Giurisprudenza - Pubblico impiego

Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Milano, sez. I, sent. n. 938 del 13 febbraio 2001-02-24, sulla preclusione per il procedimento disciplinare conseguente all'assoluzione penale per insufficienza di prove 

REPUBBLICA  ITALIANA 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia 
(Sezione Prima) ha pronunciato la seguente 
S  E  N  T  E  N  Z  A   

sul ricorso R.G.N. 4318 del 2000 proposto da Nicola D’Avanzo, rappres.to e difeso dagli avv. Perfetti e Bernasconi, come per mandato a margine dell’atto introduttivo ed el.te dom.to in Milano, presso lo studio dell’avv. Toscano, in v. Manara 13; 
contro
Ministero delle finanze in pers. del Min. p.t., rappr.to ex lege dall’Avv.ra distr.le Stato di Milano e presso questa dom.to in V. Freguglia 1;
    per l’annullamento
del provvedimento disciplinare del Comandate generale della Guardia di finanza che dispone la “perdita del grado per rimozione a decorrere dal 4.9.2000”, nonché di ogni atto presupposto, conseguente e comunque connesso;
   e per la condanna
dell’amministrazione al pagamento delle somme dovute quali differenze retributive, per illegittima e reiterata sospensione cautelare dal servizio, al risarcimento del danno derivante dall’illegittima e reiterata sospensione cautelare dal servizio ed al risarcimento del danno derivato dall’illegittima irrogazione della sanzione espulsiva della perdita del grado per rimozione, nonché al pagamento delle spese di lite;
 Visto il ricorso con i relativi allegati;
 Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’amministrazione;
 Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
 Visti gli atti tutti della causa;
 Relatore, alla pubblica udienza del 10.1.2001, il Dott. Solveig Cogliani; uditi, altresì, i procuratori delle parti; 
 Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F  A  T  T  O  
 Il ricorrente, maresciallo capo della Gdf, era sottoposto a procedimento penale nel 1996, per fatti riferiti al 1988, sulla base di dichiarazioni rese da un sottufficiale. Il processo si concludeva con una sentenza del Gip di Milano n. 273/98 di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato ascritto. Avverso tale pronunzia l’istante proponeva ricorso per Cassazione per ottenere l’assoluzione per formula piena.  Il ricorso si convertiva in appello incidentale e si concludeva  con sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1518 del 26.4.1999 che assolveva l’odierno ricorrente per non aver commesso il fatto.  Tale sentenza diveniva irrevocabile in data 28.5.1999.
 In pendenza del giudizio penale l’amministrazione disponeva la sospensione cautelare dall’impiego, che tuttavia era sospesa a seguito di proposizione di  ricorso dinanzi a questo Tribunale. L’amministrazione reiterava la sospensione. Questo TAR accoglieva anche in questo caso l’istanza di provvedimento cautelare. I ricorsi dinanzi al giudice amministrativo erano definiti nel merito, il primo con l’accoglimento, rilevata l’illegittimità dell’atto adottato in presenza di una sentenza penale di accoglimento (sent. n. 767 dell’8.3.1999) ed il secondo con la dichiarazione del sopravvenuto difetto d’interesse accertato che, stante la successiva pronunzia della Corte d’appello di Milano, l’assoluzione comportava la revoca di diritto del provvedimento impugnato e precludeva il provvedimento disciplinare.
 Nonostante siffatte pronunzie il Ministero sottoponeva il ricorrente a procedimento disciplinare, che si concludeva con l’inflizione della sanzione più grave della perdita del grado per rimozione.
Deduceva, pertanto, il ricorrente la violazione dell’art. 653 c.p.p., in quanto a fronte di una sentenza penale irrevocabile, pronunziata a seguito di dibattimento, recante assoluzione con formula piena, perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso, il procedimento disciplinare rimarrebbe precluso. Censurava, poi, la violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, l’eccesso di potere per motivazione errata ed il travisamento dei contenuti della sentenza della Corte d’appello, nonché il contrasto con le pronunzie del Tar Lombardia. Ancora deduceva il vizio di eccesso di potere per carenza d’istruttoria e per contraddittorietà tra le risultanze dell’istruttoria ed il dispositivo del provvedimento disciplinare. 
