Temi concorsi - Uditore giudiziario militare

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Associazione di giuristi

A c c a d e m i a  di  S t u d i  G i u r i d i c i

 

DISPENSE

DIRITTO AMMINISTRATIVO

Ugo Di Benedetto

 

Aggiornamenti 2007

Uso riservato interno

 

in house providing e società miste

 

1. Dottrina:  Ugo Di Benedetto,  Diritto amministrativo – giurisprudenza e casi pratici,  2007, ed Maggioli

 

D. L. 4 lglio 2006 conv. in legge 4 agosto 2006, n. 248 divieto delle società miste  o con capitale interamente pubblico di costituite per la produzione di beni e servizi  nell’interesse degli enti di svolgere attività extraterritoriale (esclusi servizi pubblici locali).

 

 

Cons. Stato, sez. VI, 1 giugno 2007, n. 2932 in house providing e controllo analogo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N. 2932/07

Reg.Dec.

N. 5644 Reg.Ric.

ANNO  2002

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 5644/2002, proposto dal Comune di Monte Argentario, nella persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Porf. Andrea Guarino, Prof. Giuseppe Stancanelli ed Umberto Gulina, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in Roma, Piazza Borghese, n. 3;

contro

il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro in carica, e la Capitaneria di Porto di Livorno, in persona del Comandante in carica, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, sono per legge domiciliati;

e

il Genio Civile Opere Marittime di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito;

e

la Regione Toscana, in persona del Presidente dalla Giunta Regionale, non costituitasi nel giudizio di appello;

 

e

la S.p.A. Porto Turistico Domiziano, in persona del legale rappresentate in carica, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giancarlo Baschieri Salvadori, Prof. Giuseppe Morbidelli ed Umberto Righi, ed elettivamente domiciliata presso lo studio degli ultimi due in Roma, Via G. Carducci, 4;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo per la Toscana, sez. I, n. 710 del 9 aprile 2002, resa inter partes

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Avvocatura dello Stato e della Società Porto Turistico Domiziano s.p.a.;

Visto il ricorso incidentale proposto dalla Società Porto Turistico Domiziano s.p.a.;

Viste le memorie presentate dalle parti a sostegno delle loro rispettive ragioni; 

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla udienza pubblica del 3 aprile 2007 il Consigliere Roberto Giovagnoli, ed uditi altresì l’avv. Martelli per delega dell’avv. Guarino, l’avv. dello Stato Quattrone e l’avv. Manzi per delega dell’avv. Righi;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

F A T T O  E  D I R I T T O

1. Con sentenza n. 710/2002, il T.A.R. per la Toscana, Sezione Prima, previa riunione di 7 ricorsi (n.  2210, 3560 e 4469 del 1995, n. 2750 e 4115 del 1996, n. 807 e n. 1074 del 2001), ha respinto i primi due - proposti dal Comune di Monte Argentario - dichiarando inammissibili i ricorsi incidentali della parte controinteressata; ha dichiarato inammissibile il terzo ed ha accolto gli ultimi quattro - proposti dalla società Porto Turistico Domiziano - disponendo infine la condanna alle spese a carico solidale del Comune di Monte Argentario e della Regione Toscana in favore della controinteressata società Porto Turistico Domiziano.

Gli atti oggetto delle originarie impugnazioni, poi riunite, erano i seguenti:

- ric. n. 2210/95 (proposto dal Comune di Monte Argentario) contro il decreto di comparazione del 20.04.95 del Capo del Compartimento Marittimo di Livorno recante l'assenso alla società Porto Turistico Domiziano di concessione demaniale marittima;

- ric. n. 3560/95 (proposto dal Comune di Monte Argentario) contro la licenza di occupazione dello specchio acqua per la realizzazione dell’approdo turistico, rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Livorno in favore della società Porto Turistico Domiziano in data 16.09.1995;

- ric. n. 4469/95 con il quale la società Porto Turistico Domiziano ha impugnato la deliberazione della Giunta Regionale Toscana n. 3854 del 24.07.95 di approvazione della variante parziale al P.R.G. di Monte Argentario;

- ric. n. 2750/96, con il quale la stessa società Porto Turistico Domiziano ha impugnato l'ordinanza del Sindaco di Monte Argentario di sospensione dei lavori di installazione dei pontili galleggianti;

- ric. n. 4115/96, con il quale la società Porto Turistico Domiziano ha impugnato il provvedimento n. 3154/96 con il quale il Sindaco del Comune di Monte Argentario ha negato il rilascio della concessione edilizia;

- ric. n. 807/01, con il quale la società Porto Turistico Domiziano ha impugnato il provvedimento dirigenziale n. 5852/01 del Dirigente del III Settore Edilizia Privata del Comune di Monte Argentario, con il quale è stata respinta la domanda di concessione edilizia in sanatoria;

- ric. n. 1074/01, con il quale la società Porto Turistico Domiziano ha impugnato il provvedimento dirigenziale n. 8583/01 del Dirigente del III Settore Edilizia Privata del Comune di Monte Argentario, con il quale è stata respinta l'istanza di concessione edilizia per l'ampliamento ei pontili galleggianti.

