Giurisprudenza - Pubblico impiego

La sentenza di seguito trascritta affronta alcune importanti questioni interpretative sui termini per l'espletamento del procedimento disciplinare nei confronti dei dipendeneti sottoposti a procedimento penale.
La Corte precisa che i termini previsti dalla legge sono perentori sia per quanto riguarda i centottanta giorni previsti per l'avvio del procedimento disciplinare dalla sentenza di condanna sia per quanto riguarda il termine di novanta giorni per la sua conclusione.
Tuttavia, precisa la Corte, detti termini non sono congrui e non si applicano nel caso di sentenza patteggiata in quanto l'applicazione della pena su ruchiesta della parte non implica un pieno accertamento dei fatti. La non equiparabilità della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, affermata sia pure per il profilo particolare esaminato con detta sentenza, costuisce una questione di grossa rilevanza pratica per la soluzione di numerose questioni.(Ugo Di Benedetto)

Corte Costituzionale, 28 maggio 1999, n. 197

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), promossi con quattro ordinanze emesse il 21 aprile e altra il 20 giugno 1997 dal Consiglio di Stato, il 6 novembre 1997dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, il 10 gennaio - 30 novembre 1997 dal Consiglio di Stato,il 2 aprile 1998 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte e il 28 aprile 1998 dal Consiglio di Stato, rispettivamente iscritte ai nn. 828, 829, 830 e 887 del registro ordinanze 1997 e ai nn. 5, 224, 480, 646 e 806 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 1997 e nn. 2, 4, 14, 27, 38 e 44, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visti gli atti di costituzione di Carlo D’Amico, Maria Rita Ghezzi, Savino Strippoli, Luciano Russo, dell’INAIL e del Comune di Torino, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 1999 il Giudice relatore Francesco Guizzi;
uditi gli avvocati Ugo Sgueglia per Carlo D’Amico e Maria Rita Ghezzi, Vincenzo Pone per l’INAIL e l’Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                                  Ritenuto in fatto
1.1. — Con quattro ordinanze di analogo contenuto, adottate il 21 aprile 1997, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), nella parte in cui dispone che il procedimento disciplinare per la destituzione del pubblico dipendente a seguito di condanna penale debba concludersi entro il termine, non derogabile, di 90 giorni.
Il Collegio osserva che non vi è diritto vivente sull’ambito di operatività di tale articolo, che si presterebbe, invero, a due interpretazioni: secondo un primo orientamento sarebbero abrogate, per incompatibilità, le norme previgenti sul procedimento; altrimenti, si dovrebbe concludere che la violazione del termine non comporta l’illegittimità della sanzione disciplinare, quando sussistano adeguate ragioni che ne giustifichino il superamento.
La premessa da cui muove l’Adunanza plenaria è che questa seconda linea interpretativa vada disattesa, essendo chiara la lettera dell’art. 9, comma 2, nel disporre la conclusione del procedimento, senza deroghe, entro il termine di 90 giorni. Sennonché l’amministrazione, continua il rimettente, non può rispettare il termine dei 90 giorni, applicando le norme di garanzia introdotte dal testo unico n. 3 del 1957; onde la natura perentoria del termine fa sì che debbano intendersi abrogate le recedenti norme attinenti alle diverse fasi endoprocedimentali. In questo modo, però, si recherebbe lesione agli articoli 3 e 97 della Costituzione, perché il termine ristretto impedisce la ponderata valutazione dei fatti. A un sistema normativo coerente e razionale sarebbe dunque subentrata una normativa che non può trovare pratica applicazione se non violando principi di rango costituzionale.
1.2. — E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, nel senso della infondatezza - e, ancor prima, della inammissibilità - osservando preliminarmente che le stesse ordinanze di rimessione ammettono la mancata formazione di un diritto vivente sull’operatività dell’art. 9. Sì che resta ampio spazio al giudice a quo per interpretare la norma in modo conforme alla Costituzione, come avverrebbe riconoscendo natura ordinatoria al termine previsto per la conclusione del procedimento disciplinare.
Per altro verso, però, la questione sarebbe inammissibile, perché questa Corte dovrebbe sostituire il termine di 90 giorni - che si asserisce troppo breve - con altro più lungo, o con una diversa regola; ma un intervento di tal fatta implicherebbe l’esercizio di scelte discrezionali, riservate al legislatore.
1.3. — Si sono costituite nel senso della infondatezza le parti private, sostenendo che il termine concesso dal legislatore sarebbe più che congruo. Nella fattispecie in esame l’Amministrazione non è in realtà tenuta a svolgere indagini sulle circostanze di fatto, dovendo valutare esclusivamente la rilevanza disciplinare della condotta accertata dal giudice penale.