 Deduceva, anche la violazione degli artt. 76, l. n. 599 del 1954, poiché la norma limita i casi di possibilità per il Ministro di discostarsi dal giudizio della Commissione solo in ipotesi di particolare gravità. 
 Lamentava la sproporzione tra fatti contestati e la sanzione irrogata.
 Infine, deduceva la violazione dell’art. 120, t.u. n. 3 del 1957 e della circolare n. 208000/104/3 del 7.7.1993, in relazione al mancato rispetto delle cadenze temporali previste e l’incompetenza  del comandante generale ad irrogare la sanzione.
 Si costituiva l’amministrazione, chiedendo il rigetto della domanda.
 Sostiene l’amministrazione che debbano  differenziarsi le conseguenze di una sentenza assolutoria sul provvedimento disciplinare da quelle sulla sospensione precauzionale. . Mentre, infatti,  sussiste l’obbligo di revoca, ope legis, della sospensione cautelare dall’impiego, adottata nei confronti di un militare, qualora il procedimento penale, che ne costituisce il presupposto, si concluda con l’assoluzione, legittimo sarebbe, invece, lo svolgimento del procedimento disciplinare, una volta conclusosi il processo penale, per accertare la sussistenza di fatti apprezzabili dal punto di vista unicamente disciplinare.
 Sotto tale ultimo profilo, assumerebbe, per la difesa erariale, rilevanza,  l’assoluzione pronunziata per mancanza o contraddizione probatoria. In questo caso, la potestà disciplinare dell’amministrazione non verrebbe preclusa dal dispositivo non totalmente liberatorio della pronuncia penale.
 Nel caso in esame, spettava, dunque, unicamente all’amministrazione valutare la gravità dei fatti contestati, deducendone le conseguenze dal punto di vista sanzionatorio. 
 L’amministrazione asseriva, inoltre, la completezza della motivazione, nonché il rispetto dei limiti temporali, in ragione del compimento di numerosi atti procedimentali, idonei ad evitare la perenzione del procedimento stesso.
 Era accolta l’istanza incidentale di sospensione del provvedimento impugnato.
 All’udienza di discussione, parte ricorrente ulteriormente produceva il parere assunto nel procedimento, del comandante del gruppo di Varese, che concludeva per l’archiviazione della posizione del militare.
 La causa, chiamata all’udienza del 10.1.2001 era, pertanto, trattenuta in decisione.
    D  I  R  I  T  T  O
 1. Osserva il Collegio che l’esame del primo motivo di ricorso ha carattere decisivo ai fini della risoluzione della controversia in esame.
Orbene, sul punto la difesa erariale richiama la circolare 1/1/93 sui procedimenti disciplinari, laddove dispone che quando “la pronunzia assolutoria è motivata sostanzialmente dalla insufficienza o dalla contraddittorietà delle prove degli atti, ancorché sia formalmente rivestita, secondo la fictio iuris introdotta dall’art. 530, secondo comma c.p.p., della più ampia formula – il fatto non sussiste – o- l’imputato non lo ha commesso –“ non dia luogo alla preclusione del procedimento penale asserita da parte ricorrente.
 Nella fattispecie in esame, la sentenza della Corte d’appello che assolveva il ricorrente per non aver commesso il fatto, risulta, infatti, motivata  sul punto che “agli atti non vi sono deposizioni testimoniali, documenti e altro che possano costituire riscontri alle affermazioni ...- del sottufficiale – e che, quindi, possano costituire una verifica dell’attendibilità dell’accusa”, mancano, pertanto, “elementi certi su cui fondare una dichiarazione di responsabilità”.
 A sostegno della propria impostazione, l’amministrazione fa menzione del parere reso a proposito dal Consiglio di Stato, sez. III, n. 1487/90 in data 27.11.1990.
