Giurisprudenza - Espropriazione
 
Cassazione Civile, Sez. I, 21 novembre 2003, n. 17709, sulle differenze tra la compravendita e la cessione bonaria delle aree oggetto di procedura espropriativa

 
I ricorsi vanno, anzitutto riuniti ai sensi dell'art.335 cod. proc. civ. perché proposti contro la medesima sentenza.
Con il primo motivo di quello principale il Biasco, deducendo violazione degli art.60 e 63 della legge 2359/1865; 1 della legge 1/1978, nonché 1362 e segg. cod.civ., si duole che la Corte di appello abbia escluso che tra le parti era intercorso un contratto di cessione volontaria dell'immobile preceduto dalla dichiarazione di p.u. della strada da realizzare contenuta nella delibera di Giunta 21 aprile 1983 che aveva approvato il relativo progetto, ritenendo che la vendita si fosse in realtà conclusa in epoca precedente in forza della scrittura privata stipulata tra le parti il 17 luglio 1982, senza considerare che quest'ultimo negozio, come risultava dal suo contenuto, costituiva soltanto un accordo bonario vincolante per il solo contraente privato, cui era conseguito l'atto di cessione vero e proprio finalizzato proprio ad acquisire il bene per la realizzazione dell'opera pubblica.
Con il secondo motivo motivo, denunciando altra violazione delle stesse norme, nonché dell'art.12 della legge 865/1971, 1326, 1329, 1376, 1356 e 1360 cod. civ., lamenta ancora l'omessa considerazione da parte della sentenza impugnata che detto atto del 1982 doveva in realtà configurarsi quale proposta a contrarre vincolante per il privato a cedere l'immobile al prezzo già concordato; e che in ogni caso l'avveramento della asserita condizione apposta, costituito dall'approvazione dell'accordo da parte del comune di Corsano, non comportava l'efficacia retroattiva del negozio con la conseguenza che, intervenuta la dichiarazione di p.u l'atto doveva ritenersi compreso nella procedura espropriativa e che, decorso il termine di cui agli art. 1 della legge 1/1978 e 18 della legge reg. Puglia 37/1978 senza aver iniziato i lavori per la costruzione della strada doveva trovare applicazione l'istituto della retrocessione invocabile anche in seguito a cessione volontaria.
I motivi sono infondati pur se deve essere corretta ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ. la motivazione con cui la Corte di appello ha respinto gli analoghi motivi di impugnazione del Biasco.
Tanto la sentenza impugnata, quanto le parti hanno mostrato di ritenere che la cessione dell'immobile prevista dall'art. 12, l° comma della legge 865 del 1971, nonché dall'art.5 bis della legge 359 del 1992 si distingua dalla vendita di cui agli art.1470 e segg. cod. civ., solo sotto un profilo temporale, in funzione del momento in cui sia stata stipulata rispetto alla dichiarazione di p.u.: nel senso che se questo momento è successivo, essa debba assumere sempre e comunque tale nomen iuris piuttosto che quello di compravendita; ragion per cui, pur dando atto che era intervenuta una scrittura in data 17 luglio 1982 concernente la cessione dell'immobile per un prezzo tra di esse concordato (cui il ricorrente ha attribuito natura di mero accordo bonario e la Corte territoriale di vendita vera e propria) ed altro contratto in data 25 agosto l983, esecutivo di detto accordo, siccome quest'ultimo ha fatto seguito ad una asserita dichiarazione di p.u. della strada da realizzare, ravvisata nella delibera di Giunta n.139 del 21 aprile 1983 che ha approvato il progetto dell'opera p., il dibattito si è incentrato esclusivamente sull'atto cui attribuire l'effetto traslativo della proprietà dell'immobile, qualificato di vendita comune se antecedente alla delibera suddetta; ovvero di cessione se successivo (con conseguente diritto del Biasco di ottenere la chiesta retrocessione dell'immobile ove si fossero verificati i presupposti di cui all'art.63 della legge 2359 del 1865).
