argomenti già respinti da questa
Corte, e comunque infondata, anche in riferimento all’art. 117, primo
comma, Cost., perché formulata sull’indimostrato presupposto che la
determinazione dell’indennità secondo i criteri tabellari conduca in
ogni caso alla liquidazione di un indennizzo in misura irrisoria o, comunque,
molto inferiore al valore di mercato del bene.
Non vi sarebbe dubbio, invece,
che un esproprio compiuto per realizzare una variante generale al piano
regolatore di una città, al fine di garantire il rispetto degli standard
urbanistici prescritti dal legislatore nazionale, e che ha comportato una
nuova zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso,
sia sicuramente finalizzata ad una profonda modifica urbanistica "di
pubblica utilità", per la quale «è consentita una quantificazione
dell’indennizzo inferiore al valore commerciale».
La tesi esposta
nell’ordinanza di rimessione sarebbe basata sul dato apodittico che il
valore agricolo medio, maggiorato attraverso i correttivi dettati dal
legislatore, determini un’indennità meramente simbolica o arbitraria.
Il Comune, poi, contesta i
rilievi mossi dalla Corte territoriale alla sentenza di questa Corte n. 261
del 1997, richiamando il principio affermato da detta sentenza, secondo cui
«la scelta legislativa non presenta caratteri di irragionevolezza o di
arbitrarietà tali da far riscontrare un vizio sotto i profili denunciati, né
comunque pregiudica di per sé il serio ed effettivo ristoro del proprietario
espropriato». Pertanto, sarebbe privo di pregio l’assunto che «è la
stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di semplificare il
calcolo dell’indennizzo - e non già la mancata previsione di una terza
tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili - che
appare priva di giustificazione».
Infatti, come già sottolineato,
il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione per i suoli
agricoli o non aventi attitudini edificatorie contemplerebbe una serie di
parametri correttivi in aumento, proprio allo scopo di giungere ad una
individuazione del valore del bene espropriato prossimo a quello di mercato.
In questo quadro andrebbe
dichiarata la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza, e in
subordine l’inammissibilità o l’infondatezza, delle questioni
sollevate.
8. — La Corte di appello di Lecce,
con ordinanza depositata l’8 ottobre 2010, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dal d.l. n. 333 del 1992, e dell’art. 40, commi 1 e 2,
del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte distrettuale premette di dover pronunciare nella
controversia promossa da M. G. P. e M. A. (quali eredi di I. M. C.) nei
confronti del Comune di Francavilla Fontana, concernente (tra l’altro)
la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa ad un
suolo, già oggetto di cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio
e qualificato non edificatorio dalla medesima Corte di appello con sentenza
non definitiva n. 611 del 2010, pronunciata a seguito di rinvio disposto
dalla Corte di cassazione.
La rimettente ricorda che
l’indennità di espropriazione per i suoli agricoli e, come nella
specie, per quelli gravati da vincolo di inedificabilità va determinata, ai
sensi della normativa vigente all’epoca della cessione, sulla base del
«valore agricolo medio del terreno, a prescindere dalla sua destinazione
economica, quale si determina in base alla media dei valori, nell’anno
solare precedente il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati
nell’ambito della medesima regione agraria, nei quali siano praticate
le medesime colture in opera nel fondo espropriato». Ciò per consolidata
giurisprudenza della Corte di cassazione, in applicazione degli artt. 15 e 16
legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni, che devolvono alla
commissione provinciale l’individuazione del valore agricolo medio.
La giurisprudenza avrebbe
altresì puntualizzato, sempre con orientamento univoco, «che il parametro di
riferimento non coincide con il prezzo di mercato del fondo e con il suo
valore venale».
Ad avviso della rimettente,
l’ordinamento si starebbe «evolvendo in senso divergente». In
particolare, per le aree edificabili, a seguito della declaratoria di
illegittimità costituzionale, adottata da questa Corte con la sentenza n. 348
del 2007 e relativa all’art. 5-bis, commi 1 e 2, d.l. n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché
all’art. 37, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, si applicherebbe il
criterio del valore di mercato del bene: ai sensi dell’art. 39 legge n.
2359 del 1865 «nei giudizi di espropriazione in corso soggetti al regime
pregresso»; ai sensi dell’art. 2, comma 89, lettera a), legge n. 244
del 2007, «nei procedimenti espropriativi in corso».