2. Contro la sentenza del T.a.r. Toscana ha proposto appello il Comune di Monte Argentario formulando i seguenti motivi di gravame:

a)                  Violazione dell’art. 37 del codice della navigazione. Eccesso di potere per omessa valutazione di circostanze rilevanti. Difetto di motivazione e di istruttoria. Errore nei presupposti.

b)                  Falsa applicazione della variante urbanistica approvata con delibera della Giunta Regionale n. 3854 del 24.7.1995.

c)                   Falsa applicazione della normativa urbanistica.

3. Si è costituita in giudizio la società Porto Turistico Domiziano s.p.a., che ha chiesto il rigetto dell’appello e ha riproposto, nelle forme dell’appello incidentale, i ricorsi incidentali già proposti in primo grado e dichiarati inammissibili dal T.a.r. a seguito del rigetto del ricorso principale.

Si è costituita, altresì, in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato, per il Ministero dei Trasporti e la Capitaneria di Porto di Livorno, insistendo per il rigetto dell’appello.

4. All’udienza del 3 aprile 2007, su richiesta delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione.

5. L’appello è infondato.

6. Con il primo motivo di gravame, il Comune di Monte Argentario sostiene l’illegittimità dell’assentimento e poi del rilascio alla società Porto Turistico Domiziano della concessione demaniale dello specchio acqueo ricompresso nel Porto di S. Stefano (tra il molo Garibaldi e il pontile del Valle).

6.1. Giova rilevare preliminarmente che la Capitaneria di Porto di Livorno, nell’effettuare la valutazione comparativa tra l’istanza di concessione demaniale presentata dal Comune di Monte Argentario e quella presentata dalla società Porto Turistico Domiziano, ha preferito quest’ultima sulla base di due elementi, i quali emergono chiaramente dalla lettura del provvedimento della Capitaneria di Porto del 20.4.1995.

L’Autorità portuale, in particolare, ha ritenuto:

- che la società di Porto Domiziano offrisse “maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione. Ciò in quanto il Comune si propone richiedente di concessione demaniale con il dichiarato intento di procedere a sub-concessione ad una società per azioni in cui lo stesso Ente pubblico dovrà sottoscrivere il 51% del capitale sociale […] dimostrando in tal modo di non avere sufficiente capacità economica sia per la realizzazione del progetto presentato che per la gestione […]”;

- “che la società Porto Domiziano si propone di collocare strutture precarie, similmente al Comune di Monte Argentario, ma con dichiarata provvisorietà, nelle more della predisposizione degli strumenti urbanistici finalizzati alla realizzazione dell’approdo turistico, sicché risultano di immediata collocazione. Mentre il Comune si propone di organizzare un approdo turistico la cui concreta realizzazione è gravata e vincolata dalla prodromica possibilità di realizzare e rispettare i parametri urbanistici connessi, sì da risultare subordinata alla realizzazione globale dell’approdo turistico, non soddisfacendo in tempi brevi e con caratteristiche di provvisorietà l’interesse pubblico attuale della razionalizzazione degli ormeggi in questione”.

6.2. Il Comune di Monte Argentario contesta tale provvedimento (impugnando la sentenza del T.a.r. che l’ha ritenuto legittimo), sostenendo che i due motivi  appena riassunti (su cui si è fondata la decisione della Capitaneria) non corrispondano alla realtà dei fatti.

