Giurisprudenza - Sanità
Titoletto:
1) Competenze legislative ed amministrative in materia di servizi sociali, interazioni con la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali. Il quadro normativo di riferimento. Compatibilità con il titolo V della Costituzione.
2) Prestazioni o servizi sociali e assistenziali: il criterio dell’ISEE. Il criterio di accesso ai servizi integra un livello essenziale di prestazioni necessariamente uniforme sul territorio nazionale. Ambiti residuali di intervento normativo degli enti locali ex art. 3, comma 1, del d.l.vo 1998 n. 109. Impossibilità di valorizzare la capacità economica degli obbligati alimentari, ex art. 433 c.c..
3) Disabili gravi e anziani non autosufficienti. Sussiste l’immediata applicabilità dell’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109 che pone il criterio della evidenziazione della condizione economica del solo assistito. Confutazione dei diversi orientamenti. Rilevanza sistematica della Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 ratificata con legge 2009 n. 18.
4) Indennità di accompagnamento: natura e funzioni; è un reddito esente, presenta natura assistenziale e di regola non integra un indice di capacità economica.
   

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
01487/2010 reg. sen.
01900/2009 reg ric
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1900 del 2009, proposto da: 
- Associazione Senza Limiti Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore; 
- Associazione Spazio Autismo, in persona del legale rappresentante pro tempore; 
- Associazione Gad Gruppo Accoglienza Disabili, in persona del legale rappresentante pro tempore;
- Sig.ra Ciriello Lidia;
Tutti rappresentati e difesi dagli Avv.ti Francesco Trebeschi e Alberto Guariso, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Milano, viale Regina Margherita n. 30; 
contro
- Comune di Cinisello Balsamo, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Stefano Nespor e Ada Lucia De Cesaris, presso il cui studio ha eletto domicilio in Milano, via Cadore n. 36;
nei confronti di
- Regione Lombardia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Catia Gatto, con domicilio eletto presso gli Uffici dell’avvocatura regionale, a Milano, via F. Filzi n. 22; 
- Provincia di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
e dandone notizia a:
- Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Distrettuale dello Stato di Milano, presso i cui Uffici è domiciliata per legge, in Milano, via Freguglia n. 1; 
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
- della delibera del Consiglio Comunale del Comune di Cinisello Balsamo 15 aprile 2009 n. 38;
- di tutti gli atti preordinati, conseguenti e comunque connessi; 

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Cinisello Balsamo in Persona del Sindaco P.T.;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Autorita' Garante per la Protezione dei Dati Personali;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Lombardia in Persona del Presidente P.T.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21/01/2010 il dott. Fabrizio Fornataro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO
Le parti ricorrenti hanno impugnato la deliberazione del Consiglio Comunale del Comune di Cinisello Balsamo n. 38 del 15 aprile 2009, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili. 
Si è costituito in giudizio il Comune di Cinisello Balsamo, eccependo sia l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione in capo alle Associazioni ricorrenti e per carenza di interesse in capo alla sig.ra Ciriello Lidia, sia l’infondatezza dell’impugnazione e chiedendone il rigetto. 
Si è costituita in giudizio l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, eccependo il proprio difetto di legittimazione.
Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, eccependo l’infondatezza del ricorso avversario e chiedendone il rigetto.
Non si è costituita in giudizio la Provincia di Milano.
Le parti hanno presentato memorie e documenti.
Durante la Camera di Consiglio del 10.09.2009, le parti ricorrenti hanno rinunciato alla domanda cautelare contenuta nel ricorso.
All’udienza del giorno 21.01.2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1) Il Comune di Cinisello Balsamo ha adottato, con delibera consiliare n. 38 del 15 aprile 2009, il regolamento per l’accesso al servizio sociale e ai servizi a domanda individuale erogati dal settore socio educativo.
Avverso tale regolamento sono insorte le ricorrenti, contestandone alcune parti e deducendo vizi di violazione di legge e di eccesso di potere in relazione a diversi profili, afferenti all’incompatibilità della disciplina regolamentare con quella dettata dal legislatore statale in sede di definizione delle modalità di accesso ai servizi sociosanitari da parte delle persone con disabilità o anziane.
2) In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione con la quale l’amministrazione comunale contesta la carenza di interesse della sig. Ciriello Lidia, nonché la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti. 
In relazione al primo profilo, il Comune esclude che la sig.ra Ciriello sia portatrice di un interesse ad agire attuale e concreto, in quanto ella allega di essere figlia di una persona inserita in una R.S.A. (residenza sanitaria assistita) e di sopportare l’onere economico di tale collocazione, ma non ha chiesto uno specifico contributo comunale, sicché, in mancanza di atti applicativi afferenti direttamente alla sfera giuridica della ricorrente, il regolamento impugnato non determina alcuna attuale e concreta lesione nei suoi confronti. 
Sotto altro profilo, il Comune considera che le associazioni ricorrenti, come ogni ente esponenziale di determinate categorie di persone, sono legittimate ad agire solo per il perseguimento degli interessi di tutti i soggetti rappresentati - anziani, disabili e le loro famiglie - ma nel caso di specie tale condizione non può ritenersi rispettata, perché l’annullamento del regolamento impugnato comporterebbe l’eliminazione dei benefici che in base ad esso vengono riconosciuti a taluni appartenenti alle categorie medesime.
L’eccezione è solo in parte fondata.
In particolare, la tesi difensiva merita accoglimento nella parte in cui contesta l’interesse ad agire della sig.ra Ciriello.
Invero, è principio consolidato quello per cui l’interesse ad agire presuppone una lesione concreta ed attuale della posizione individuale del ricorrente, lesione derivante dal provvedimento impugnato.
Nel caso di specie, la sig.ra Ciriello impugna un atto di natura regolamentare che non incide direttamente sulla sua sfera giuridica, perché non reca norme che modificano direttamente la sua posizione giuridica; sicché, l’interesse potrebbe scaturire solo dall’adozione di atti applicativi delle norme regolamentari capaci di incidere immediatamente, in modo pregiudizievole, sulla sua sfera individuale.
In particolare la sig.ra Ciriello, pur allegando di essere figlia di una persona inserita in una struttura assistenziale residenziale e pur allegando di dover sopportare i costi di questa situazione, non ha documentato di avere chiesto all’amministrazione un contributo economico o di altro tipo, negatole in applicazione del regolamento impugnato, sicché allo stato la normativa regolamentare oggetto del ricorso non determina alcun pregiudizio per la sua posizione individuale.
Ne deriva la fondatezza dell’eccezione in esame, sicché il ricorso collettivo proposto deve essere dichiarato parzialmente inammissibile in relazione alla posizione della ricorrente Ciriello Lidia.
Va precisato - in esercizio dei poteri ufficiosi di verifica delle condizioni dell’azione - che le conclusioni raggiunte nei confronti della sig.ra Ciriello non sono trasferibili alle associazioni ricorrenti, in punto di carenza di interesse.
Invero, la sussistenza del loro interesse a ricorrere deve essere apprezzata tenendo conto della natura collettiva della posizione giuridica di cui sono portatrici; in particolare, l’introduzione di una norma regolamentare, di cui viene dedotto il contrasto con il quadro legislativo di riferimento, si presta a pregiudicare con immediatezza ed attualità interessi di natura meta individuale, perché incide direttamente sulle posizioni di vantaggio che ad una determinata categoria sono riconosciute in base alla legge.
In altre parole, l’introduzione di norme regolamentari ritenute contrastanti con le prerogative che la legge riconosce ad una determinata categoria rende immediato e concreto l’interesse delle associazioni esponenziali a contestare il regolamento in sede giurisdizionale, in quanto esso è idoneo ad introdurre un trattamento normativo diverso da quello che il legislatore riserva a determinate categorie di persone, con conseguente pregiudizio per gli interessi legittimi collettivi di cui sono portatori proprio gli enti rappresentativi. 
Non merita condivisione l’eccezione con la quale l’amministrazione comunale contesta la legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, asserendo che l’impugnazione non sottenderebbe interessi dell’intera categoria rappresentata, in quanto l’eventuale caducazione del regolamento comporterebbe la perdita dei benefici che, proprio in base al regolamento, l’amministrazione riconosce a taluni soggetti appartenenti alle categorie di riferimento.
In primo luogo, va osservato che la tesi dell’amministrazione è del tutto apodittica, visto che dalla documentazione versata in atti non emergono elementi per ritenere che l’eventuale accoglimento delle doglianze formulate nel ricorso si tradurrebbe in un pregiudizio per taluni soggetti appartenenti alle categorie rappresentate.
In ogni caso, la legittimazione ad agire va valutata in astratto, sulla base di ciò che viene prospettato nell’atto introduttivo del giudizio, a prescindere dalla fondatezza del ricorso, che coinvolge il merito della domanda presentata (cfr. tra le tante, Cass., sez. III, 30 maggio 2008, n. 14468).
Nel caso di cui si tratta, le associazioni lamentano la violazione di norme legislative dettate a tutela dell’intera categoria di cui sono esponenziali, sicché, a prescindere dalla fondatezza della domanda, la legittimazione ad agire non può essere negata per la sola circostanza che di fatto la disciplina del regolamento - in ipotesi illegittimo - ridondi a vantaggio pratico di taluno degli appartenenti alla categoria.
In altre parole, il beneficio che l’amministrazione prospetta per alcuni dei soggetti rappresentati non si atteggia - ai fini della valutazione delle condizioni dell’azione - ad interesse giuridicamente rilevante, idoneo a rendere l’azione esperita dalle associazioni funzionale alla tutela solo di una parte dei rappresentati, perché è correlato all’applicazione di norme di cui viene contestata la legittimità; certo, nulla esclude che i profili di legittimità denunciati non sussistano, ma ciò non incide sulla legittimazione ad agire, che, come ricordato, va valutata in astratto, in base a quanto dedotto nel ricorso.
Pertanto, al di là della situazione contingente, prospettata dall’amministrazione come vantaggiosa per alcuni, resta fermo che anche costoro partecipano dell’interesse alla salvaguardia del regime giuridico che la legge prevede per la categoria cui appartengono. 