In tale atto si legge: “Viene  qui in particolare considerazione la norma di cui all’art. 653, secondo cui la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. 
 In prima analisi deve rilevarsi a contrario che in materia disciplinare, il giudicato penale non estende i suoi effetti oltre la sede sua propria nelle ipotesi diverse da quelle contemplate da detta norma; cioè nei casi di:…..c) sentenze di assoluzione non contenenti accertamento che il fatto non sussista o l’imputato non lo ha commesso…. E’ poi il caso di rilevare che l’art. 653 richiama le ipotesi “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” solo quale oggetto dell’accertamento, e non già quale causa di assoluzione. Sicchè, nel caso in cui sia pronunciata assoluzione perché “il fatto non sussiste”, o perché “l’imputato non l’ha commesso”, per insufficienza o contraddittorietà di prove (equiparata, come noto, per la fictio di cui all’art. 530, comma 2, al caso di mancanza di prova e dunque a quello dell’esistenza in positivo della prova negativa, che concreta il caso proprio dell’art. 530, comma 1) non pare ricorrere l’accertamento in questione, e con esso l’efficacia extrapenale del giudicato di assoluzione”.
 Su tale linea interpretativa concorda quella parte della  giurisprudenza che ha affermato che, espunta dal nostro ordinamento l’assoluzione per insufficienza di prova, la preclusione del procedimento disciplinare trova fondamento non nella formula assolutoria, ma nella motivazione della sentenza (Cass. pen. , sez. VI, 2.7.1997).
 Tale impostazione non può essere condivisa.  
Il nostro legislatore, sotto la spinta di istanze garantiste, ha inteso 
eliminare l’istituto dell’assoluzione per insufficienza di prove, proprio volendo indicare al giudice che in caso di dubbio dovesse decidere pro reo, con la stessa formula piena prevista dal comma 1 dell’art. 530 c.p.p.. 
Dispone, infatti, espressamente, l’art. 530, co. 2 che “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.
Di tale evoluzione normativa, in vero, si sono fatte interpreti numerose sentenze della Suprema Corte che hanno evidenziato l’equiparazione voluta dal legislatore tra il proscioglimento con formula dubitativa e l’assoluzione con formula piena.
Affermava, infatti,  la Cassazione che “E’ illegittima la formula di assoluzione per essere insufficiente e contraddittoria la prova dato che le situazioni di dubbio sulla prova … sono ora equiparate  alla mancanza di prove e dovendosi in tal caso riportare la formula di assoluzione ad una della quattro previste  dal comma 1 dell’art. 530 c.p.p.” (Sez. I, 15.10.1990).  
Pertanto, a fronte della volontà del legislatore di definire l’accertamento in sede penale con un’assoluzione piena anche nel caso in cui le prove si siano rilevate insufficienti, apparirebbe incongrua una pronunzia in sede disciplinare che dovesse considerare come probanti dichiarazioni (come nel caso in esame) che in sede penale non sono state ritenute idonee a suffragare la responsabilità dell’istante. Non si tratta, infatti, di dare una diversa valutazione di fatti già accertati. Nella specie la pronunzia emessa in sede penale ha escluso, con l’assoluzione, che i fatti contestati fossero stati commessi dal ricorrente, in mancanza di una prova.  Il provvedimento disciplinare si fonda, infatti, sulle stesse dichiarazioni rese dal sottufficiale, già valutate in sede penale.
 E, ad ulteriore conferma di quanto sopra osservato, va  rilevato che già nel previgente c.p.p., “l'art. 25 c.p.p. del 1930 precludeva l'azione civile (davanti al  giudice   civile)  quando,  in seguito  a  giudizio,  fosse stato dichiarato non essere sufficiente la prova che il fatto sussistesse o che l'imputato  lo  avesse  commesso.” (Cass. civ., sez. I, 30 marzo 1998, n. 3330).