Sennonchè questa Corte fin dalle pronunce meno recenti ha specificato che la cessione volontaria costituisce un contratto c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente nell'ambito del procedimento di espropriazione che l'espropriando ha il diritto di convenire in seguito ad un subprocedimento predisposto dall'art.12 della legge 865/1971 e ad un prezzo pur esso predeterminato in base a criteri inderogabili stabiliti dalla legge che costui può soltanto accettare (o rifiutare); e che ha anche l'effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell'emanazione del decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di mancata accettazione dell'offerta) e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell'indennità definitiva (Cass. 17102/2002; 8970/2001; 14901/2000).
Da qui gli elementi costitutivi indispensabili per configurarla e che valgono altresì a differenziarla dalla compravendita di diritto comune: a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il risultato peculiare (acquisizione della proprietà dell'immobile all'espropriante) con uno strumento alternativo di natura privatistica; b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di p.u. dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata con la sequenza e le modalità previste dal menzionato art.12; c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per la sua espropriazione , dai quali non è possibile in alcun modo discostarsi (Cass.11435/1999; 4759/1998; 2513/1994).
Nel caso, pertanto, non aveva alcuna rilevanza stabilire se il trasferimento dell'immobile Biasco si fosse verificato in forza dell'accordo 17 luglio 1982, ovvero in conseguenza del successivo atto pubblico del Notar Mancuso del l983: essendo decisive per escludere la ricorrenza di una cessione volontaria le stesse circostanze prospettate dal ricorrente che le parti stipularono il primo di detti negozi al di fuori di qualsiasi procedura espropriativa "al fine di convenire il prezzo della successiva cessione volontaria.... e di vincolare il proprietario ad alienare l'immobile" al comune per il prezzo di £.25.000.000 perciò pattuito senza alcuna correlazione con i parametri di stima dell'indennità allora costituiti dalla legge 385 del 1980 (pag.9 ricorso). E che la deliberazione di Giunta n.140 del 21 aprile 1983, approvò il menzionato accordo bonario ed il corrispettivo della vendita come in esso determinato che fu quindi trasfuso nel successivo contratto 25 agosto 1983: stipulato, come ha dedotto lo stesso ricorrente in esecuzione di detto accordo e, perciò anch'esso al di fuori di qualsiasi sub-procedimento di determinazione dell'indennità (neppure menzionato da alcuna delle parti in questo giudizio). Il che è inequivocabilmente confermato dalla prima delle obbligazioni assunte dal comune con siffatto negozio "di destinare il suolo acquistato a sedime del tratto stradale da realizzare tra piazza De Gasperi e via Nina" (pag.16 ricorso), assolutamente priva di significato in una procedura ablativa rivolta a conseguire proprio questo risultato.
In tale contesto, allora, resta privo di qualsiasi valenza il fatto che nelle more sia stato approvato il progetto di costruzione di detta opera pubblica, cui l'art.1 della legge 1/1978 attribuisce efficacia di dichiarazione di p.u. (costituente, come è noto il presupposto di eventuali procedimenti ablatori) avendo questa Corte più volte affermato che pur in pendenza di essi la legge non vieta la stipula di negozi alternativi a detti procedimenti; e che in tal caso l'atto negoziale intercorso con la P.A. assume natura di contratto di diritto privato.
Con il terzo motivo del ricorso, il Biasco deducendo violazione degli art.1453 cod. civ., 101 e 112 cod. proc. civ. lamenta che la Corte di appello: a) abbia dichiarato nuova la domanda con cui egli aveva chiesto la risoluzione di diritto del contratto, malgrado la relativa richiesta fosse stata avanzata già in primo grado e su di essa si fosse pronunciato il Tribunale dichiarando non essenziale il termine ad adempiere; b) abbia escluso l'inadempimento dell'amministrazione comunale che pur si era obbligata a destinare il suolo acquistato a sedime del tratto stradale da realizzare e ad eseguire le opere necessarie a garantire la staticità della parte rimanente del proprio fabbricato: malgrado fossero ampiamente trascorsi i termini previsti dalla dichiarazione di p.u. per l'ultimazione dei lavori.
Con l'ultimo motivo, deducendo illogicità ed omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia censura la sentenza impugnata per non aver considerato che la prova dell'inadempimento della controparte si ricavava dalla stessa consulenza tecnica la quale non menziona alcun'opera eseguita dal comune onde garantire la staticità del proprio edificio; per non aver preso in esame la richiesta di rinnovo di c.t., pervenuta a conclusioni contraddittorie, che pur era stata domandata già in primo grado nell'udienza del 27 maggio 1994.