Le garanzie poste a tutela dell’incolpato non sarebbero mai vulnerate dalla introduzione di termini per il compimento del giudizio disciplinare, dal momento che il dipendente ha pur sempre la facoltà di chiedere un differimento: in questo caso egli non potrebbe invocare la perentorietà di termini che sono stati superati su sua richiesta e, dunque, con sua acquiescenza.
Con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, la materia della responsabilità dei dipendenti pubblici ha subito, poi, una radicale trasformazione: significativo in proposito è l’art. 59 che statuisce nuove norme sul procedimento disciplinare, con un rinvio alla contrattazione collettiva. Ora, il contratto collettivo nazionale che vige attualmente per i dipendenti delle regioni e degli enti locali, osservano le parti private, dispone che il procedimento deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione; altrimenti si estingue (art. 24, comma 6, del C.C.N.L. del 6 luglio 1995). Sarebbe dunque incongruo consentire che i procedimenti disciplinari siano governati da norme fra loro inconciliabili, giacché - ove fosse dichiarata l’illegittimità
costituzionale della disposizione in esame - si permetterebbe la coesistenza di due sistemi fra loro contraddittori: l’uno per gli impiegati sottoposti a procedimenti disciplinari prima dell’entrata in vigore del contratto collettivo del lavoro, l’altro per i procedimenti instaurati in base alla nuova disciplina contrattualistica.
Si è costituita altra parte privata, chiedendo che la questione sia dichiarata irrilevante e, comunque, infondata.
2.1. — Con due ulteriori ordinanze del 20 giugno e del 10 gennaio-30 novembre 1997, la VI sezione del Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, richiamando quali parametri gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione. 
Il Collegio osserva, in via preliminare, che il termine di 90 giorni vale anche per l’ipotesi di condanna su patteggiamento, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale: tale sentenza, infatti, è equiparata dal codice di rito a una pronuncia di condanna, e deve quindi ritenersi applicabile la disciplina dettata dalla legge n. 19 del 1990, che è successiva all’emanazione del nuovo codice di rito. 
Con altra ordinanza, emessa il 28 aprile 1998 e iscritta al n. 806 del registro ordinanze 1998, la VI sezione ha sollevato analoga questione in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. 
2.2. — Anche in tali giudizi è intervenuto, nel senso della inammissibilità e, comunque, dell’infondatezza, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato. 
2.3. — Si sono costituite le parti del giudizio a quo. 
Il dipendente dell’INAIL reputa non fondate le censure, e fa presente che il termine di 90 giorni assicura all’incolpato lo spazio temporale di cui godeva nella precedente disciplina (40 giorni).
Si è costituito l’INAIL, appellato e ricorrente incidentale nel giudizio a quo, ricordando che nell’applicazione della pena su richiesta delle parti (cosiddetto patteggiamento) non vi è un positivo accertamento della responsabilità penale; e che l’Amministrazione non potrà giovarsene, per cui l’accelerazione del procedimento si tradurrebbe in pregiudizio per il dipendente inquisito. Conclude quindi per l’irrilevanza della questione, perché nel caso del patteggiamento non opererebbero i termini di cui all’art. 9 e, in subordine, sostiene l’illegittimità della norma.
3.1. — Anche il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria e quello per il Piemonte hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2.
Il primo ritiene che siano violati gli artt. 3, 4 e 97 della Costituzione, e osserva che la perentorietà del termine di 90 giorni non permette alle amministrazioni di rispettare le norme di garanzia contenute nel testo unico n. 3 del 1957, sì che la disciplina denunciata contrasterebbe con ogni logica: per la necessità di "far presto" potrebbe secondare una tendenza "colpevolista", tale da nuocere alla prosecuzione dell’attività lavorativa tutelata dall’art. 4 della Costituzione, o potrebbe addirittura sottrarre più agevolmente i soggetti inquisiti alle sanzioni disciplinari, vista l’esiguità dei tempi.
Il TAR per il Piemonte insiste, a sua volta, sulla lesione dei principi introdotti dagli articoli 3 e 97 della Costituzione. 
3.2. — Anche in questi giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, nel senso della inammissibilità e, comunque, della infondatezza.
Ha depositato tardivamente atto di costituzione il Comune di Torino.
                                Considerato in diritto
1. — Il Consiglio di Stato in adunanza plenaria, la VI sezione dello stesso Consiglio e i Tribunali amministrativi regionali per la Liguria e il Piemonte, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare per la destituzione del pubblico dipendente a seguito di condanna penale debba concludersi entro 90 giorni.