Pertanto, prima il giudice delle
leggi, poi il legislatore e la giurisprudenza formatasi a seguito dei
relativi interventi, avrebbero preso come "punto di arrivo" -
quanto alle aree edificabili - il valore di mercato del bene; e ciò starebbe
a significare che oggi, per i giudizi in corso, sempre in relazione alle aree
predette, il "serio ristoro", richiamato in numerose sentenze di
questa Corte, sarebbe fatto coincidere con il prezzo di mercato.
Già sotto questo profilo, la
diversa disciplina di cui alla normativa censurata, disancorata dal prezzo di
mercato o valore venale, applicabile ai suoli agricoli e a quelli (come nella
specie) raggiunti da vincoli di inedificabilità, apparirebbe irragionevole e,
quindi, di dubbia costituzionalità, ai sensi dell’art. 3 Cost.
Il valore agrario, previsto di
fatto in via automatica, potrebbe non rivelarsi un "serio ristoro"
e, plausibilmente, non si rivelerebbe tale nella presente vicenda, avuto
riguardo alla qualità e alla localizzazione del suolo (alla periferia del
paese).
Sotto altro aspetto, la
questione di legittimità costituzionale della normativa censurata si porrebbe
con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., costituente il parametro
in base al quale questa Corte pronunciò la declaratoria di illegittimità
costituzionale di cui alla sentenza n. 348 del 2007.
La rimettente, poi, richiama la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e il dettato
dell’art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione europea,
rimarcando che l’osservanza degli obblighi internazionali che ne
discendono esigerebbe piena riparazione del pregiudizio derivante
dall’esproprio, anche nel caso di suoli agricoli o equiparati, mediante
la commisurazione dell’indennità al loro valore di mercato.
9. — Nel giudizio di
legittimità costituzionale è intervenuto, con atto depositato il 19 gennaio
2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente infondata, sulla base di considerazioni analoghe a
quelle esposte con l’atto d’intervento depositato nel giudizio r.
o. n. 305 del 2010 (punto 5, che precede).
10. — Nei giudizi
contrassegnati con i n. r. o. 305 e del 2010., in prossimità
dell’udienza di discussione, il Comune di Salerno e la parte privata
(quest’ultima, però, fuori termine) hanno depositato memorie
illustrative.
Considerato in diritto
1. — La Corte di appello di Napoli
(sezione prima civile, in diversa composizione), con le due ordinanze
indicate in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 42,
terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione - questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e
sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n.
1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di
spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14
legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).
A sua volta la Corte di appello di Lecce,
con l’ordinanza del pari indicata in epigrafe, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità - Testo A), in riferimento agli artt. 3 e
117 Cost.
Ad avviso delle rimettenti, la
normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione
dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non
edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo
medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria
di appartenenza dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla
considerazione dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e
tale da non assicurare all’avente diritto il versamento di un
indennizzo integrale o, quanto meno, "ragionevole", si porrebbe in
contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica
ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il
20 marzo 1952), nella interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, così violando l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto
al quale la disposizione convenzionale opererebbe come norma interposta.
Inoltre, sarebbe violato
l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia
tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione
dell’indennità di esproprio, valido in ogni fattispecie espropriativa,
o ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal
proprietario, l’indennità non può mai essere simbolica o irrisoria, ma
deve rappresentare un "serio ristoro". Per realizzare tale risultato
si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in relazione alle sue
caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
economica di esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la
sentenza n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in relazione ai
terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle rimettenti, anche con
riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili.
Infine, sarebbe configurabile
anche violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i
suoli agricoli e per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata
disparità di trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari
di suoli edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore
di mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione.
2. — I tre giudizi di
legittimità costituzionale, per l’identità dell’oggetto e dei
parametri evocati, vanno riuniti e decisi con la medesima sentenza.
3. — L’ordinanza
della Corte di appello di Lecce censura (tra l’altro) l’art. 5-bis,
comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 359 del 1992.
Detta norma dispone che «Per la
valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le
possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio».
Come il dettato normativo
rivela, si tratta di disposizione diretta ad individuare i criteri per la
valutazione di edificabilità delle aree. Nel caso di specie, è pacifico, ed
emerge dall’ordinanza di rimessione, che il suolo de quo, oggetto di
cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio, è stato dichiarato
non edificatorio dalla Corte di appello di Lecce con sentenza non definitiva
n. 611 del 2010. Pertanto la
Corte rimettente non deve fare applicazione della norma
suddetta, in ordine alla quale, del resto, non si rinviene
nell’ordinanza una specifica motivazione diretta a spiegare le ragioni
della sua evocazione.