In primo luogo, l’appellante sostiene che anche la proposta presentata dal Comune prevedeva un intervento immediato (l’unica differenza tra i due progetti sarebbe costituita dal fatto che, mentre la società Porto Domiziano dichiarava la provvisorietà delle strutture da collocare, il Comune aveva inquadrato le stesse in un’ampia prospettiva costituita dall’organizzazione di un vero e proprio approdo turistico, senza nulla togliere, però, alla immediatezza dell’intervento);

6.3. Secondo il Comune, inoltre, non corrisponderebbe al vero l’affermazione secondo cui la società Porto Domiziano offrisse maggiori garanzie di proficua utilizzazione del bene. Ciò perché, a differenza di quanto ritenuto nel provvedimento impugnato:

- il capitale della Porto Domiziano non era di 400 milioni di lire, ma solo di 63 milioni di vecchie lire (né può assumere rilievo, per rimediare a tale erronea rappresentazione della realtà, la circostanza, valorizzata invece dal T.a.r., che il capitale sociale poteva comunque essere aumentato);

- il rapporto esistente tra il Comune di Monte Argentario e la costituenda società cui affidare la gestione del porto non era (come erroneamente avrebbe ritenuto la Capitaneria) di subconcessione, ma, al contrario, tale rapporto avrebbe dovuto essere ricondotto all’allora vigente art. 22, lett. e) legge n. 142/1990, venendo in considerazione una società mista deputata alla gestione di un servizio pubblico locale. Tale società – sostiene ancora l’appellante nella memoria difensiva depositata il 23.3.2007 – non rappresenterebbe un soggetto terzo rispetto al Comune, ma “uno degli strumenti che la legge prevede per la gestione del servizio mediante un organismo di tipo pubblicistico”. Titolare della concessione rimarrebbe, però, sempre il Comune, il quale si sarebbe avvalso della società mista solo per gestire il servizio.

7. Il motivo è infondato.

Il Collegio ritiene, infatti, che le ragioni alla luce delle quali la Capitaneria di Porto ha accordato preferenza alla proposta presentata dalla Società Porto Domiziano, non solo sussistono realmente, ma sono anche illustrate nel provvedimento impugnato in maniera adeguata, coerente e razionale.

7.1. Per quanto riguarda le maggiori garanzie di proficua utilizzazione economica della concessione, la Capitaneria ha attribuito rilevanza decisiva alla circostanza che il Comune di Monte Argentario si proponeva di gestire il bene demaniale non direttamente, ma attraverso una costituenda società per azioni, partecipata dal Comune per una percentuale del capitale sociale non inferiore al 51%.

Alla luce di tale intenzione del Comune, la Capitaneria ha ritenuto che la società Porto Domiziano, che invece proponeva di gestire direttamente il bene demaniale, offrisse maggiori garanzie di proficua utilizzazione economica del bene medesimo.

Si tratta di una valutazione che si sottrae alle censure sollevate dall’appellante: il fatto che il Comune proponesse di gestire il bene demaniale non direttamente, ma attraverso una società mista non ancora costituita, è certamente un elemento in grado di condizionare in senso negativo la valutazione spettante alla P.A. circa la proficua utilizzazione economica del bene che deve essere affidato in concessione.

Ed invero – anche a prescindere dalle censure sollevate con l’appello incidentale dalla controinteressata Porto Turistico Domiziano (secondo la quale, l’istanza del Comune, per il solo fatto di prevedere la gestione da parte di un soggetto terzo, non avrebbe dovuto neanche essere ammessa a comparazione) – la circostanza che al momento della comparazione delle domande, la società mista (cioè il soggetto che in concreto avrebbe gestito il bene demaniale) non fosse ancora nemmeno costituita, era tale da stendere sul progetto del Comune un pesante velo di incertezza. 

Tale incertezza (si pensi che l’Amministrazione concedente non poteva neanche conoscere, al momento della valutazione comparativa, quali sarebbero stati i soci privati che il Comune avrebbe chiamato a partecipare alla gestione del servizio) già di per sé giustifica la scelta dell’Autorità portuale che ha ritenuto il progetto del Comune di Monte Argentario meno allettante, dal punto di vista della proficua utilizzazione economica ed aziendale del bene, rispetto a quello concorrente della società Porto Turistico Domiziano.

7.2. Né hanno pregio, sotto tale profilo, le considerazioni dell’appellante in merito alla pretesa identità tra il Comune e la costituenda società mista. Non vi è dubbio, infatti, che ai sensi dell’art. 22 legge n. 142/1990, ed oggi dell’art. 113 T.U.E.L., la società mista deputata a gestire i servizi pubblici locali è un soggetto formalmente e sostanzialmente distinto rispetto all’ente locale. Il rapporto è di terzietà non di immedesimazione.