Secondo i Collegi rimettenti va disattesa la giurisprudenza che ammetteva la deroga del termine in ragione di adeguati elementi giustificativi; nelle ordinanze si osserva che la lettera dell’art. 9, comma 2, dispone la conclusione del procedimento disciplinare entro 90 giorni, dovendosi intendere abrogata la normativa precedente. Così interpretata, la norma contrasterebbe, però, con gli articoli 3, 24 e 97 (secondo il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria anche con l’art. 4 della Costituzione). Essa risulterebbe, alla prova dei fatti, irrazionale e comprometterebbe le garanzie difensive dell’incolpato e il principio di buon ndamento dell’amministrazione.
Le ordinanze di rimessione abbandonano dunque la lettura "temperata" con la quale si mirava a conciliare l’innovazione recata dalla legge n. 19 del 1990 con l’articolazione del procedimento disciplinare delineata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato.
Il Consiglio di Stato, VI sezione, affronta poi il tema della destituzione conseguente alla pronuncia di "patteggiamento", affermando la natura generale della disposizione introdotta dalla legge n. 19 del 1990, in modo da riferirla anche a tale fattispecie; e sottolineando, d’altronde, che l’art. 445, comma 1, del codice di rito equipara l’applicazione della pena su richiesta delle parti alla pronuncia di condanna. 
2. — Si può convenire con i Collegi rimettenti che la deroga del termine in presenza di giustificati motivi consente, nella sostanza, un bilanciamento caso per caso, che non trova espresso fondamento nella formulazione della disposizione: appare perciò plausibile la revisione, che si è così intrapresa, del pregresso indirizzo giurisprudenziale. Ma è altrettanto evidente che non può darsi una lettura parziale della norma che produrrebbe l’effetto d’un irrimediabile contrasto con le disposizioni fin qui vigenti in materia disciplinare, determinandone l’irrazionalità. Perché il giudice di merito è tenuto ad adottare, fra più significati normativi che si possono prospettare, quello che risulti costituzionalmente compatibile (sull’interpretazione conforme ai
principi costituzionali quale obbligo del giudice a quo v., fra le varie, le sentenze nn. 354 del 1997, 356 del 1996, 456 del 1989 e, di recente, le ordinanze nn. 147 e 7 del 1998).
3. — Occorre dunque una considerazione attenta di tutti i fattori normativi presenti nell’art. 9, comma 2.
Il disegno di legge del Governo presentato il 19 ottobre 1987 (Camera dei deputati, X legislatura, n. 1707) intendeva circoscrivere la "destituzione di diritto", escludendone l’operatività nell’ipotesi di sospensione condizionale della pena. Intervenuta, però, la sentenza n. 971 del 1988, risultò chiaro che il progetto governativo avrebbe reintrodotto, nei fatti, l’automatismo censurato da questa Corte, sia pure con l’eccezione della sospensione condizionale della pena (v. il dibattito in seno alla seconda Commissione permanente del Senato, Giustizia, seduta del 20 dicembre 1988). Le Camere mutarono così la proposta governativa, alla luce della pronuncia ora ricordata, mettendo a punto il testo vigente. 
In tale laborioso processo redazionale, la soppressione della destituzione di diritto trovava un ragionevole svolgimento nella previsione di un termine per la conclusione del procedimento, come mostra il margine di 180 giorni dalla cognizione della sentenza irrevocabile di condanna che si accordò all’amministrazione per decidere, in via preliminare, sull’azione disciplinare. E che vi siano due distinte scansioni temporali risulta dai lavori parlamentari (v. l’esame degli emendamenti nella seduta della seconda Commissione del Senato del 2 febbraio 1989) e dalla stessa formulazione dell’art. 9, che pone un primo termine di 180 giorni dalla notizia della sentenza di condanna e ulteriori 90 giorni per la conclusione della procedura (la legge parla, infatti, di "successivi novanta giorni"). 
L’amministrazione ha dunque un congruo lasso di tempo per esaminare le risultanze processuali che hanno portato alla condanna del dipendente, e ciò prima dell’atto con cui si promuove l’azione disciplinare; seguono poi i 90 giorni su cui si incentrano i dubbi di legittimità costituzionale. Ed è evidente che quest’ultimo termine va considerato assieme al precedente, se non si vuole stravolgere l’equilibrio interno della previsione normativa.
4. — L’illegittimità della "destituzione automatica", dichiarata da questa Corte con la citata sentenza n. 971 del 1988 e più volte in seguito ribadita (v., da ultimo, le sentenze nn. 240 del 1997, 363 del 1996, 126 del 1995, 134 del 1992, 415 e 104 del 1991), trova la sua ragion d’essere nella necessità di ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare dei fatti accertati nel corso del giudizio penale, tenendo conto, altresì, della personalità dell’incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni altro interesse pubblico che possa essere validamente considerato nell’ambito di detto procedimento. Sì che i termini "brevi" posti dallo stesso art. 9, comma 2, trovano fondamento nell’esigenza di definire sollecitamente il procedimento, evitando situazioni di incertezza dannose per il buon andamento dell’amministrazione, e lesive della posizione personale del dipendente condannato. La fase più delicata di tale valutazione consiste nel riesame - ai fini che si sono prima illustrati - delle risultanze processuali e dei fatti come risultano accertati dalla sentenza di condanna. Questa preliminare attività seguirà, di regola, alla cognizione della sentenza di condanna, avendo l’amministrazione a sua disposizione 180 giorni per decidere sul promovimento dell’azione disciplinare.