In definitiva, il ricorso proposto dalle associazioni prospetta ed è diretto a tutelare un interesse giuridicamente rilevante ed omogeneo, riferibile perciò all’intera categoria rappresentata, compresi coloro che in via di mero fatto potrebbero ottenere un vantaggio materiale dall’applicazione di una disciplina di cui si contesta la legittimità (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 5 settembre 2005, n. 589; C.d.S., sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2811; C.d.S., sez. V, 13 febbraio 2001, n. 1339; più recentemente in argomento T.A.R. Marche Ancona, sez. I, 14 luglio 2009, n. 779; T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 08 aprile 2009, n. 952).
La fattispecie concreta, pertanto, non è riconducibile all’ipotesi in cui un ente esponenziale agisca a tutela di interessi di una parte dei soggetti che rappresenta trascurando gli interessi giuridicamente rilevanti che mettono capo agli altri soggetti rappresentati, secondo quanto ritenuto dall’amministrazione. 
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza dell’eccezione ora esaminata.
2) Sempre in via preliminare merita accoglimento l’eccezione con la quale l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali eccepisce il proprio difetto di legittimazione nel presente giudizio.
Invero, tale soggetto non è parte resistente, perché ad essa non è riconducibile il provvedimento impugnato, né ha posto in essere provvedimenti prodromici ad esso. 
Del resto, l’Autorità non assume neppure la qualifica di controinteressato, atteso che il provvedimento impugnato non gli arreca alcun vantaggio giuridicamente rilevante.
Priva di rilevanza è anche la qualificazione dell’Autorità come cointeressata, secondo quanto prospettato nel ricorso, sia perché l’Autorità non è pregiudicata dal provvedimento impugnato e quindi non è un soggetto cointeressato, sia perché, anche ad accedere alla tesi delle ricorrenti, il cointeressato ha titolo per partecipare al giudizio promosso avverso un provvedimento che lo lede direttamente solo impugnandolo nel rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge.
Va, pertanto, ribadito che l’Autorità non è portatrice di situazioni giuridiche soggettive che giustifichino la sua partecipazione al giudizio e, di conseguenza, ne va disposta l’estromissione dal processo. 
3) Con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione della legge 2000 n. 328, in quanto l’approvazione del regolamento impugnato sarebbe avvenuta senza la necessaria concertazione con le Associazioni rappresentative degli interessi delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
Il motivo è infondato.
Non è in contestazione che dal coordinamento tra l’art. 1, comma 5 e l’art. 3, comma 2 lett. b), con l’art. 6, comma 2, lett. a) e l’art. 16, comma 1, della legge 2000 n. 328, gli enti locali devono provvedere, nell'ambito delle rispettive competenze, alla programmazione degli interventi e delle risorse del sistema integrato di interventi e servizi sociali coinvolgendo altri soggetti, tra i quali le organizzazioni di volontariato e le associazioni e gli enti di promozione sociale portatori degli interessi delle persone diversamente abili e delle loro famiglie (cfr. Tar Brescia, sez. I, 2 aprile 2008, n. 350).
Pertanto anche l’adozione da parte di un ente locale della disciplina regolamentare diretta a definire le condizioni, anche tariffarie, per l’accesso ai servizi sociali, assistenziali e socio sanitari deve rispettare il principio della concertazione.
Tuttavia nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, il Comune di Cinisello Balsamo ha documentato l’attivazione della concertazione prima dell’adozione del regolamento impugnato.
Invero, dai documenti acquisiti (cfr. doc 2 e seguenti dell’amministrazione comunale) risulta che sin dal 2007 l’amministrazione si è confrontata con le associazioni di categoria (tra le altre: la Lega per i diritti delle persone con disabilità, l’Associazione Senza Limiti, l’Associazione Spazio Autismo, etc.) mediante incontri (ad esempio in data 20.12.2007 e 01.12.2008), talora sfociati in accordi.
Ne deriva che nel caso di specie il Comune ha esercitato il potere regolamentare che gli compete nella materia de qua nel rispetto del principio della concertazione con le associazioni di categoria, con conseguente infondatezza del motivo in esame.
4) Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano la violazione di legge, assumendo che il regolamento impugnato contrasta con il d.l.vo 1998 n. 109 nella parte in cui prevede la sistematica partecipazione al costo dei servizi delle persone obbligate a prestare gli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c..
La censura si riferisce all’All. 8, parte I art. 13, nonché alle norme dell’All. 8, parte seconda lett. c) e d) e dell’All. 8, parte terza lett. a) e b), del regolamento impugnato, che prevedono tale compartecipazione.
La difesa del Comune contesta (pag 17 e seg. ti della memoria datata 05.01.2010) la ricostruzione effettuata dalle ricorrenti, affermando che il regolamento non prevede alcun obbligo di pagamento per i “soggetti tenuti per legge”, né assegna diritti di rivalsa a favore del Comune nei loro confronti.
Inoltre, si evidenzia che il dato normativo - in particolare l’art. 1 comma 2, nonché l’art. 3, comma 1, del d.l.vo 1998 n. 109 - attribuisce agli enti erogatori il compito di individuare i requisiti e le condizioni economiche necessari per fruire delle prestazioni agevolate, potendo prevedere accanto all’indicatore della situazione economica equivalente, anche “criteri ulteriori di selezione dei beneficiari”. 
4.1) La valutazione delle censure richiede una preventiva ricostruzione del quadro normativo di riferimento, tenendo presente il riparto della funzione legislativa nelle materie de qua emergente dall’art. 117 Cost., nel testo introdotto dalla legge cost. 2001 n. 3.
La materia dei servizi sociali non è elencata né nell’art. 117, comma 2, Cost., relativo agli ambiti di legislazione statale esclusiva, né nel comma 3 del medesimo art. 117, relativo agli ambiti di legislazione regionale concorrente - tra i quali va invece compresa la “tutela della salute” – sicché l’ambito dei servizi sociali va ricondotto alle materie di legislazione esclusiva regionale, ai sensi del comma 4 dell’art. 117 Cost., ove si prevede che spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (cfr. Corte Cost., 30 aprile 2009, n. 124). 
Il giudice costituzionale ha precisato che, anche a seguito della riforma del titolo V, resta fermo che per la delimitazione della nozione di “servizi sociali” è necessario fare riferimento, in primo luogo, alla legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), la quale, all'art. 1, comma 1, nel fissare i principi generali e la finalità perseguite, afferma che “la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione”. 
Il comma 2 del medesimo articolo precisa che per «interventi e servizi sociali si intendono tutte le attività previste dall'articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112» (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Il richiamato decreto legislativo n. 112 del 1998, agli artt. da 128 a 134, disciplina le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla materia dei servizi sociali e, al comma 2 dell'art. 128, specifica che con tale nozione si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno o di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
La Corte Costituzionale ha messo in luce l’esistenza di un “nesso funzionale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento (ad esempio famiglia, minori, anziani, disabili) e la rimozione o il superamento di situazioni di svantaggio o di bisogno, per la promozione del benessere fisico e psichico della persona” (cfr. Corte costituzionale, 28 luglio 2004, n. 287).
La materia dei servizi sociali si presta ad interferenze da parte del legislatore statale, in esercizio della competenza che gli spetta in via esclusiva in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. m), Cost.; in particolare, la competenza esclusiva in quest’ultima materia attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di un’adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto. 
La Corte Costituzionale ha posto in luce che la conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regione e delle Province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori (cfr. Corte costituzionale, 27 marzo 2003, n. 88).
Ne deriva che nella materia in esame la competenza legislativa esclusiva delle Regioni incontra comunque il limite della disciplina dettata dal legislatore statale nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che anche in tale ambito devono essere assicurati.
Occorre allora portare l’attenzione sul quadro normativo delineato dal legislatore statale, anche se anteriore alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Il quadro normativo si compone, a livello statale, oltre che della legge 2000 n. 328, anche del d.l.vo 1998 n. 109; in tal senso, proprio l’art. 25 della n. 328/2000 specifica che “ai fini dell'accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente è effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130.” 
Gli artt. 1, 2 e 3 del d.l.vo 31 marzo 1998, n. 109 individuano criteri unificati di valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o comunque collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche. 
Il comma 1 dell’art. 1 del decreto n. 109 specifica che le disposizioni si applicano “alle prestazioni o servizi sociali e assistenziali, con esclusione della integrazione al minimo, della maggiorazione sociale delle pensioni, dell'assegno e della pensione sociale e di ogni altra prestazione previdenziale, nonché della pensione e assegno di invalidità civile e delle indennità di accompagnamento e assimilate”.
Il successivo art. 2, comma 1, individua nell’I.S.E.E. - indicatore della situazione economica equivalente - il criterio di valutazione della situazione economica del richiedente, che va determinata con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare cui egli appartiene.
Insomma, il legislatore valorizza la capacità economica del richiedente, ma solo nel quadro dell’I.S.E.E. rapportato al suo nucleo familiare, mentre il successivo comma 2 dell’art. 2 specifica che ai fini della disciplina in esame “ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo familiare. Fanno parte del nucleo familiare i soggetti componenti la famiglia anagrafica. I soggetti a carico ai fini I.R.P.E.F. fanno parte del nucleo familiare della persona di cui sono a carico. I coniugi che hanno la stessa residenza anagrafica, anche se risultano a carico ai fini I.R.P.E.F. di altre persone, fanno parte dello stesso nucleo familiare. Il figlio minore di 18 anni, anche se risulta a carico ai fini I.R.P.E.F. di altre persone, fa parte del nucleo familiare del genitore con il quale convive”.
Il comma 4 definisce l'indicatore della situazione economica equivalente come la somma di valori reddituali e patrimoniali, da combinare tra loro in base a predeterminate percentuali e secondo le previsioni della tabella 1 allegata al decreto. 
Inoltre, il comma 6 dell’art. 2 stabilisce che “Le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell'art. 433 del codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell'attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all'articolo 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata”.
L’art. 3 riserva uno spazio di disciplina agli enti locali in sede di definizione dei parametri per l’accesso ai servizi, stabilendo che gli enti erogatori possono prevedere, ai sensi dell'articolo 59, comma 52, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, accanto all'indicatore della situazione economica equivalente “criteri ulteriori di selezione dei beneficiari”. 