Indicazioni univoche in tal senso derivano proprio dal diritto comunitario e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, deve ritenersi che un rapporto di immedesimazione tra l’ente e la società chiamata a gestire il servizio pubblico possa riscontrarsi solo laddove concorrano i seguenti due elementi: a) l’amministrazione deve esercitare sul soggetto affidatario un "controllo analogo" a quello esercitato sui propri servizi; b) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.

In ragione del "controllo analogo" e della "destinazione prevalente dell’attività", l’ente (c.d. in house) non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa (principi affermati dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98).

La Corte di Giustizia ha tuttavia escluso che possa sussistere il controllo analogo in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato (Corte di giustizia, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; 11 maggio 2006, C-340/04).

Secondo la Corte di Giustizia, inoltre, la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo.

I giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

- il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

- l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling; anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati);

- le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (in questo senso, anche Cons. Stato, V, 8 gennaio 2007 n. 5).

E’ evidente, allora, che, nel caso di specie, la società che il Comune di Monte Argentario si proponeva di costituire non poteva certo essere ricondotta a quel  fenomeno di immedesimazione che ricorre solo in presenza dei requisiti dell’in house: da un lato, infatti, lo statuto prevedeva una consistente apertura all’ingresso di soci privati (sino al 49% del capitale); dall’altro, non risultavano predisposti strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto commerciale.

Esclusi i presupposti dell’in house, e quindi, esclusa la sussistenza di un rapporto di immedesimazione tra l’ente e la società, diventava anche problematico giustificare, sempre alla luce dei principi di diritto comunitario, l’affidamento diretto (che il Comune intendeva porre in essere) della gestione del bene demaniale alla costituenda società mista.

Tutti questi elementi erano certamente tali da incidere negativamente, come la Capitaneria ha correttamente rilevato nel provvedimento impugnato, sul progetto presentato dal Comune, giustificando così la preferenza accordata al progetto concorrente, ritenuto in grado di offrire maggiori garanzie di proficua utilizzazione economica.

7.3. Né si può ritenere che tali considerazioni rappresentino una forma di integrazione giudiziale della motivazione contenuta nel provvedimento impugnato. Nel provvedimento, la Capitaneria afferma chiaramente che il progetto presentato dal Comune offre minori garanzie di proficua utilizzazione economia perché prevede l’affidamento ad un società mista partecipata solo per il 51% dal Comune.

Gli elementi motivazionali rilevanti solo dunque tutti contenuti nella motivazione dell’atto impugnato. L’individuazione delle ragioni giuridiche che rendono tale motivazione legittima appartengono, in base al principio iura novit curia, al Giudice amministrativo, senza che ciò rappresenti una integrazione della motivazione già compiutamente formulata dall’Amministrazione.

7.4. Non ha rilievo, infine, il fatto che il provvedimento faccia riferimento ad un capitale sociale dichiarato della società Porto Domiziano di 400 milioni di vecchie lire. Si tratta, infatti, di un dato non decisivo nell’economia complessiva della comparazione, in quanto tale dato, anche a ritenerlo non esatto, nulla toglie alla valutazione negativa espressa, in punto di garanzie di proficua utilizzazione economica, al progetto presentato dal Comune di Monte Argentario.

7.5. Parimenti infondate sono le censure rivolte all’altro profilo motivazionale su cui si fonda la preferenza accordata alla Porto Domiziano: la capacità del progetto presentato da quest’ultimo di soddisfare in tempi brevi e con caratteristiche di provvisorietà l’interesse pubblico attuale della razionalizzazione degli ormeggi in questione.

Premesso che si tratta un aspetto che attiene alla valutazione dell’interesse pubblico da soddisfare e, quindi, al merito dell’azione amministrativa, rispetto al quale il sindacato giurisdizionale può esercitarsi solo attraverso le c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere, va rilevato come, nel caso di specie, gli indici di sviamento denunciati dal Comune appellante non sussistono.

Emerge, infatti, dagli atti che il progetto della Porto Domiziano si presentava di realizzazione più pronta e più semplice (installazione di pontili galleggianti precari e rimovibili) di quello presentato dal Comune, il quale si proponeva la realizzazione di una struttura più complessa, implicante la necessità di lavori importanti nello specchio acqueo, con posa in opera di strutture che, da un lato, avrebbero richiesto tempi più lunghi di realizzazione e, dall’altro, avrebbero modificato sensibilmente lo stato dei luoghi.

Poiché l’Amministrazione ha ritenuto conforme all’interesse pubblico la realizzazione di interventi provvisori (tali da risolvere i problemi dell’ormeggio senza incidere sui successivi assetti) e di pronta realizzazione, si giustifica la preferenza accordata al progetto Porto Domiziano, ritenuto più adeguato rispetto alle esigenze di rapidità e provvisorietà.