Così ricostruita la valenza della disposizione, si rivelano infondati i sospetti di illegittimità costituzionale.
Considerando la disposizione nella sua compiutezza, ci si avvede che essa non è affatto irragionevole: il previo svolgimento del processo penale giustifica i termini introdotti dalla normativa in esame, i quali mirano a garantire la posizione del dipendente e il buon andamento dell’amministrazione, che impone il sollecito espletamento della procedura disciplinare (cfr., nella giurisprudenza di questa Corte, la sentenza n. 104 del 1991 e, prima della legge n. 19 del 1990, la sentenza n. 1128 del 1988).
Ma vi è di più. Lo stesso Consiglio di Stato ha rilevato, in numerose pronunce, che i termini posti dal testo unico del 1957 non hanno identica natura: solo quelli a garanzia della regolarità del contraddittorio hanno carattere inderogabile, mentre gli altri (ad esempio quelli fissati per il funzionario istruttore) possono essere congruamente ridotti dall’amministrazione procedente (fra le varie, VI sezione, 30 ottobre 1979, n. 768; IV sez., 22 maggio 1968, n. 321; Commissione speciale del pubblico impiego, parere 11 novembre 1991). 
Una corretta lettura dell’art. 9, comma 2, esclude quindi i pericoli di compressione temporale e di alterazione dell’assetto procedurale paventati dai giudici a quibus.
5. — Non vi è violazione, poi, degli articoli 4 e 24 della Costituzione, perché la norma denunciata non lede in alcun modo il diritto al lavoro e alla difesa, dal momento che l’incolpato ha immediato interesse alla sollecita definizione del procedimento, e d’altra parte i termini stabiliti a garanzia del contraddittorio dal testo unico del 1957 possono essere rispettati - come si è rilevato - senza superare i 90 giorni previsti dal comma 2 dell’art. 9, potendosi congruamente ridurre gli altri, a disposizione dell’amministrazione, dal momento che quest’ultima non è tenuta a compiere autonomi accertamenti istruttori.
Tanto meno si realizza il temuto vulnus all’art. 97 della Costituzione, giacché non è dalla norma, di per sé considerata, che discendono gli inconvenienti messi in luce dai Collegi rimettenti, ma da comportamenti omissivi delle singole amministrazioni che, essi sì, potrebbero risultare in altra sede censurabili. Ciò induce a concludere che le doglianze su questo punto attengono non tanto al meccanismo normativo introdotto dall’art. 9, comma 2, ma a sue abnormi modalità di applicazione (cfr. sentenza n. 11 del 1998 e ordinanza n. 396 del 1997).
6. — I rilievi sin qui svolti consentono, infine, di affrontare la questione sollevata dalla VI sezione del Consiglio di Stato sulla congruità del termine dei 90 giorni quando il procedimento disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (cosiddetto "patteggiamento": art. 444 del codice di procedura penale).
Se la contrazione dei termini a disposizione dell’amministrazione per l’espletamento dell’attività istruttoria è giustificabile quando i fatti risultino accertati all’esito del dibattimento, non così può dirsi nel caso in esame.
E invero l’applicazione della pena su richiesta delle parti non presuppone quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova che è tipica del rito ordinario; le parti, infatti, possono chiedere il patteggiamento in qualunque momento delle indagini preliminari e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (art. 446 del codice di procedura penale). 
Non si può escludere, allora, che l’amministrazione debba effettuare autonomi accertamenti, e che la pronuncia penale sia richiamata soltanto per i fatti non controversi. 
E’ quindi evidente che non vale per la conclusione del procedimento disciplinare - che l’amministrazione potrà instaurare dopo aver preso cognizione della sentenza di patteggiamento - il termine introdotto dall’art. 9, comma 2, ma la disciplina generale posta dal testo unico del 1957. Sì che va disattesa anche la censura mossa dalla VI Sezione.
                                PER QUESTI MOTIVI
                             LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, 
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24 e 97 della Costituzione, dal Consiglio di Stato in adunanza plenaria e dalla VI sezione dello stesso Consiglio, nonché dai Tribunali amministrativi regionali per la Liguria e il Piemonte, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 1999.
F.to: Renato GRANATA, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 1999.
 

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