Ne deriva che la questione,
sollevata con riferimento al citato art. 5-bis, comma 3, deve essere
dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
4. — Ai fini
dell’identificazione del thema decidendum, con riguardo alle norme
censurate e ai parametri invocati, si deve osservare che le due ordinanze
della Corte di appello di Napoli, nei rispettivi dispositivi, censurano (tra
l’altro) l’art. 16, commi quarto e quinto, della legge n. 865 del
1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977. Peraltro,
come emerge in modo chiaro dalle motivazioni delle ordinanze, le disposizioni
impugnate sono quelle dettate dall’art. 16, commi quinto e sesto, il
cui tenore è anche trascritto nelle ordinanze medesime, sicché nessun dubbio
può nutrirsi circa l’oggetto delle questioni, in forza del noto
criterio secondo cui il dispositivo va interpretato in riferimento alla
motivazione (sentenza n. 236 del 2009).
A sua volta, l’ordinanza
della Corte di appello di Lecce nel dispositivo solleva la questione di
legittimità costituzionale con riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e
all’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, senza menzionare
la legge n. 865 del 1971, al cui titolo II il medesimo art. 5-bis rinvia.
Nella motivazione, però, sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge n. 865
del 1971 e successive modificazioni, «che devolvono alla Commissione
provinciale l’individuazione del valore agricolo medio», mentre le
argomentazioni svolte rendono palese che oggetto delle censure è, per
l’appunto, il criterio del valore agricolo medio, o "valore
agrario", «previsto di fatto in via automatica e, come tale, non
influenzabile da quello venale». Anche in tal caso, dunque, in base allo
stesso principio dianzi indicato, l’oggetto della questione è
agevolmente identificabile.
5. — Le ordinanze di
rimessione (a parte l’accenno contenuto in quella della Corte di
appello di Lecce) non coinvolgono nello scrutinio di legittimità
costituzionale l’art. 15 legge n. 865 del 1971, nel testo sostituito
dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, concernente la determinazione
dell’indennità di espropriazione non accettata nel termine di cui
all’art. 12, primo comma, della medesima legge n. 865 del 1971. Ai
sensi di tale disposizione, su richiesta del presidente della giunta regionale,
la commissione competente per territorio di cui al successivo art. 16
determina l’indennità, sulla base del valore agricolo con riferimento
alle colture effettivamente praticate sul fondo espropriato, anche in
relazione all’esercizio dell’azienda agricola. Il dettato
letterale della norma, dunque, non richiama il valore agricolo medio.
Tuttavia la giurisprudenza della Corte di cassazione, con indirizzo ormai
configurabile come diritto vivente, ha ripetutamente affermato che gli artt.
15 e 16 della legge n. 865 del 1971 (nel testo sostituito dall’art. 14
della legge n. 10 del 1977) vanno letti in collegamento l’uno con
l’altro, sicché il valore agricolo menzionato nell’art. 15, primo
comma, secondo periodo, è per l’appunto il valore agricolo medio contemplato
dal combinato disposto delle due norme (ex multis: Cass., sentenza n. 17679
del 2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009; Cass., sent.
n. 17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006).
Del resto, anche le ordinanze di
rimessione trattano unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili,
sicché lo scrutinio di legittimità costituzionale deve essere esteso anche al
citato art. 15, primo comma, secondo periodo, unico essendo per i detti suoli
il criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione.
6. — Nel merito, le
questioni sono fondate.
6.1. — In premessa, si
deve ricordare che, ai sensi dell’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001
«Le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i
quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta
la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso
continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data» (fissata al
30 giugno 2003: art. 59 del citato d.P.R.). Nelle controversie a quibus, come
si evince dalle date dei decreti di esproprio e (quanto all’ordinanza
della Corte di appello di Lecce) dalla data di stipula dell’atto di
cessione volontaria con riserva di conguaglio, le suddette dichiarazioni erano
intervenute in epoca molto risalente, sicché trova applicazione la normativa
censurata, non già l’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001,
evocato dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale detta Corte non
deve fare applicazione.
6.2. — La normativa
censurata è dettata dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 che, per la
determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree
agricole ed a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia
alle norme di cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive
modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio è all’art. 16,
commi quinto e sesto, di detta legge, come sostituiti dall’art. 14
della legge n. 10 del 1977.