 L’interpretazione dell’amministrazione produrrebbe, paradossalmente, a fronte delle istanze espresse dalla riforma del processo penale, sopra richiamate, un effetto più gravoso per l’interessato che, ora, pur assolto con formula piena, dovrebbe sottostare ad una sorta di revisione dell’esame e della valenza delle prove in sede disciplinare, mentre sotto la vigenza del vecchio codice poteva far valere l’effetto preclusivo di cui all’art. 25 c.p.p. cit. anche in caso di pronunzia per insufficienza di prove.
 Non pare, di conseguenza, potersi condividere la distinzione fatta tra accertamento e formula assolutoria, poiché a fronte della formula di assoluzione piena sussiste una sostanziale ( e non una fictio) equiparazione tra la prova insufficiente e la mancanza di prove.
 Quanto sinora argomentato sulla base di un’interpretazione letterale e sistematica, peraltro, trova conforto anche nell’adozione del canone ermeneutico dell’indagine sull’intenzione del legislatore.
 Deve, a riguardo, farsi primo riferimento a quanto espresso dal legislatore delegante del 1987.
 Tra quelli che possono definirsi i principi generali del nuovo processo penale, infatti, rientrano talune regole di giudizio, che il legislatore indicava e che costituivano sviluppi coerenti al principio della “presunzione d’innocenza”  della tradizione liberaldemocratica, espressa nell’art. 6 n. 2 Convenzione europea e nell’art. 14 n. 2 Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nello stesso art. 27 Cost..
 Recita, infatti, l’art. 2, l. 16 febbraio 1987 n. 81, recante la “Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale”: 
“1. Il codice di procedura penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. Esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, secondo i principi ed i criteri che seguono: …
11) previsione delle diverse formule di assoluzione o di proscioglimento, statuendo che si ha mancanza di prova anche quando essa è insufficiente o contraddittoria; specificazione, nel dispositivo della sentenza, delle formule di assoluzione o di proscioglimento; obbligo di proscioglimento nel merito, quando ne ricorrano gli estremi, anche in presenza di una causa estintiva del reato; …”.
Da tale affermazione, non vi è modo di trarre la diversa conseguenza di un valore di “mera fictio juris” della formula assolutoria piena, in caso  di prova insufficiente.
Il legislatore, nel disporre i principi a cui avrebbe dovuto attenersi la riforma del procedimento penale, infatti, chiaramente, pur partendo da una direttiva che riguarda prima facie l’aspetto esteriore delle formule di assoluzione, incide nella sostanza, attraverso l’abolizione delle formule dubitative.
La vera novità, voluta nella riforma, è quella dettata dalla regola del giudizio, in forza della quale il giudice è tenuto a pronunziare una sentenza che consacri, nella sua formula, l’innocenza dell’imputato tanto nel caso in cui vi è la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, quanto nel caso in cui manca del tutto la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso, che, ancora, nel caso in cui  le prove a carico si manifestino insufficienti o contraddittorie.
Nel progetto del gennaio 1988 si prevedeva, che il giudice è tenuto a pronunciare sentenza assolutoria “anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile” (art. 523, co. 2)..
L’insufficienza di prova è equiparata nel nuovo testo alla mancanza di prova.
E, se si considera la ratio della scelta operata, alla luce del principio sopra ricordato della “presunzione d’innocenza”, tale equiparazione non può che  aver valore, non solo dal punto di vista della formulazione del  proscioglimento, ma deve riguardare necessariamente la stessa valenza dell’accertamento, con la conseguenza che, in caso di prova insufficiente, si deve considerare compiuto, con esito negativo,  l’accertamento svolto in sede penale.
 Del resto in tale senso deve ritenersi il più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa, che ha evidenziato che  “nel caso  di sospensione del pubblico dipendente disposta in pendenza di  processo  penale: A)  -  se  questo si conclude con l'assoluzione dell'impiegato con   formula  piena,  il provvedimento  cautelare  e' revocato   automaticamente   e la   "restitutio   in  integrum" opera immediatamente;  B) -  se  v'e  una sentenza  di  condanna  o con  un proscioglimento  non  pieno (p.e.  in caso d'estinzione del reato per prescrizione, o per intervenuta amnistia), e' possibile instaurare un procedimento    disciplinare,   onde solo   in   esito   favorevole a quest'ultimo  si puo'  disporre  la  "restitutio in  integrum"…”
(Cons. St. sez. V, 17 dicembre 1998, n. 1808). 