Con riferimento alle prestazioni che devono essere garantite sull’intero territorio nazionale, nel contesto del sistema integrato di interventi e servizi sociali, l’art. 2 della legge 2000 n. 328 prescrive che tale sistema ha carattere di universalità, con la precisazione, da un lato, che il sistema “garantisce i livelli essenziali di prestazioni”, dall’altro, che gli enti locali, le Regioni e lo Stato devono attuarlo nel rispetto dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.
Il successivo art. 22 della legge n 328 individua in che cosa consistono i livelli essenziali delle prestazioni nella materia de qua, erogabili sotto forma di beni e servizi, comprendendovi tra l’altro - comma 2 lett. g) - gli “ interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l'accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell'autonomia, non siano assistibili a domicilio”. 
Il comma 4 dell’art. 22 elenca poi alcune prestazioni la cui erogazione deve essere prevista dalle leggi regionali, tra le quali – lettere c), d), e) – l’assistenza domiciliare; l’istituzione di strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali, nonché l’attivazione di centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario. 
Il quadro normativo ora descritto, derivante dal coordinamento tra il d.l.vo 1998 n. 109 e la legge 2000 n. 228, pur essendo anteriore alla riforma del titolo V è coerente con il già ricordato riparto della funzione legislativa tra lo Stato e le Regioni risultante dal vigente art. 117 Cost..
Difatti, nel settore in esame il legislatore statale ha limitato il proprio intervento alla sola definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, lasciando gli ulteriori profili di disciplina alla legislazione regionale.
Pertanto, la normativa richiamata, anche se anteriore alla modificazione costituzionale, rimette in concreto alle Regioni la disciplina legislativa della materia dei servizi sociali, consentendo allo Stato di incidervi solo in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Occorre però precisare che la determinazione di siffatti livelli non comprende solo la specificazione delle attività e dei servizi da erogare, in quanto è del tutto coerente ritenere che anche la definizione dei criteri di accesso a questi benefici integri un livello essenziale di prestazioni da garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale.
In particolare, se la legge considera una certa attività o un determinato servizio di natura essenziale, imponendone l’erogazione in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, la realizzazione di questo obiettivo postula che tutti gli interessati possano accedere in condizioni di parità a simili prestazioni.
Pertanto, è necessario che il criterio in forza del quale vengono selezionati i soggetti destinatari di prestazione ritenute essenziali dal legislatore statale sia definito una volta per tutte proprio dal legislatore statale, in quanto esprime, a sua volta, un livello essenziale di prestazione da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale.
In altre parole il criterio di individuazione dei soggetti aventi diritto a prestazioni ritenute essenziali dalla legge statale non può essere diverso da un territorio regionale all’altro, in quanto ciò provocherebbe un diverso trattamento tra persone oggettivamente nelle stesse condizioni, sicché, pur a parità di condizioni, la stessa prestazione, essenziale in base alla legge, sarebbe accessibile per alcuni e non per altri.
Diversamente opinando si renderebbe inutile l’individuazione stessa di determinati servizi ed attività come prestazioni essenziali, da garantire in quanto tali in modo omogeneo ed uniforme su tutto il territorio nazionale, atteso che tale esigenza di uniformità sarebbe vanificata dalla possibilità di introdurre diversi criteri di accesso alle prestazioni.
Va, pertanto, ribadito che i criteri stabiliti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, essendo funzionali all’accesso alle attività e ai servizi essenziali delineati dalla legge 2000 n. 328 (sul punto si richiama ancora l’art. 25 della legge n. 328), sono preordinati al mantenimento di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 117, comma 2 lettera m), Cost., sicché integrano essi stessi un livello essenziale di prestazione, la cui definizione spetta al legislatore statale (cfr. simili conclusioni sono coerenti con le considerazioni svolte da C.d.S., sez. cons. atti norm., 29 agosto 2005, n. 4699/03, nonché C.d.S., sez. V, ord. 14 settembre 2009, n. 4582).
Naturalmente spetta al legislatore statale stabilire anche il limite entro il quale l’individuazione di un criterio selettivo integra un livello essenziale delle prestazioni, nel senso che non è da escludere che il legislatore nazionale, una volta fissato il criterio fondamentale, riconosca alle Regioni uno spazio di intervento destinato a rendere coerente l’uniformità del criterio con le specificità delle singole realtà territoriali.
E’ evidente che eventuali regole di accesso ai servizi lasciate al legislatore regionale, o alla potestà amministrativa degli enti locali, nei termini ora precisati, non integrano livelli essenziali delle prestazioni, ma sono solo strumenti di adeguamento locale del criterio fissato in modo omogeneo ed uniforme dal legislatore statale. 
Il criterio generale di selezione esplicitato dal d.l.vo 1998 n. 109 - da ricondurre perciò al novero dei livelli essenziali di prestazioni - è, come già ricordato, l'indicatore della situazione economica equivalente, ossia un parametro basato su fattori reddituali e patrimoniali riferibili all’interessato e al suo nucleo familiare, come definito dall’art. 2, commi 2 e 3, del d.l.vo n. 109.
Da quanto sinora esposto discendono due conseguenze.
In primo luogo va osservato che l’art. 3, comma 1, del decreto 109, nella parte in cui attribuisce agli enti locali la facoltà di prevedere, accanto all'indicatore della situazione economica equivalente, “criteri ulteriori di selezione dei beneficiari”, va inteso nel senso che consente di attribuire rilevanza a fattori diversi da quelli reddituali o patrimoniali, per i quali il limite della rilevanza è stato definito dal legislatore statale in sede di determinazione del parametro I.S.E.E., la cui applicazione per l’accesso ai servizi esprime di per sé un livello essenziale di prestazioni da applicare in modo uniforme.
Gli enti locali potranno valorizzare elementi di vario tipo, collegati alle peculiarità sociali di una determinata zona, ma non potranno introdurre ulteriori criteri fondati su elementi reddituali o patrimoniali, in quanto ciò determinerebbe un’alterazione irragionevole dell’assetto voluto dal legislatore statale che ha scelto di valorizzare questi elementi solo nel quadro dell’indicatore della situazione economica equivalente (cfr. in argomento Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008 n. 303; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 02 aprile 2008, n. 350; Tar Umbria, 06 febbraio 2002, n. 271).
Inoltre, la circostanza che il legislatore abbia valorizzato la capacità economica e patrimoniale solo nel quadro degli elementi costitutivi dell’I.S.E.E. e solo in relazione al nucleo familiare definito dall’art. 2, commi 2 e 3, del d.l.vo 1998 n. 109, esclude che gli enti locali possano tenere in considerazione la capacità economica di soggetti non appartenenti a tale nucleo, sempre ai fini dell’accesso alle prestazioni essenziali e della determinazione dei costi gravanti sull’utente.
In particolare, non può essere valorizzata la presenza di eventuali obbligati alimentari che non siano riconducibili ai soggetti da considerare necessariamente ai fini dell’I.S.E.E., altrimenti si introdurrebbero criteri ulteriori di apprezzamento della capacità economica dell’interessato, al di fuori del nucleo familiare I.S.E.E., diversi da Comune a Comune e perciò tali da creare una irragionevole disparità di trattamento tra persone che versano nelle stesse condizioni.
Ecco allora che la presenza di soggetti riconducibili al novero degli obbligati alimentari non può integrare, direttamente o indirettamente, un parametro per l’accesso ai servizi, in quanto si traduce nella valorizzazione della capacità economica di soggetti estranei al meccanismo di funzionamento dell’I.S.E.E., individuato dal legislatore statale come criterio uniforme in ambito nazionale per l’accesso ai servizi.
Simili valutazioni trovano conforto nel trattamento che il d.l.vo 1998 n. 109 riserva agli obbligati alimentari nel contesto della complessiva disciplina dettata in materia. 
Invero, il già ricordato art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109 esclude che le descritte regole di accesso ai servizi modifichino la disciplina dei soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti, ai sensi dell'art. 433 c.c., precisando che agli enti erogatori non spetta la facoltà di cui all'articolo 438, primo comma, c.c. nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata.
Tale previsione esclude che le Regioni possano intervenire sulla disciplina dell’obbligazione alimentare di cui all’art. 433 c.c., modificando i caratteri del credito alimentare, che rimane, pertanto, un diritto strettamente personale ed indisponibile, secondo un assetto coerente, anche per il profilo in esame, con il novellato Titolo V della Costituzione, che ex art. 117, comma 2 lett. l), riserva la materia “ordinamento civile” alla legislazione statale esclusiva. 
Ovviamente, in tale ambito anche la potestà regolamentare spetta allo Stato, ex art. 117, comma 6, Cost., sicché neppure gli enti locali possono incidere sui caratteri del credito alimentare in esercizio dei poteri normativi di secondo grado di cui sono titolari. 
Pertanto, resta fermo che il credito alimentare, di natura personale, non può essere oggetto di azione surrogatoria da parte dei creditori dell’avente diritto (come emerge dal combinato disposto degli art. 438, comma 1 e dell’art. 2900 c.c.), il quale non può disporre del proprio credito, che, difatti, non può essere ceduto, né fatto oggetto di compensazione, ex art. 447 c.c.; del resto, il credito alimentare neppure si estingue per prescrizione, atteso che l’art. 2948, n. 2, c.c. prevede la prescrizione quinquennale solo per le annualità scadute.
In coerenza con la generale preclusione dell’azione surrogatoria, l’art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109 esclude che gli enti erogatori possano sostituirsi al richiedente la prestazione sociale agevolata, azionando il credito alimentare verso i componenti del suo nucleo familiare.
Ne deriva che, da un lato, la preventiva attivazione del credito alimentare da parte dell’interessato non può integrare un criterio di accesso ai servizi, perché ciò contrasterebbe con la immutata natura personale del credito alimentare, dall’altro, la presenza di obbligati alimentari non giustifica la valorizzazione di parametri economici ulteriori, legati al reddito o al patrimonio di questi soggetti, perché comporterebbe l’introduzione di un parametro di accesso ai servizi di matrice economica ma estraneo al criterio fissato in modo uniforme dal legislatore statale, infine, gli enti erogatori non possono surrogarsi al richiedente e far valere il credito alimentare che quest’ultimo decide di non azionare. 