La norma, per la parte oggetto
di censura, stabilisce che l’indennità di espropriazione, per le aree
esterne ai centri edificati di cui all’art. 18, è commisurata al valore
agricolo medio annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali,
valore corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da
espropriare (comma quinto); ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri
edificati, l’indennità è commisurata al valore agricolo medio della
coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade
l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento
di quella coltivata della regione agraria stessa (comma sesto).
Tale disciplina, ad avviso delle
rimettenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, CEDU),
nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
e quindi violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., nel testo
introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione).
6.3. — In via preliminare,
si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i
rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU,
come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati
nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla
luce di essi, si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non
suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina
censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo
ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro
costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del
parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse
data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento
costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate).
Orbene, la Corte europea, con
decisione della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse
dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona
fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere
privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle
condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto
internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto
degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per
disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse
generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi
oppure di ammende»
Ha poi stabilito (tra gli altri)
i seguenti principi: a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del
protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza,
relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni,
devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima
norma (punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve
contemperare un "giusto equilibrio" tra le esigenze
dell’interesse generale della comunità e il requisito della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c)
nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo
Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i
mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti
dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per
il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base
dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo
potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio
in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto
94); e) come la Corte
ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in
ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce
un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può
essere considerata giustificabile, ai sensi dell’art. 1 del protocollo
n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita
dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in caso di
"espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica utilità,
soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto
ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica
utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure
tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare
un indennizzo inferiore al valore di mercato (punto 97). I principi,
stabiliti dalla Corte di Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato
conferma nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si è
richiamata (tra le più recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà
contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca
contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1°aprile 2008, in causa Gigli
Costruzioni s.r.l. contro Italia).
6.4. — Nella
giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione che
l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo
comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita
subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con
l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare - non
può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma
deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991;
sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del
1983; sentenza n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che,
per raggiungere tale finalità, «occorre fare riferimento, per la
determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle
sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la
congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia
meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene».
Ad analoghe conclusioni è giunta
la già citata sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere
esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle
caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla
sentenza n. 355 del 1985).
Si deve rilevare, a questo
punto, che le suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non
significa, tuttavia, che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli
ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria.
Invero, l’art. 1 del primo
protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione
chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas
rei. E non a caso la Corte
europea ha posto in risalto proprio tale previsione generale, stabilendo che
alla luce di essa (prima proposizione) vanno interpretati i disposti della
seconda e della terza (sentenza Scordino contro Italia, punto 78). Del resto,
non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in
esame, un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo,
tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non
suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la
sentenza n. 348 del 2007
ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte
costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel
ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di
espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato».
E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene,
perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà
postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta
indennità.
Con ciò non si vuol negare che
le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non
omogeneo. Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i
suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che
l’indennità si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene».
In senso contrario non varrebbe
richiamare la sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata
non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa
censurata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.
Infatti, quella pronuncia è
anteriore alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché
nella fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro
costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost.,
attualmente vigente.
7. — Alla luce di detto
parametro, in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale
della CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, nonché dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora
verificare il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione
contemplato dalla normativa censurata, la quale prevede che, per i suoli
agricoli e per quelli non edificabili, la detta indennità sia commisurata al
valore agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata
dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni.
Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito
delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni provinciali, con le
modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi richiamate).
Orbene, il valore tabellare così
calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo,
ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene.
Restano così trascurate le
caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che
non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza
di elementi come l’acqua, l’energia elettrica,
l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo
e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio,
dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole
legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il "serio ristoro"
richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n.
348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto).
E’ vero che il legislatore
non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di
espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è
garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di
Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di pubblica
utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in
rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio
l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità
dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali
meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo
sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165
del 1988), in guisa da garantire il "giusto equilibrio"tra
l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
degli individui.
Sulla base delle esposte
considerazioni deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di
Strasburgo, e con l’art. 42, terzo comma, Cost.
Gli ulteriori profili dedotti in
riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti.
8. — Ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del
d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di
espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione
dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile,
adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio
del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella
zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una
disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla
presente sentenza.
La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al
comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di
un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è
previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è
determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle
colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio
dell’azienda agricola.
La mancata previsione del valore
agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul
fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente
orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
Per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio
1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato
disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi
quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per
pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n.
1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di
spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14
della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli);
dichiara, ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione
e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità
costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3,
decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità);
dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del
d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del
1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, dalla
Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.
Depositata in Cancelleria il 10
giugno 2011.
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