Né rileva in senso contrario, quale indice di contraddizione e quindi di sviamento, il fatto che nel provvedimento si dà atto che anche il Comune si proponesse di realizzare strutture precarie. La Capitaneria spiega diffusamente, infatti, che l’intervento del Comune richieda tempi di realizzazione più lunghi e, soprattutto, sia volto ad una più profonda trasformazione dello stato dei luoghi.

Anche sotto questo profilo, quindi, il primo motivo di appello è infondato.

8. Con il secondo motivo di appello, il Comune di Monte Argentario lamenta la violazione della variante urbanistica al P.R.G. approvata con delibera della Regione Toscana n. 3854 del 24 luglio 1995.

Secondo l’appellante il ragionamento svolto sul punto dal T.a.r. Toscana (che ha ritenuto la variante al P.R.G. inapplicabile alla fattispecie in esame) sarebbe viziato perché non tiene conto del fatto che, in virtù del principio di leale collaborazione, il Piano Regolatore Portuale non può porsi in contrasto con il Piano Regolatore Generale e viceversa.

8.1. Anche tale motivo è infondato.

Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di rilevare (Consiglio Stato, sez. IV, 24 marzo 2006, n. 1538), le aree portuali sono assoggettate al regime demaniale ai sensi dell'art. 28, comma I, lettera a), del codice della Navigazione.

L'articolo 30 del codice della navigazione prevede che spetta alla amministrazione della Marina Mercantile regolare l'uso di tali beni con possibilità di delega della potestà ad altri enti, tra cui l'Autorità Portuale.

La legge n. 84/1994, come modificata dalla legge n. 647/1996, all'art. 5, comma 3, prevede che nei porti di cui al comma 1 nei quali è istituita l'Autorità Portuale, il Piano Regolatore è adottato dal Comitato Portuale previa intesa con il comune o i comuni interessati.

Ai sensi dell'art. 27 L. 84/1994 i piani regolatori portuali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge conservano efficacia fino al loro aggiornamento.

Essendo, lo strumento pianificatore dell'ambito portuale, il Piano Regolatore Portuale, da aggiornarsi ai sensi dell'art. 27 L. 84/1994, l'Autorità alla quale è attribuito il potere pianificatorio nell'area pertinente al Demanio Marittimo Portuale e alla quale è affidata la competenza dell'aggiornamento del Piano Regolatore Portuale è l'Autorità Portuale.

Pertanto, il piano portuale determina, nell'ambito portuale, l'assetto viario, la sistemazione degli edifici, la distribuzione degli impianti. Oggetto del piano non sono solo i beni demaniali, ma tutti i beni che insistono nell'area portuale, e che possono appartenere anche a privati (art. 5, comma 1).

Esso è di competenza della Autorità Portuale, salva l'intesa con il comune o i comuni interessati.

Il piano regolatore portuale si colloca nel novero dei piani speciali di competenza di quegli enti pubblici, diversi da Regione e Comune, ai quali leggi statali o regionali attribuiscono specifiche funzioni di pianificazione territoriale (art. 3, comma 2, L.R. 19/11/1991, n. 52).

Esso costituisce lo strumento pianificatorio nell'ambito portuale, avente natura esclusivamente tecnica e finalizzato allo svolgimento delle attività portuali.

Dal punto di vista urbanistico, la legge regionale della Toscana (l.r. 68/1997) prevede, all'articolo 9, che per i porti e approdi turistici il Comune predispone un piano regolatore, previa intesa con l’Autorità marittima.

La regola per definire i rapporti tra piano regolatore generale e piano portuale è, pertanto, quella della intesa.

Ciò significa che l'adozione e le modifiche sia dei piani comunali sia dei piani speciali - come quello portuale - non sono possibili senza una previa intesa con le altre autorità coinvolte, costituendo l'intesa lo strumento previsto dall'ordinamento in uno spirito di collaborazione tra enti pubblici, mirante a dirimere i contrasti e a trovare accordi.

Nella specie, il Comune, ha agito adottando lo strumento della variante, compiendo determinate scelte urbanistiche precise su una zona soggetta a piano speciale, senza alcuna previa intesa con l'autorità preposta.