Occorre ulteriormente precisare che l’impossibilità per gli enti locali di valorizzare, nei termini suindicati, la presenza di obbligati alimentari, ai fini dell’accesso ai servizi, ha portata generale, perché è connessa alla ricordata natura personale del credito alimentare - sottratta ad interventi normativi regionali o locali - sicché attiene a tutti i servizi disciplinati dalla legge 2000 n. 328 e non solo a quelli espressamente considerati dal legislatore statale come livelli essenziali di prestazioni.
In relazione alla normativa dettata in materia dalla Regione Lombardia, va rilevato che l’art. 8, comma 3, della legge reg. 2008 n. 3 è coerente con il quadro sinora delineato, in quanto stabilisce che “Le persone che accedono alla rete partecipano, in rapporto alle proprie condizioni economiche, così come definite dalle normative in materia di Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) e nel rispetto della disciplina in materia di definizione dei livelli essenziali di assistenza, alla copertura del costo delle prestazioni mediante il pagamento di rette determinate secondo modalità stabilite dalla Giunta regionale, previa consultazione dei soggetti di cui all'articolo 3 e sentita la competente commissione consiliare. Partecipano altresì i soggetti civilmente obbligati secondo le modalità stabilite dalle normative vigenti”.
In particolare, con riguardo ai criteri economici di accesso ai servizi e, quindi, anche per la determinazione della quota di costo da porre a carico degli utenti, la legge regionale richiama integralmente sia la disciplina dei livelli essenziali di assistenza, sia il criterio I.S.E.E., quale parametro per la determinazione della situazione economica di ciascun soggetto che chiede di accedere ai servizi.
Pertanto, la legge regionale rispecchia il quadro costituzionale già descritto, perché rinvia alla normativa statale sia in relazione ai livelli essenziali delle prestazioni, sia in relazione al criterio economico di accesso ai servizi e di riparto dei costi, stabilito in modo uniforme dal legislatore statale.
L’ulteriore inciso con il quale si prevede che “partecipano altresì i soggetti civilmente obbligati secondo le modalità stabilite dalle normative vigenti” non è in contrasto con il quadro normativo descritto, in quanto la legge regionale non ha disposto la necessaria partecipazione ai costi del servizio da parte degli obbligati alimentari, ma ha introdotto una norma di rinvio, che consente la partecipazione degli obbligati alimentari nella misura in cui ciò sia consentito dalla normativa vigente. 
Tuttavia, la normativa vigente è quella statale, ai sensi degli artt. 433 e seg. c.c. e dell’art. 2, comma 6, del d.l.vo 1998 n. 109, la quale non consente agli enti locali né di subordinare l’accesso ai servizi alla preventiva attivazione del credito alimentare, né di parametrare il costo del servizio gravante sull’utente alla capacità economica degli obbligati alimentari, né di surrogarsi al richiedente pretendendo il pagamento di una parte dei costi da parte degli obbligati alimentari.
Pertanto, per il profilo in esame la norma regionale non si presta a supportare l’introduzione di criteri che ai fini dell’accesso ai servizi o della quantificazione dei costi gravanti sull’utente valorizzino la presenza di obbligati alimentari.
Del resto, il Tribunale ha già precisato che il d.l.vo 1998 n. 109 contiene la definizione di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, fissando i parametri di determinazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (I.S.E.E.) e utilizzando a tale fine le informazioni relative al nucleo familiare di appartenenza, fermo restando però che i criteri di calcolo dell’I.S.E.E. servono per individuare “il reddito dell’avente diritto alla prestazione con riferimento al reddito familiare, ma non per considerare obbligati alle spese anche altri familiari”, sicché obbligato al pagamento è il richiedente “anche se il suo reddito viene calcolato con riferimento alla situazione familiare” (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008, n. 291; sul punto si veda anche Tar Brescia, sez. I, 08 luglio 2009, n. 1457). 
4.2) E’ fondata la censura che le ricorrenti sviluppano rispetto all’art. 13, allegato 8 parte prima, del regolamento comunale impugnato.
La norma si colloca nell’ambito dell’enunciazione dei principi e dei criteri generali che informano l’accesso ai servizi sociali ed è diretta, in particolare, a disciplinare “la valutazione della situazione economica dell’utente e coinvolgimento dei tenuti per legge”.
La disposizione prevede che la capacità economica consiste in generale “sia di quanto l’utente /suo nucleo familiare dispone in via diretta, sia di quanto può legittimamente disporre in via indiretta avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dalla normativa (es. diritto agli alimenti da parte degli obbligati per legge ecc…) non essendo possibile per l’A.C. farsi carico di interventi resisi necessari a seguito della scelta di un cittadino di non attivare nei confronti dei propri congiunti, tenuti per legge (art. 2 Cost., artt. 433 c.c. e ss., art. 8 L.R. 3/2008) o di altri debitori nei suoi confronti, quanto consentitogli”, con la precisazione che “l’utente dovrà fornire informazioni veritiere su” … “esistenza in vita degli obbligati per legge (es. art. 433 c.c.)” e sull’ “effettivo stato delle entrate e delle spese familiari”.
La norma prevede un coinvolgimento degli obbligati alimentari non compatibile con la disciplina dettata dall’art. 2, comma 6, del d.lvo 1998 n. 109.
In primo luogo, la disposizione censurata esclude che l’amministrazione si faccia carico di interventi qualora il richiedente decida di non esercitare il credito alimentare nei confronti dei soggetti di cui all’art. 433 c.c..
Tale previsione non rispecchia la personalità del diritto agli alimenti espressamente salvaguardata dal d.l.vo 1998 n. 109, perché finisce con l’obbligare il soggetto che intende accedere ai servizi ad azionare preventivamente il proprio credito alimentare.
Ciò è confermato dalla circostanza che il credito alimentare viene considerato come un elemento costitutivo della capacità economica del soggetto interessato, cui viene imposto non solo di dichiarare se esistono obbligati alimentari, ma anche quale sia lo stato delle entrate e delle spese “familiari”, secondo una formula che è evidentemente estesa anche alla posizione degli obbligati alimentari.
Insomma, la norma in esame condiziona l’accesso ai servizi e la determinazione del costo che grava sull’utente, alla preventiva attivazione da parte di quest’ultimo della pretesa alimentare di cui dispone, ma ciò è in contrasto con il carattere personale ed indisponibile del credito alimentare, che si traduce nell’attribuire al solo titolare la scelta di azionare o meno il credito.
Del resto, la valorizzazione dell’esistenza di obbligati alimentari, prevista in via generale dalla norma regolamentare, contrasta anche con il criterio dell’I.S.E.E. prescelto dal legislatore nazionale come criterio unificato per la valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate.
In particolare, secondo quanto già ricordato, l’I.S.E.E. non considera il credito alimentare come elemento reddituale positivo del richiedente la prestazione, né comprende gli obbligati alimentari in quanto tali nel nucleo familiare cui rapportare la valutazione della situazione economica del richiedente. 
Va, pertanto, ribadito che per i profili ora visti la norma regolamentare contrasta con il d.l.vo 1998 n. 109, sicché deve essere annullata, in accoglimento della censura in esame. 
Le stesse considerazioni valgono per le altre norme dell’all. 8 del regolamento - censurate dalle ricorrenti - che in relazione a singole tipologie di servizi ripetono i contenuti della disposizione generale dell’art. 13, parte prima, dell’All. 8.
Così, in relazione all’accesso al servizio di Centro Diurno Integrato (C.D.I.), la parte seconda lettera C) dell’All. 8 prevede espressamente il coinvolgimento degli obbligati alimentari in relazione ai quali si stabilisce che partecipano alla spesa del servizio “laddove ne ricorrano le condizioni previste dal presente regolamento” (cfr. in particolare artt. 3 e 4 del regolamento impugnato).
Le stesse valutazioni vanno estese alla parte seconda lettera D) dell’All. 8 che, in relazione agli interventi economici a sostegno della residenzialità per anziani e disabili, prevede espressamente (in particolare l’art. 7) la partecipazione dei tenuti per legge, individuati proprio mediante il riferimento all’art. 433 c.c., ossia agli obbligati alimentari, stabilendo che il coinvolgimento dei tenuti per legge “è sempre attivato direttamente dall’interessato pena, ovviamente, l’inammissibilità della domanda di contribuzione economica”, con la precisazione che “sarà l’interessato stesso a dover fornire la documentazione e le dichiarazioni necessarie al fine di tale valutazione”.
Similmente, l’all. 8, parte terza lett. A) e l’all. 8, parte terza lett. B), del regolamento, nel disciplinare l’accesso al servizio di assistenza domiciliare, rispettivamente, per gli anziani e per le persone con disabilità, condizionano (cfr. in particolare l’art. 7 della lett. A e l’art. 7 della lett. B) l’applicazione di agevolazioni tariffarie alla circostanza che l’interessato documenti o meno “l’impossibilità di ottenere dai propri tenuti per legge l’aiuto a suo favore per sostenere tale spesa”.
Ne deriva che anche le norme in esame contrastano con le previsioni del d.l.vo 1998 n. 109, in quanto subordinano l’accesso a particolari servizi, o la determinazione della tariffa da applicare, al previo esercizio da parte dell’interessato del proprio credito alimentare, in violazione dei caratteri di personalità e di indisponibilità di esso, salvaguardati dal decreto n. 109.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza del motivo in esame.
Sotto altro profilo va osservato che la fondatezza della censura esaminata consente di ritenere assorbita l’ulteriore doglianza formulata con l’ultimo dei motivi proposti, nella parte in cui si lamenta la violazione del d.l.vo 2003 n. 196 perché la valorizzazione della presenza di obbligati alimentari ai sensi dell’art. 433 c.c. implicherebbe un’indagine sulla situazione patrimoniale e reddituale di costoro in contrasto con l’esigenza di tutela della riservatezza posta dal decreto n. 196.
Invero, una volta riconosciuto che l’amministrazione, per il profilo esaminato, non può valorizzare la presenza di obbligato alimentari, resta esclusa l’utilizzabilità di criteri in relazione ai quali potrebbe porsi il problema del contrasto con le esigenze di riservatezza dell’acquisizione di informazioni relative a soggetti terzi.