 Dalla pronunzia, in vero, si evince che assoluzione con formula “non piena” deve ritenersi essere quella, esemplificativamente, per intervenuta amnistia o prescrizione.
 Per le svolte considerazioni deve concludersi che la sentenza penale di assoluzione, pronunziata a seguito di dibattimento, debba avere efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare, con il conseguente effetto preclusivo sullo svolgimento del procedimento disciplinare, a norma dell’art. 653 c.p.p..
L’articolo appena menzionato, infatti , non fa alcuna differenziazione sulla base della formula assolutoria, mentre come evidenziato, ai fini dell’accertamento della sussistenza del fatto o della responsabilità dell’imputato l’incertezza della prova è equiparata alla mancanza della stessa. 
Né può darsi valore vincolante al disposto della circolare richiamata dall’amministrazione, in presenza delle indicazione della normazione primaria. 
Pertanto, deve essere accolta la domanda dell’istante e, per l’effetto, deve essere annullato il provvedimento disciplinare impugnato. 
Deve, altresì, dichiararsi il diritto  dell’istante a non essere rimosso dal Corpo della GdF ed a mantenere il grado e, conseguentemente, il diritto al pagamento di tutte le somme dovute, quali differenze retributive per illegittima e reiterata sospensione ed infine per il provvedimento di perdita del grado.
 2. Non merita, invece accoglimento la domanda di risarcimento, proposta per il danno all’immagine professionale, per il danno di carattere psicologico e morale ed in connessione, da un lato al mancato guadagno e di perdita di chance e dall’altro per le perdite economiche subite per le  cure mediche e le spese legali.
Orbene, non vi è dubbio che l’annosa vicenda abbia procurato al ricorrente nocumento. Egli, tuttavia, è stato gravato da un processo penale, che nelle sue fasi ha avuto un iter complesso, che ha indubbiamente inciso anche sulle decisioni dell’amministrazione in tema di sospensione cautelare.
Il ricorrente non offre alcuna dimostrazione né del danno subito né del nesso eziologico del lamentato danno con gli atti amministrativi censurati. E’ principio generale, che deve essere condiviso anche nella fattispecie in esame che, al fine dell’accoglimento della domanda risarcitoria, è necessaria la puntuale dimostrazione dell’esistenza di un danno patrimoniale e del nesso eziologico con i  provvedimenti illegittimi impugnati.
Altresì, in merito alla lamentata perdita di chance per non aver potuto partecipare a tre concorsi di avanzamento, lamentata dal ricorrente, non può che rilevarsi che, ai fini della tutela risarcitoria,  non pare sufficiente una posizione di mera possibilità di conseguire un  risultato favorevole. Tale posizione si configura, in vero, come un interesse di mero fatto non meritevole di per sé di risarcimento.
Per quanto infine attiene alle spese di lite, queste devono essere poste a carico dell’amministrazione soccombente e sono determinate in lire 5.000.000, oltre IVA e CPA.
P.   Q.   M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima), in parziale accoglimento della domanda, annulla il provvedimento impugnato e dichiara il diritto del ricorrente a mantenere il grado ed a non essere rimosso dal Corpo della GdF ed ad ottenere il pagamento delle somme dovute, per differenze retributive, illegittimamente trattenute in ragione della reiterata sospensione cautelare dal servizio e del provvedimento di perdita del grado. Condanna l’amministrazione resistente al pagamento delle spese di lite come determinate in motivazione.
 Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
 Così deciso in Milano, addì 10.1.2001, dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sez. I) riunito in camera di consiglio con l'intervento dei seguenti Magistrati:
Giovanni Vacirca                                                               PRESIDENTE
Carmine Spadavecchia                                                               Consigliere
Solveig Cogliani, rel.                                                        Referendario                                                        
 
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