Ne discende che, come ritenuto dal Giudice di primo grado, in assenza dell’intesa, la variante al P.R.G. approvata dalla Regione con delibera n. 3854/1995 non può essere applicata nell’area demaniale oggetto del presente giudizio, né interferire con la gestione della stessa. Ciò implica che la Capitaneria di Porto non era tenuta, nel rilascio della concessione demaniale alla società Porto Domiziano, alla osservanza della delibera regionale medesima.

9. Con il terzo motivo di appello si contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha accolto i ricorsi proposti dalla società Porto Domiziano avverso: la sospensione dei lavori di installazione dei pontili provvisori, il diniego di rilascio di concessione edilizia cautelativamente richiesta, il diniego di concessione edilizia in sanatoria cautelativamente richiesta, il diniego di nuova concessione edilizia per l’ampliamento dei pontili galleggianti nello stesso specchio d’acqua oggetto della concessione demaniale.

9.1. Anche tale motivo è infondato.

I provvedimenti impugnati si fondano, infatti, essenzialmente sul contrasto con la delibera regionale n. 3854/1995 che approva la variante al P.R.G. delle opere che la società Porto Turistico Domiziano deve realizzare in attuazione del progetto assentito.

Risulta, quindi, corretta la decisione del T.a.r. che, ritenuta la non applicabilità della delibera regionale all’area demaniale in oggetto, ha di conseguenza considerato carenti, sul piano motivazionale, i provvedimenti emanati dal Comune, e li ha quindi annullati.

9.2. L’ordine di sospensione dei lavori (dalla cui motivazione secondo l’appellante dovrebbe ricavarsi anche quella dei provvedimenti successivi stante l’unitarietà della vicenda che ha portato all’emanazione dei quattro provvedimenti impugnati) si fonda anche sulla considerazione che l’installazione dei pontili sarebbe di ostacolo nelle acque portuali per le imbarcazioni e arrecherebbe un turbamento dell’attuale assetto dei servizi a terra riguardanti la viabilità, i servizi igienici e sanitari, i parcheggi e l’approvvigionamento idrico dei natanti.

Come già rilevato dal Giudice di primo grado, anche il riferimento a tale circostanza è inidoneo a sorreggere il provvedimento impugnato: si tratta, infatti, di valutazioni che il Comune sovrappone a quella di pertinenza dell’Autorità statale e già svolte dalla medesima Autorità, con esito ben diverso, al momento del rilascio della concessione demaniale.

10. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello principale deve essere rigettato.

11. Il rigetto dell’appello principale rende inammissibile, per difetto di interesse, l’appello incidentale proposto dalla Porto Turistico Domiziano s.p.a.

12. Sussistono, data la complessità della vicenda, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio di appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello principale e dichiara inammissibile l’appello incidentale.

Spese del grado compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Claudio VARRONE                                            Presidente

Carmine VOLPE                                                  Consigliere

Luciano BARRA CARACCIOLO                    Consigliere

Lanfranco BALUCANI                                      Consigliere

Roberto GIOVAGNOLI                                      Consigliere Est.

Presidente

f.to  Claudio Varrone

Consigliere                                                                                        Segretario

f.to Roberto Giovagnoli                                                    f.to Glauco Simonini

 

 

 

 

 

CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE II - Parere 18 aprile 2007 n. 456
 

 

OGGETTO

MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE E FORESTALI - Quesito in merito alla possibilità che l’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura) possa affidare alla società SIN la gestione del SIAN (Sistema Informativo Agricolo Nazionale). Integrazione del parere n. 3162/06.

 

 

 

Vista la relazione del 2 febbraio 2007, con la quale il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo)    ha   chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto, anche al fine di un riesame di quanto affermato con il precedente parere n. 3162/06, reso da questa Sezione nell’adunanza del 13 dicembre 2006;

Esaminati gli atti ed udito il relatore-estensore, consigliere Luigi Carbone;

 

 

 

PREMESSO e CONSIDERATO:

 

1. La legge 4 giugno 1984, n. 194, autorizza il Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste ad impiantare un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale. In particolare, il primo comma dell’art. 15 dispone che: “Ai fini dell'esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi al settore agricolo nazionale, il ministro della agricoltura e delle foreste è autorizzato all'impianto di un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale, anche indiretta, per la realizzazione, messa in funzione ed eventuale gestione temporanea di tale sistema informativo in base ai criteri e secondo le direttive fissate dal ministro medesimo.”.

È stato a tal fine costituito il SIAN (Servizio Informativo Agricolo Nazionale).