4.3) Quanto evidenziato in ordine alla coerenza con i precetti costituzionali della disciplina dettata dal d.l.vo 1998 n. 109 in relazione alla posizione degli obbligati alimentari, rende manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale adombrata dall’amministrazione comunale in relazione al contrasto con l’art. 117 Cost. del divieto di valorizzare l’esistenza di obbligati alimentari.
Sul punto è sufficiente ricordare che la disciplina dell’obbligazione alimentare di cui all’art. 433 c.c. afferisce alla materia “ordinamento civile”, riservata ex art. art. 117, comma 2 lett. l), alla legislazione statale esclusiva, sicché la disciplina dettata sul punto dall’art. 3, comma 2 ter del d.l.vo 1998 n. 109 non contrasta con il riparto di competenze legislative delineato dalla Costituzione. 
Parimenti, si è già evidenziato che l’art. 8 della legge regionale 2008 n. 3 si limita a rinviare alla normativa statale in relazione sia ai livelli essenziali delle prestazioni, sia al criterio economico di accesso ai servizi e di riparto dei costi, sia alla partecipazione degli obbligati alimentari - prevista solo “nella misura in cui ciò sia consentito dalla normativa vigente” secondo quanto già precisato - sicché rispecchia il quadro costituzionale di riferimento, con conseguente manifesta infondatezza della questione sollevata sul punto - in modo estremamente generico - dalle ricorrenti.
5) Con il terzo dei motivi proposti, le ricorrenti lamentano l’illegittimità delle norme del regolamento - in particolare: 1) All. 8, parte prima, art. 11; 2) All. 8, parte II, lett. C e D; 3) All. 8, parte terza, lett. A e B - in quanto prevedono sanzioni a carico dell’utente in caso di mancata partecipazione al costo dei servizi da parte dei familiari ovvero in caso di loro rifiuto di sottoscrivere il contratto di aiuto.
Le censure sono solo in parte fondate.
In particolare, meritano accoglimento le censure articolate in relazione all’All. 8, parte terza, lett. A e B del regolamento.
Invero, in relazione al servizio di assistenza domiciliare per gli anziani e per le persone con disabilità, tanto l’art. 8 della lett. A, quanto l’art. 8 della lett. B della parte terza dell’All. 8, prevedono la sospensione del servizio di assistenza domiciliare per il caso, tra l’altro, del mancato pagamento delle tariffe “previste a carico dell’utente e/o dei tenuti agli alimenti per l’erogazione del servizio”.
E’ evidente che la norma - a prescindere dal concetto di sanzione utilizzato in termini generici e atecnici nel ricorso - sancisce una conseguenza di tipo negativo per l’anziano o per il disabile in dipendenza del mancato pagamento delle tariffe “previste” a carico anche degli obbligati alimentari.
Si è già chiarito che il d.l.vo 1998 n. 109 esclude la possibilità di valorizzare la presenza di obbligati alimentari ai fini della valutazione dei presupposti di capacità economica dell’utente per accedere ai servizi sociali, in coerenza con la personalità del credito alimentare e con il divieto di surrogarsi all’avente titolo nell’esercizio di tale diritto. 
Ne deriva che gli obbligati alimentari non possono essere vincolati dall’amministrazione a sostenere oneri tariffari per l’accesso ai servizi da parte dei loro congiunti (sul punto sono già state richiamate le sentenze Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008, n. 291 e Tar Brescia, sez. I, 08 luglio 2009, n. 1457). 
Perciò, anche le norme che, sul presupposto della configurabilità di un obbligo tariffario in capo agli obbligati alimentari, correlano al mancato adempimento di tale obbligo la sospensione del servizio, collidono con il d.l.vo 1998 n. 109, in quanto determinano conseguenza negative per l’utente in dipendenza dell’inadempimento di un obbligo non configurabile legittimamente in base alla normativa statale di riferimento.
In altre parole, se all’obbligato alimentare in base al d.l.vo 1998 n. 109 non può essere addebitato il pagamento della tariffa per l’accesso ai servizi, allora è illegittima la norma che sul presupposto, contra legem, di tale addebitabilità, esclude l’erogazione del servizio in favore dell’utente qualora l’obbligato alimentare non versi la tariffa.
Ne deriva la fondatezza in parte qua della censura in esame.
Viceversa, la doglianza non è accoglibile in relazione ai contenuti dell’art. 11 dell’All. 8, parte prima, del regolamento.
Invero, tale norma disciplina la parte finale della procedura di valutazione dello stato di bisogno dell’interessato, prevedendo che al termine della valutazione “condivisa con il richiedente, verrà stipulato un contratto che tenga conto delle abilità, dei bisogni, dei vincoli, delle risorse, degli obiettivi complessivi per il superamento dello stato di bisogno”; a tale fine, si prevede la stipulazione di un “contratto di aiuto” tra il servizio sociale e “l’utente e/o i suoi familiari” per disciplinare le modalità e i tempi dell’intervento, con la precisazione che il rifiuto di sottoscrivere il “contratto” comporta l’interruzione della procedura.
La legittimità della norma deve essere valutata, in applicazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nei limiti della censura articolata dalle ricorrenti e in tale contesto va evidenziato che la disposizione non prevede alcuna conseguenza “sanzionatoria” per l’utente in dipendenza di un comportamento riferibile a terzi.
Invero, la norma – contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti – non impone la stipulazione di un contratto tra la struttura che materialmente eroga il servizio e l’utente o i suoi familiari a liberazione degli oneri economici gravanti sull’amministrazione, ma nel quadro della definizione dello stato di bisogno dell’utente, disciplina un meccanismo pattizio per la definizione del tipo di intervento da realizzare.
Meccanismo pattizio che prevede il coinvolgimento anche della famiglia della persona bisognosa, secondo un criterio del tutto legittimo, in quanto risponde a canoni di ragionevolezza che la valutazione delle condizioni in cui versa l’utente sia compiuta anche mediante l’utilizzo delle informazioni che i familiari sono in grado di fornire.
Parimenti, risponde all’id quod plerumque accidit che un progetto di intervento coinvolga operativamente il nucleo familiare dell’interessato, sicché è ragionevole prevedere che il procedimento si interrompa se in relazione ad un certo tipo di intervento, che per la sua compiuta attuazione richiederebbe il coinvolgimento dei familiari, questi ultimi non prestino il loro accordo.
Del resto, la norma non dispone che qualora si verifichi questa circostanza all’interessato sia precluso l’accesso a qualsiasi servizio, trattandosi invece di rimodulare il tipo di intervento in modo da raggiungere un accordo. 
Ne deriva che la norma in esame non prevede alcuna conseguenza “sanzionatoria” in capo all’utente in dipendenza di comportamenti riferibili a terzi, con conseguente infondatezza della censura in esame, in quanto riferita all’art. 11 dell’All. 8, parte prima, del regolamento.
Infondata è anche la doglianza riferita all’All 8, parte II, lett. C), in quanto la disciplina qui stabilita non introduce alcuna sanzione per l’utente in dipendenza di comportamenti altrui.
Quanto poi all’identica censura mossa dalle ricorrenti rispetto all’All 8, parte II, lett. C) del regolamento, va osservato che l’unica norma che correla un effetto negativo per l’utente al comportamento tenuto da terzi è l’art. 7 nella parte in cui sancisce l’inammissibilità della domanda di contribuzione economica in caso di omesso coinvolgimento degli obbligati alimentari.
Per il profilo in esame però la censura va ricondotta al secondo motivo di impugnazione che è già stato esaminato (punto 4 della motivazione), in quanto rappresenta solo un aspetto dell’illegittima previsione del necessario coinvolgimento degli obbligati alimentari ai fini dell’accesso al servizio.
Pertanto, sul punto è sufficiente rinviare alle considerazioni svolte in sede di esame del secondo motivo.
6) Con il quarto motivo le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109, in quanto il regolamento comunale in relazione alle persone con disabilità grave o anziani non autosufficienti non applica il principio della evidenziazione della situazione economica del solo assistito. 
L’amministrazione comunale eccepisce l’infondatezza della censura, evidenziando che la norma invocata dalle ricorrenti non può trovare applicazione, in mancanza del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dovrebbe stabilire i limiti all’applicazione delle disposizioni del d.l.vo 1998 n. 109. 
Il motivo è fondato.
La trattazione della censura rende opportuna la ricostruzione del quadro normativo in cui si colloca la disposizione invocata dalle ricorrenti, al fine di valutarne l’immediata precettività, anche alla luce dei diversi orientamenti sviluppati in ambito giurisprudenziale. 
6.1) Si è già evidenziato che il d.l.vo 1998 n. 109 introduce l’I.S.E.E. come criterio generale di valutazione della situazione economica delle persone che richiedono prestazioni sociali agevolate e l’applicazione di tale parametro comporta che la condizione economica del richiedente sia definita in relazione ad elementi reddituali e patrimoniali del nucleo familiare cui egli appartiene.
Rispetto a particolari situazioni, il decreto n. 109 prevede però l’utilizzo di un diverso parametro, basato sulla situazione del solo interessato.
In particolare, l’art. 3, comma 2 ter - come modificato dall'art. 3, comma 4, D.L.vo 3 maggio 2000, n. 130 - stabilisce che “limitatamente alle prestazioni sociali agevolate assicurate nell'ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave, di cui all'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertato ai sensi dell'articolo 4 della stessa legge, nonché a soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali, le disposizioni del presente decreto si applicano nei limiti stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri per la solidarietà sociale e della sanità. Il suddetto decreto è adottato, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, al fine di favorire la permanenza dell'assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione, e sulla base delle indicazioni contenute nell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'articolo 3-septies, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni”. 
La norma presenta un ambito di riferimento ben delimitato, in quanto: 1) riguarda solo persone con handicap permanente grave, accertato ai sensi degli artt. 3, comma 3, e 4 della legge 1992, n. 104, nonché i soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle A.S.L.; 2) si riferisce solo alle prestazioni inserite in percorsi integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale, di tipo diurno oppure continuativo.