Queste censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
La Corte di appello, infatti, ha accertato che il Biasco aveva nel giudizio di primo grado proposto soltanto domanda di risoluzione del contratto di vendita ai sensi degli art. 1453 e 1455 cod. civ. per grave inadempimento dell'amministrazione; e che soltanto in grado di appello, modificando causa petendi e petitum originari, vi aveva aggiunto la richiesta di risoluzione di diritto del contratto in base all'art. 1454 cod. civ. per inutile decorso del termine assegnato alla controparte in un'asserita diffida ad adempiere. Sicché, ritenendo che la richiesta delineasse una questione nuova, in conformità alla giurisprudenza del tutto consolidata di questa Corte al riguardo, l'ha correttamente dichiarata inammissibile per il disposto dell'art. 345 cod. proc.civ. (Cass.11282/1998; 7668/1994; 2803/1990).
Pertanto, a nulla rileva che il ricorrente abbia impugnato questo capo della decisione sostenendo di aver proposto la domanda anche nel giudizio di primo grado, una volta che non ha assolto all'onere di indicare in quale difesa la richiesta fosse stata formulata, e di trascriverne se necessario, integralmente il contenuto per consentire a questa Corte di delibare la veridicità e decisività della istanza che si assumeva non valutata: tanto più che neppure la sentenza di primo grado (che questa Corte può esaminare essendo stato dedotto un error in procedendo), contrariamente a quanto dedotto dal Biasco, si era pronunciata sulla questione, ma si era soffermata su tutt'altra questione costituita dalla natura del termine previsto nel contratto (e non nella diffida) per consentire al comune la demolizione di un fabbricato e la costruzione della strada.
Eguali considerazioni valgono in merito all'inadempimento addebitato al comune per l'assenta inosservanza del termine che il Biasco aveva assunto essere stato stabilito per la costruzione della strada: posto che il ricorrente ha ammesso che nell'atto di vendita non ne era stato fissato formalmente alcuno (pag.16), pur deducendo ancora una volta del tutto genericamente che detto termine doveva ricavarsi da quelli indicati nella dichiarazione di p.u. dell'opera. I quali sono, invece, privi di qualsiasi collegamento con il contratto in esame ed assumono rilevanza esclusivamente nell'ambito dei procedimenti di espropriazione per p.u. da questa derivati, nonché nei confronti dei soggetti che ne sono destinatari, fra i quali si è detto non essere compreso il Biasco.
E valgono altresì con riguardo all'ultimo profilo di inadempimento ravvisato dal ricorrente nella mancata realizzazione delle opere necessarie per garantire la staticità della parte residua del fabbricato, in relazione al quale la sentenza impugnata ha rilevato che costui non soltanto non aveva contestato le considerazioni con cui il consulente aveva escluso qualsiasi pericolo per la staticità suddetta, e non ne aveva fornito alcuna prova, ma non aveva indicato neppure quali opere l'amministrazione comunale avesse dovuto realizzare (e non aveva, invece, eseguito) per rimuovere il relativo pericolo ed evitare quindi di incorrere nell'inadempimento dell'obbligazione assunta.
Anche in ordine a questi accertamenti, infatti, la censura del Biasco si esaurisce nella trascrizione di alcuni accertamenti compiuti dal c.t.u. circa le opere eseguite dal comune, nei quali non vi è menzione alcuna del dedotto pericolo per la stabilità dell'edificio residuo, nonché nella tautologica affermazione che ciò malgrado il distacco di parte di detto immobile ne avrebbe pregiudicato comunque la staticità; per cui a fronte di detta doglianza assolutamente generica risulta corretta anche la mancata considerazione da parte della Corte territoriale della (pur essa immotivata) richiesta di rinnovo della consulenza tecnica che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il giudice di merito è tenuto ad escludere allorché si avveda, come è avvenuto nel caso concreto, che la richiesta della parte tende a supplire con la consulenza (ovvero con la sua rinnovazione) la deficienza della prova ovvero a compiere un'indagine esplorativa.

 

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