Con il decreto legislativo n. 99 del 2004, i compiti di coordinamento e gestione del SIAN sono stati trasferiti all’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), la quale è subentrata in tutti i rapporti attivi e passivi e alla quale sono state trasferite le risorse finanziarie, umane e strumentali (art. 14, commi 9 e 10), fermi i poteri di indirizzo e monitoraggio del Ministero.

In particolare, il comma 9 dispone che: “Al fine di semplificare gli adempimenti amministrativi e contabili a carico delle imprese agricole, fatti salvi i compiti di indirizzo e monitoraggio del Ministero delle politiche agricole e forestali ai sensi dell'articolo 3, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2000, n. 450, sono trasferiti all'AGEA i compiti di coordinamento e di gestione per l'esercizio delle funzioni di cui all'articolo 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194.”. Ai sensi del successivo comma 10, “L'AGEA subentra, dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, in tutti i rapporti attivi e passivi relativi al SIAN di cui al comma 9. A tale fine sono trasferite all'AGEA le relative risorse finanziarie, umane e strumentali.”.

Il D.M. 26 ottobre 2005 ha, poi, stabilito le modalità di trasferimento della gestione del SIAN dal Ministero all’AGEA.

Successivamente, il decreto legge n. 182 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 231 del 2005, ha integrato l’art. 14 del decreto legislativo n. 99 del 2004, aggiungendovi il comma 10-bis, il quale prevede che “l’AGEA, nell’ambito delle ordinarie dotazioni di bilancio, costituisce una società a capitale misto pubblico-privato, con partecipazione pubblica maggioritaria nel limite massimo pari a 1,2 milioni di euro nell’ambito delle predette dotazioni di bilancio, alla quale affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN. La scelta del socio privato avviene mediante l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica ai sensi del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, e successive modificazioni. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato”.

Il Consiglio di Amministrazione dell’AGEA, con delibera 25 novembre 2005, n. 124, ha disposto la costituzione della Società SIN s.r.l., con determinazione degli elementi principali dello statuto societario. Il 29 novembre 2005, con atto notarile, è stata costituita la Società SIN s.r.l. con capitale sociale interamente sottoscritto dall’AGEA.

L’AGEA, quindi, ha provveduto alla individuazione del socio privato di minoranza della SIN s.r.l. tramite un’apposita gara, con bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea.

 

2. Con un primo quesito, il Ministero delle Politiche Agricole, quale autorità preposta alla vigilanza sull’AGEA e nell’esercizio dei suoi poteri di indirizzo sul SIAN, ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in ordine alla legittimità di affidamento diretto del servizio in questione alla neo-costituita Società SIN.

Questa Sezione, con il parere n. 3162/06, reso dall’adunanza del 13 dicembre 2006, ha ritenuto che, “nel caso prospettato con il quesito in oggetto”, non si rinvengono le due condizioni “per ritenere legittimi affidamenti diretti o in house”, come definite “dalla giurisprudenza sia nazionale, sia comunitaria”, ovvero: “1) che il servizio sia svolto direttamente dall’Amministrazione ovvero da società sulla quale eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; 2) che la società affidataria realizzi la parte più importante e comunque prevalente della propria attività con l’ente che esercita “il controllo analogo”.

Alla stregua di tali considerazioni – sulla base delle prospettazioni effettuate dal Ministero riferente – la Sezione ha affermato che la situazione in esame appare “non conforme ai principi della normativa nazionale e comunitaria” esaminati (ovvero quelli relativi all’applicabilità del modello dell’in house providing).

 

3. Il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo) chiede, ora, un nuovo pronunciamento di questo Consiglio di Stato sulla questione, affermando che “ad una più attenta considerazione” si rinvengono profili e conseguenze della vicenda “che, nell’originaria richiesta di parere rivolta dal Ministero al Consiglio di Stato in ragione del rapporti di vigilanza sull’AGEA, non erano state prese in considerazione e che ora da segnalazione della stessa AGEA sono venute ad emergere”.

 

3.1. In particolare, con la nuova richiesta di parere si riferisce che “il punto nodale … è costituito dalla configurazione dei profili organizzatori dell’AGEA delineati dalla normativa di riferimento ed esattamente dall’art. 14, commi 9, 10 e 10-bis del d.lgs. n. 99 del 29 marzo 2004”, sopra riportati, che prevedono il subentro immediato dell’AGEA in tutte le complesse competenze e funzioni del SIAN (quali definite dalla legge n. 194 del 4 giugno 1984, dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 30 aprile 1998 e, in seguito, dal DM 26 ottobre 2005).