In relazione a tali situazioni la disposizione prevede che debba essere evidenziata la situazione economica del solo assistito, anche per ciò che attiene alle modalità di contribuzione al costo della prestazione. 
Vale ricordare che in quest’ultimo ambito la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è avvenuta con il D.P.C.M. 29 novembre 2001 - adottato sulla base dell'art. 6 del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 recante interventi urgenti in materia di spesa sanitaria, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405 - che elenca una serie di prestazioni che devono essere assicurate sull’intero territorio nazionale.
Tra queste (cfr. tabella 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001, che esplicitamente riguarda le tipologie erogative di carattere socio sanitario, nonché quelle sanitarie di rilevanza sociale, ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili) vengono comprese le attività di assistenza territoriale a favore di persone anziane e persone diversamente abili, attività che comprendono, a seconda dei casi, prestazioni diagnostiche, terapeutiche e socio-riabilitative in regime domiciliare, semiresidenziale e residenziale (cfr. sulla funzione del D.P.C.M. rispetto alla definizione dei livelli essenziali di assistenza ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. m), Cost., si consideri Corte costituzionale, 27 marzo 2003, n. 88)
D’altro canto, come già ricordato, la norma in esame specifica che, nei confronti delle categorie di persone considerate, le disposizioni del decreto legislativo n. 109 si applicano nei limiti stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottare previa intesa con la Conferenza unificata, con la specificazione della duplice finalità da perseguire consistente sia nel favorire la permanenza dell'assistito presso il nucleo familiare di appartenenza, sia di evidenziare la situazione economica del solo assistito.
Il riferimento all’emanazione di un apposito D.P.C.M., per stabilire i limiti di applicazione del decreto nei confronti di disabili gravi e anziani non autosufficienti, pone il problema della immediata applicabilità della norma nella parte in cui prevede che, in tali casi, si debba evidenziare la situazione economica del solo assistito e non più del suo nucleo familiare, secondo l’ordinario parametro I.S.E.E..
Sul punto si sono sviluppati tre orientamenti interpretativi.
Il primo orientamento esclude l’immediata applicabilità del principio, in quanto a) è la stessa disposizione che subordina l’applicazione ad un apposito D.P.C.M., sicché il comma 2 ter integra una norma di mero indirizzo; b) il riferimento della norma alla situazione economica del solo assistito si accompagna al contestuale richiamo alla necessità di favorire la permanenza dell’assistito medesimo presso il nucleo familiare di origine, di modo che la realizzazione del primo risultato non può prescindere da quella del secondo; c) il comma 2 ter richiede che il D.P.C.M. sia adottato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni unificata con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, ex art. 8 D.Lgs. n. 281/97 e ciò conferma l’efficacia non immediatamente precettiva della disposizione, in linea sia con le prerogative costituzionalmente riconosciute a Regioni ed autonomie locali in una materia che ne vede coinvolti gli interessi, sia con il principio della leale collaborazione che informa i rapporti tra i diversi livelli di Governo dopo la riforma del Titolo V Cost. (cfr. Tar Toscana, sez. II, 25 agosto 2009, n. 1409; C.d.S., sez. III, parere del 24 marzo 2009, n. 569/2009).
Il secondo orientamento ritiene, invece, che la norma in esame introduca un principio giuridico sufficientemente preciso, tale da vincolare l’amministrazione anche in assenza del decreto di attuazione del Presidente del Consiglio. 
In particolare si considera che “nelle situazioni di maggiore difficoltà come quelle che investono i soggetti diversamente abili le regole ordinarie dell'I.S.E.E. incontrano una deroga necessaria, dovendo obbedire alla prioritaria esigenza di facilitare il protrarsi della loro permanenza nel nucleo familiare ospitante: tale obiettivo è perseguito attraverso l'evidenziazione della situazione economica del solo assistito, anche in relazione al concorso alle spese dovute per i servizi fruiti”. 
Nondimeno, secondo questa impostazione la regola della evidenziazione della situazione economica del solo assistito non va intesa in senso assoluto ed incondizionato, ma lascia alle amministrazioni locali la facoltà di “ricercare soluzioni concrete in sede di individuazione dei criteri di compartecipazione ai costi dei Centri frequentati”. 
In particolare si ritiene che "il dato letterale di riferimento sembra fornire indicazioni in tal senso quando afferma che l'applicazione dei principi sull'I.S.E.E. è limitata ad ipotesi circoscritte, individuate con il decreto che deve (o avrebbe dovuto) riconoscere un rilievo predominante alla situazione economica del solo assistito nell'ottica di facilitare la sua convivenza con il nucleo familiare. Al riguardo non sembra condivisibile una lettura della seconda parte del comma 2-ter tesa a riconoscere un principio assoluto ed incondizionato, mentre al D.P.C.M. sarebbe demandata la funzione, esclusiva ed eventuale, di limitarne la portata. Da una lettura complessiva emerge viceversa che la disposizione affida all'autorità statale, in via contestuale, sia il compito di raggiungere il delineato obiettivo a favore dei soggetti tutelati sia la determinazione dei limiti residuali entro i quali l'I.S.E.E. familiare può comunque trovare applicazione: spetta in altre parole al Presidente del Consiglio dare attuazione al principio e delimitarne la portata, individuando le ipotesi marginali nelle quali può riespandersi la disciplina generale dell'I.S.E.E. familiare. In assenza del suddetto decreto, pare evidente che la proposizione normativa - come già detto immediatamente precettiva - debba essere nella sua globalità tradotta in scelte concrete dalle amministrazioni titolari delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali sul territorio” (cfr. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 02 aprile 2008, n. 350; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 13 luglio 2009, n. 1470; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 14 gennaio 2010, n. 18).
Viceversa il terzo orientamento considera che la regola della evidenziazione della situazione economica del solo assistito, rispetto alle persone con handicap permanente grave e ai soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali, integra un criterio immediatamente applicabile ai fini della fruizione di prestazioni afferenti a percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale a ciclo diurno o continuativo, senza lasciare spazio normativo alle amministrazioni locali (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. III, ordinanza 08 maggio 2009 n. 581; Tar Lombardia Milano, sez. III, ordinanza 08 maggio 2009 n. 582; Tar Lombardia Milano, sez. IV, 10 settembre 2008 n. 4033; T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 24 ottobre 2009, n. 1562; Tar Marche Ancona, sez. I, ordinanza 27 settembre 2007 n. 521; Tar Sicilia Catania, 11 gennaio 2007 n. 42). 
Il Tribunale ritiene di dover confermare la propria adesione a quest’ultimo orientamento interpretativo.
Si è già osservato (retro punto 4.1 della motivazione) che la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è rimessa, anche nella materia de qua, al legislatore statale e che la definizione dei criteri per l’accesso alle prestazioni di cui si tratta integra un livello essenziale, la cui definizione spetta al legislatore statale, in quanto se determinate attività e determinati servizi devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale è necessario che anche i parametri di accesso ai medesimi siano uniformi. 
Ne deriva che rispetto alle prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale a ciclo diurno o continuativo rivolte ad handicappati gravi e anziani non autosufficienti, che integrino livelli essenziali di assistenza - c.d. L.E.A. - secondo quanto definito dal D.P.C.M. 29.11.2001, il criterio di accesso e di parametrazione dei costi a carico del richiedente è rimesso alla definizione del legislatore statale.
In tale ambito non vi è spazio per un’integrazione lasciata alle singole amministrazioni comunali, che non possono modificare o integrare, in mancanza di norme ad hoc, il criterio dettato in modo necessariamente uniforme dal legislatore statale.
Invero, va ribadito che in relazione alle materie di legislazione statale esclusiva, come la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, anche il potere regolamentare spetta allo Stato, ex art. 117, comma 6, Cost., salva la possibilità di delegarlo alle Regioni, delega che non sussiste nella materia in esame.
Proprio l’attribuzione allo Stato del potere regolamentare esclude la configurabilità di un potere normativo di secondo grado in capo agli Enti locali, in ordine alla definizione del criterio di valutazione della situazione economica da applicare nei confronti di disabili gravi e anziani non autosufficienti, ai fini dell’erogazione di prestazioni sociali agevolate.
Del resto, si è già evidenziato che l’art. 3 del d.l.vo 1998 n. 109, nella parte in cui riserva uno spazio di disciplina agli enti locali in sede di definizione dei parametri per l’accesso ai servizi, stabilendo che essi possono prevedere accanto all'indicatore della situazione economica equivalente “criteri ulteriori di selezione dei beneficiari” va inteso nel senso che consente di attribuire rilevanza a fattori diversi da quelli reddituali o patrimoniali, per i quali il limite della rilevanza è stato definito dal legislatore statale in sede di determinazione, in generale, del parametro I.S.E.E. e, rispetto a anziani non autosufficienti ed handicappati gravi, mediante la valorizzazione della situazione economica del solo assistito (cfr. in argomento Tar Lombardia Milano, sez. I, 07 febbraio 2008 n. 303; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 02 aprile 2008 , n. 350; Tar Umbria, 06 febbraio 2002, n. 271).
Quanto alla diretta applicabilità della regola dell’evidenziazione del situazione economica del solo assistito, va osservato, in primo luogo, che, trattandosi di un livello essenziale di prestazione, la definizione di tale criterio è necessariamente riservata al legislatore statale, in base al vigente art. 117 Cost..
Parimenti spetta al legislatore statale stabilire entro quali limiti tale criterio vada applicato, nel senso che esigenze e situazioni ulteriori possono rendere opportuno il ripristino del criterio dell’I.S.E.E. familiare, come criterio generale di accesso alle prestazioni di cui al decreto legislativo 1998 n. 109; criterio che, come tale, integra già un livello essenziale di prestazioni, secondo quanto già evidenziato (retro punto 4.1 della motivazione).
Tale considerazione consente di definire la portata dell’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109, nella parte in cui rimette ad un apposito D.P.C.M. la determinazione dei limiti di applicabilità del d.l.vo nei confronti delle categorie in esame “al fine di favorire la permanenza dell'assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione”. 
La disposizione rimette ad un apposito D.P.C.M. la possibilità di valorizzare peculiari situazioni sociali, ambientali o familiari, tali da giustificare limiti all’applicabilità delle norme del decreto legislativo ed in particolare al criterio della situazione economica del solo assistito, qualora ciò sia funzionale a favorire la permanenza dell’utente presso il nucleo familiare di appartenenza.
In particolare, spetta al D.P.C.M. stabilire quali siano le fattispecie particolari nelle quali la permanenza presso il nucleo familiare di persone handicappate gravi o di anziani non autosufficienti è favorita mediante l’applicazione del criterio I.S.E.E. in luogo del criterio fondato sulla situazione economica del solo assistito (in senso conforme, in relazione al ruolo del D.P.C.M. si vedano: T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 13 luglio 2009, n. 1470; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 14 gennaio 2010 n. 18) 
Tale profilo, coinvolgendo ampie valutazioni incide direttamente sulle modalità di erogazione dei servizi sociali - materia di competenza regionale esclusiva - e questo spiega perché la norma prescriva il necessario coinvolgimento delle amministrazioni regionali, attraverso lo strumento dell’intesa in sede di conferenza unificata, in applicazione del principio di leale collaborazione (in ordine al quale si vedano, tra le altre, Corte Cost., 8 giugno 2005, n. 222 e Corte Cost., 1 ottobre 2003, n. 303).
Tuttavia, queste ulteriori specificazioni non incidono sul contenuto del criterio, di tipo individualistico, prescelto dal legislatore statale nei confronti delle categorie di persone di cui si tratta; criterio che è già sufficientemente precisato dal legislatore e risulta, nella sua oggettività, immediatamente applicabile.
In altre parole, il D.P.C.M. non è destinato ad incidere sulla struttura del criterio prescelto dal legislatore, ma solo a limitarne in determinati casi l’applicazione in favore del criterio generale dell’I.S.E.E. e la configurabilità di eccezioni alla regola generale per la fruizione dei servizi, sulla base di ulteriori valutazioni, non osta all’immediata applicabilità della regola stessa.
Va ribadito che la possibilità di individuare eccezioni al parametro della situazione economica del solo assistito non lascia spazio ad un potere regolamentare degli enti locali, in quanto, come già evidenziato, la definizione del criterio di capacità economica da utilizzare ai fini dell’erogazione di prestazioni sociali agevolate attiene ai livelli essenziali di prestazioni, la cui determinazione è riservata al legislatore statale, senza spazi per un potere normativo degli enti locali.
Pertanto, non è condivisibile la tesi secondo la quale, in assenza del suddetto decreto, la norma in esame consentirebbe l’effettuazione di scelte concrete da parte delle amministrazioni titolari delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali sul territorio, in quanto implica l’attribuzione ai Comuni di un potere regolamentare in assenza di una specifica norma di legge e, comunque, al di fuori del riparto costituzionale del potere normativo di secondo grado, stabilito dall’art. 117, comma 6, Cost..
Con particolare riferimento alla posizione delle persone colpite da disabilità va osservato che non solo il quadro costituzionale, ma anche l’interpretazione sistematica con le norme di derivazione internazionale conduce a ritenere immediatamente applicabile il criterio di cui si tratta, che sottende la valorizzazione del disabile come persona autonoma e non solo come componente di un particolare nucleo familiare.
In tal senso, occorre fare riferimento alla legge 3 marzo 2009 n. 18 che ha ratificato la Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui “diritti delle persone con disabilità”.
La giurisprudenza ha già sottolineato che la Convenzione si basa sulla valorizzazione della dignità intrinseca, dell’autonomia individuale e dell’indipendenza della persona disabile (cfr. tra le altre T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 13 luglio 2009, n. 1470). 
Sul punto è sufficiente ricordare che l’art. 3 della Convenzione, dopo avere considerato nel preambolo, tra l’altro, che “la maggior parte delle persone con disabilità vive in condizioni di povertà”, con conseguente “necessità di affrontare l’impatto negativo della povertà sulle persone con disabilità”, individua come principi generali “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone” con disabilità.
In tale contesto è significativo che, in relazione al diritto alla salute delle persone disabili, l’art. 25 stabilisca che “Gli Stati Parti adottano tutte le misure adeguate a garantire loro l’accesso a servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione. In particolare, gli Stati Parti devono: (a) fornire alle persone con disabilità servizi sanitari gratuiti o a costi accessibili, che coprano la stessa varietà e che siano della stessa qualità dei servizi e programmi sanitari forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nella sfera della salute sessuale e riproduttiva e i programmi di salute pubblica destinati alla popolazione”
Quindi la Convenzione impone di tutelare i diritti del soggetto disabile, anche in ambito sanitario, valorizzando la sua dignità intrinseca, la sua autonomia individuale ed indipendenza, anche quando egli individualmente considerato versa in precarie condizioni economiche.
Insomma, la disciplina internazionale impone agli Stati aderenti un dovere di solidarietà nei confronti dei disabili, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della dignità della persona, che nel settore specifico rendono doveroso valorizzare il disabile di per sé, come soggetto autonomo, a prescindere dal contesto familiare in cui è collocato, anche se ciò può comportare un aggravio economico per gli enti pubblici. 
I principi della Convenzione supportano, in relazione alla posizione delle persone disabili, la tesi dell’immediata applicabilità del comma 2 ter dell’art. 3 del d.l.vo 1998 n. 109 nella parte in cui introduce il criterio fondato sulla situazione economica del solo assistito, trattandosi di un parametro che riflette proprio l’esigenza di considerare in modo autonomo ed individuale i soggetti disabili ai fini dell’erogazione di prestazioni sociali agevolate.
Va, pertanto, ribadito che il criterio in questione è immediatamente applicabile, mentre gli Enti locali non dispongono di poteri normativi di secondo grado che consentano di modificare, integrare o derogare al criterio stesso.
6.2) Quanto evidenziato in ordine alla coerenza con il quadro costituzionale del principio della necessaria evidenziazione della situazione economica del solo assistito, in relazione alla posizione dei disabili gravi e degli anziani non autosufficienti, rende manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’amministrazione - in termini estremamente generici (cfr. pag 25 della memoria) - in ordine al contrasto tra l’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109, se ritenuto immediatamente applicabile, con il principio di uguaglianza posto dalla Costituzione.
Sul punto è sufficiente ricordare che il parametro della evidenziazione della situazione economica del solo assistito, oltre ad integrare di per sé un livello essenziale di prestazione rimesso alla legislazione esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117 Cost., è coerente con l’esigenza di rimuovere la particolare posizione di svantaggio in cui versano i soggetti suindicati, in linea con il principio di uguaglianza sostanziale tutelata a livello Costituzionale e con i valori della solidarietà e della necessaria protezione della persona umana in quanto tale parimenti garantiti dalla legge fondamentale. 
6.3) Le considerazione sinora svolte conducono a ritenere fondate le censure in esame, in quanto il regolamento comunale non applica il principio della evidenziazione della situazione economica del solo assistito nel definire le condizioni per l’accesso ai servizi da parte delle persone con disabilità grave o degli anziani non autosufficienti.
Sul punto è sufficiente ricordare che la parte prima dell’allegato 8 del regolamento, dedicata ai principi, agli obiettivi e ai criteri generali per l’accesso ai servizi, non distingue la posizione dei disabili gravi e degli anziani non autosufficienti da quella degli altri utenti, prevedendo all’art. 13 che la capacità economica va riferita al nucleo familiare complessivo.
Tale scelta normativa, contrastante con i criteri legali posti dal d.l.vo 1998 n. 109, si estende a tutta la disciplina dettata dal provvedimento impugnato. 
Così, la parte seconda lettera C dell’allegato 8 del regolamento disciplina la contribuzione comunale per il servizio di Centro Diurno Integrato - servizio semiresidenziale come tale contemplato dall’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109 e dal D.P.C.M. 29 novembre 2001- riferendosi ai fini della determinazione della quota di costo a carico dell’utente (cfr. in particolare l’art. 3) all’I.S.E.E. familiare, senza alcuna distinzione che consenta di valorizzare la situazione economica del solo assistito per quanto riguarda disabili gravi e anziani non autosufficienti.
Allo stesso modo la parte seconda lettera D) dell’allegato 8 del regolamento, relativa agli interventi economici a sostegno della residenzialità di anziani e disabili, prevede espressamente all’art. 6 che qualora l’utente sia persona con familiari conviventi si deve procedere al calcolo dell’I.S.E.E. familiare; del resto, anche l’art. 5 subordina la contribuzione comunale a copertura della retta per l’inserimento in una struttura residenziale alla circostanza che la capacità economica della persona e dei suoi familiari non basti per fare fronte all’ammontare della retta.
E’ evidente che queste disposizioni contrastano con il criterio legale della valorizzazione della capacità economica del solo assistito. 
Parimenti, la parte terza lettera A) dell’allegato 8 - dedicato al servizio di assistenza domiciliare anziani, che è compreso tra quelli cui fanno riferimento l’art. 3, comma 2 ter, del d.l.vo 1998 n. 109 e il D.P.C.M. 29 novembre 2001 - richiama il parametro I.S.E.E. (cfr. in particolare artt. 6 e 7) al fine di disciplinare la partecipazione degli utenti al costo del servizio, senza valorizzare per gli anziani non autosufficienti la situazione economica del solo assistito.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza della censura in esame, in quanto il regolamento contrasta con l’art. 3 comma 2 ter del d.l.vo 1998 n. 109 nella parte in cui omette di valorizzare la condizione economica del solo assistito, qualora si tratti di persone con handicap grave o anziani non autosufficienti, ai fini della erogazione di prestazioni sociali agevolate. 
Del resto, la fondatezza della censura esaminata consente di ritenere assorbita l’ulteriore doglianza formulata con l’ultimo dei motivi proposti nella parte in cui si lamenta la violazione del d.l.vo 2003 n. 196, in quanto il mancato rispetto del principio della evidenziazione della situazione economica del solo assistito si porrebbe in contrasto con l’esigenza di tutela della riservatezza posta dal decreto n. 196.
Invero, una volta riconosciuto che l’amministrazione deve valorizzare la condizione economica del solo assistito, resta esclusa l’utilizzabilità di ulteriori criteri in relazione ai quali potrebbe porsi il problema del contrasto con le esigenze di riservatezza dell’acquisizione di informazioni relative a soggetti terzi.
7) Con i due successivi motivi di impugnazione - che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico giuridico - le ricorrenti lamentano l’illegittimità dell’allegato 7 del regolamento nella parte in cui, in relazione alla disciplina tariffaria del servizio di trasporto, esclude da benefici tariffari le persone che percepiscono indennità di accompagnamento, rilevando l’irragionevolezza della norma in quanto tale indennità non rappresenta un indice di capacità economica.
L’amministrazione comunale eccepisce l’infondatezza della censura, rilevando che la valorizzazione dell’indennità di accompagnamento non esclude l’applicazione di una tariffa agevolata, ma incide solo sulla possibilità di ottenere ulteriori riduzioni tariffarie.
La censura è fondata.
L’allegato 7 lett. B) del regolamento impugnato disciplina il servizio di trasporto per le persone disabili per le scuole non dell’obbligo, prevedendo la realizzazione di un servizio di trasporto sul territorio comunale, ovvero l’erogazione di un contributo per sostenerne le spese nel caso in cui le sedi da raggiungere siano situate fuori dal territorio comunale.
In tale contesto si prevede, in generale, l’applicazione di un tariffa unica mensile, nonché di una tariffa ridotta, pari al 50% della tariffa unica mensile, in presenza di determinati livelli di I.S.E.E. familiare e, infine, l’applicazione di una tariffa minima, pari al 30% della tariffa unica mensile, in presenza di livelli ulteriormente ridotti di I.S.E.E. familiare.
La norma specifica, però, che “l’accesso ai benefici della riduzione tariffaria e dell’erogazione del contributo sarà concesso esclusivamente agli utenti diversamente abili che non percepiscono l’indennità di accompagnamento”.
La successiva lettera C) dell’allegato 7 del regolamento impugnato disciplina le tariffe per il servizio di trasporto presso i Centri Diurni Disabili (C.D.D.), fissando, anche in tale caso, una tariffa unica mensile, una tariffa ridotta pari al 50 % della tariffa unica e una tariffa minima pari al 30 % della tariffa unica mensile, in dipendenza dei valori di I.S.E.E. familiare riferibili al nucleo cui appartiene il disabile.
La norma precisa che “gli utenti diversamente abili, che usufruiscono del servizio di trasporto collettivo presso i Centri Diurni Disabili, qualora percepiscano l’indennità di accompagnamento, dovranno sempre ed in ogni caso pagare la Tariffa Unica mensile”.
Dalle semplice lettura delle due disposizioni censurate emerge che esse considerano la percezione dell’indennità di accompagnamento come un indice di capacità economica, in grado di incidere sulla misura della tariffa da corrispondere in termini di esclusione dalla possibilità di ottenere benefici tariffari. 
Occorre allora verificare se la scelta compiuta dall’amministrazione sia coerente con il quadro normativo di riferimento ed, in particolare, se sia ragionevole considerare l’indennità di accompagnamento come un indice di capacità economica.
L’indennità di accompagnamento è prevista dall’art. 1 della legge 1980 n. 18 e spetta ai cittadini nei cui confronti “sia stata accertata una inabilità totale e che, in aggiunta, si trovino nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua” (cfr. tra le tante Cass. Civ., sez. lav., 22 ottobre 2008, n. 25569 e giurisprudenza ivi richiamata).
Essa si sostanzia in una prestazione di natura assistenziale che viene concessa solo nei casi tassativamente indicati, senza alcuna possibilità di interpretazione estensiva (cfr. Cass., sez. lav., 23 gennaio 2003, n. 1003)
Sul piano fiscale, poi, l’indennità di accompagnamento rientra tra i redditi esenti ai fini IRPEF, in quanto l’art. 34, comma 3, del d.p.r. 1973 n. 601 prevede espressamente che “i sussidi corrisposti dallo Stato e da altri enti pubblici a titolo assistenziale sono esenti dall'imposta sul reddito delle persone fisiche …”.
La giustificazione della scelta di escludere l’indennità di cui si tratta dai redditi soggetti ad IRPEF va ritrovata nella funzione di tale indennità che è quella “di ausiliare l'invalido per consentire al medesimo di potersi muovere nell'ambito sociale senza intervento di istituti pubblici”.
Insomma la circostanza che tale entrata, pur qualificata formalmente come reddito a fini tributari, sia esentata dall'imposizione “è illuminante circa la volontà del legislatore di consentire a chi la riceve di destinarla, senza decurtazioni di sorta, alle finalità volute dalla norma” (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3861). 
Ecco allora che merita condivisione l’orientamento secondo il quale la misura in esame, avente natura assistenziale ed indennitaria non esprime una particolare capacità economica del percettore, specie considerando che si tratta di importi di valore complessivamente modesto in rapporto agli sforzi indispensabili per sopperire alle condizioni psico-fisiche precarie del soggetto interessato, che richiedono cure e interventi specifici (cfr. in argomento T.A.R. Umbria, 6 febbraio 2002, n. 271; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 02 aprile 2008, n. 350).
In definitiva, la misura, proprio per la sua natura indennitaria, per la funzione che è diretta a svolgere, per il modesto importo in cui si sostanzia e per la sua qualificazione come reddito esente ai fini fiscali, non si presta ad essere utilizzata ragionevolmente come indice di capacità economica, atteso che in concreto non si risolve in un incremento di ricchezza per il beneficiario, ma si limita a sopperire parzialmente agli oneri cui un soggetto è sottoposto a causa delle precarie condizioni psicofisiche in cui versa ed, in particolare, alle spese che inevitabilmente incontra a causa di siffatte condizioni.
Simili considerazioni hanno portata generale, ma trovano conferma in relazione al particolare settore dell’accesso alle prestazioni comprese nel sistema integrato di interventi e servizi sociali, di cui alla legge 2000 n. 328, nella disciplina posta dal d.l. vo 1998 n. 109, cui fa rinvio l’art. 25 della legge 2000 n. 328, ai fini della verifica della condizione economica dei soggetti che chiedono l'erogazione di servizi sociali.
Invero, il d.l.vo 1998 n. 109 allo scopo di individuare gli elementi reddituali da comprendere nel calcolo dell’indicatore della situazione economica equivalente valorizza - tabella 1 allegata al decreto - “a) il reddito complessivo ai fini IRPEF quale risulta dall'ultima dichiarazione presentata o, in mancanza di obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, dall'ultimo certificato sostitutivo rilasciato dai datori di lavoro o da enti previdenziali …; b) il reddito delle attività finanziarie, determinato applicando il rendimento medio annuo dei titoli decennali del Tesoro al patrimonio mobiliare definito secondo i criteri di seguito elencati”. 
Pertanto siccome ai sensi del già citato art. 34, comma 3, del D.P.R. 1973 n. 601 i sussidi corrisposti dallo Stato o da altri Enti pubblici a titolo assistenziale sono esenti da IRPEF, è evidente che tali provvidenze costituiscono entrate non computabili nella determinazione dell’I.S.E.E..
Ne deriva che, ai fini dell’erogazione degli specifici servizi cui si riferisce la legge 2000 n. 328, il dato normativo rilevante esclude la possibilità di valorizzare l’indennità di accompagnamento come indice di capacità economica.
Le considerazioni ora svolte trovano ulteriore conferma sul piano sistematico.
Difatti, la giurisprudenza ha chiarito che “in tema di patrocinio a spese dello Stato, non va computata, al fine della determinazione del reddito rilevante per l'ammissione al beneficio, l'indennità di accompagnamento istituita dall'art. 1 della legge 11 febbraio 1980 n. 18, non costituendo quest'ultima un reddito” (cfr. Cass. Pen, sez. I, 10 maggio 2002, n. 17865). 
Similmente, la giurisprudenza contabile ha precisato che l'indennità di accompagnamento, essendo compresa tra i redditi esenti da IRPEF deve essere esclusa dal calcolo del reddito valutabile ai fini dell'accertamento del possesso del requisito della nullatenenza per l'attribuzione della pensione di riversibilità (cfr. Corte Conti, sez. III, 31 marzo 1994, n. 71141).
Emerge così la fondatezza delle censure proposte, in quanto le norme regolamentari cui si riferiscono le doglianze in esame limitano la possibilità di ottenere benefici tariffari, in ordine agli specifici servizi del trasporto di persone disabili ai fini della frequenza di scuole non dell’obbligo e del trasporto delle persone disabili presso i Centri Diurni Disabili, qualora l’utente percepisca l’indennità di accompagnamento.
Tuttavia, l’indennità di accompagnamento, secondo quanto già precisato, non integra una misura espressiva di ricchezza o comunque di capacità economica, sicché non è ragionevole utilizzarla come parametro in base al quale condizionare l’accesso ai benefici tariffari previsti in sede di erogazione di servizi sociali.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza del motivo in esame.
8) In definitiva il ricorso è parzialmente fondato nei limiti dianzi esposti e merita accoglimento secondo quanto esposto in motivazione.
La particolare complessità, sul piano fattuale e giuridico, della controversia in esame consente di ravvisare giusti motivi per compensare tra le parti le spese della lite. 
Resta fermo l’onere di cui all’art. 13 del d.p.r. 30.05.2002 n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del d.l. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, a carico della parte soccombente.
P.Q.M.
Il T.A.R. Lombardia Milano, terza sezione, definitivamente pronunciando:
1) Dispone l’estromissione dal giudizio dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali;
2) Dichiara parzialmente inammissibile il ricorso in relazione alla posizione della ricorrente Ciriello Lidia;
3) Accoglie il ricorso e per l’effetto annulla, nei limiti di quanto esposto in motivazione, le impugnate disposizioni del regolamento del Comune di Cinisello Balsamo approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 38 del 15 aprile 2009;
4) Compensa integralmente tra le parti le spese della lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 21/01/2010 con l'intervento dei Magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Raffaello Gisondi, Referendario
Fabrizio Fornataro, Referendario, Estensore
   
   
L'ESTENSORE  IL PRESIDENTE
   
   
   
   
   
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/05/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO
 
 

 

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