Il Ministero ricorda, innanzitutto, che il SIAN è stato istituito come servizio proposto per l’esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi ai settore agricolo nazionale (ai sensi del sopra riportato art. 15 della legge n. 194 del 1984).

Per tali finalità, secondo la previsione del richiamato art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 173 del 1998, “Il SIAN, quale strumento per l'esercizio delle funzioni di cui al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, ha caratteristiche unitarie ed integrate su base nazionale e si avvale dei servizi di interoperabilità e delle architetture di cooperazione previste dal progetto della rete unitaria della pubblica amministrazione. Il Ministero per le politiche agricole e gli enti e le agenzie dallo stesso vigilati, le regioni e gli enti locali, nonché le altre amministrazioni pubbliche operanti a qualsiasi titolo nel comparto agricolo e agroalimentare, hanno l'obbligo di avvalersi dei servizi messi a disposizione dal SIAN, intesi quali servizi di interesse pubblico, anche per quanto concerne le informazioni derivanti dall'esercizio delle competenze regionali e degli enti locali nelle materie agricole, forestali ed agroalimentari. Il SIAN è interconnesso, in particolare, con l'Anagrafe tributaria del Ministero delle finanze, i nuclei antifrode specializzati della Guardia di finanza e dell'Arma dei carabinieri, l'Istituto nazionale della previdenza sociale, le camere di commercio, industria ed artigianato, secondo quanto definito dal comma 4..

Il comma 2 dello stesso articolo aggiunge che il Sistema Informativo Agricolo Nazionale è unificato con i sistemi informativi di cui all’articolo 24, comma 3, della legge n. 97 del 1994, e all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, nonché integrato con i sistemi informativi regionali. Allo stesso è trasferito l’insieme delle strutture organizzative, dei beni, delle banche dati, delle risorse hardware, software e di rete dei sistemi di cui all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, senza oneri amministrativi. Inoltre, “in attuazione della normativa comunitaria, il SIAN assicura, garantendo la necessaria riservatezza delle informazioni, nonché l’informativa su base nazionale dei controlli obbligatori, i servizi necessari alla gestione, da parte degli organismi pagatori e delle regioni e degli enti locali, degli adempimenti derivanti dalla politica agricola comune, connessi alla gestione dei regimi di intervento nei diversi settori produttivi ivi inclusi i servizi per la gestione e l’aggiornamento degli schedari oleicolo e viticolo.”.

Il SIAN è, altresì, “interconnesso con i sistemi informativi delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura al fine di fornire all’ufficio del registro delle imprese di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 581 del 1995 gli elementi informativi necessari alla costituzione ed aggiornamento del Repertorio economico amministrativo (REA). Con i medesimi regolamenti, di cui all’articolo 14, comma 3, sono altresì definite le modalità di fornitura al SIAN da parte delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, delle informazioni relative alle imprese del comparto agroalimentare” (comma 3 del predetto art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998).

L’integrazione del SIAN alla rete informativa pubblica è confermata dalla adozione, prevista dal comma 4 dell’art. 15, di una apposita convenzione, con la quale “le amministrazioni di cui ai commi precedenti definiscono i termini e le modalità tecniche per lo scambio dei dati, attraverso l'adozione di un protocollo di interscambio dati. Il sistema automatico di interscambio dei dati è attuato secondo modalità in grado di assicurare la salvaguardia dei dati personali e la certezza delle operazioni effettuate, garantendo altresì il trasferimento delle informazioni in ambienti operativi eterogenei, nel pieno rispetto della pariteticità dei soggetti coinvolti.”.

In aggiunta a tali funzioni, l’art. 2 del decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 26 ottobre, recante adempimenti relativi alla gestione dei servizi del SIAN, sancisce che “L’AGEA in attuazione dell’art. 14, comma 9, del decreto legislativo n. 99/2004 e sulla base degli atti di indirizzo di cui all’art. 1, comma 1, assicura le funzioni di coordinamento, sviluppo e gestione del SIAN, assumendo i provvedimenti necessari a promuovere ed eseguire gli adempimenti previsti e garantendo il raccordo con il Ministero per l’innovazione e le tecnologie, e con il CNIPA per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194. Per le finalità di cui al precedente comma 1, l’AGEA, in coerenza con le linee guida e le direttive del Ministero per l’innovazione e le tecnologie e del CNIPA, promuove o partecipa a progetti aventi gli obiettivi:

a) di razionalizzare l’impegno delle amministrazioni pubbliche tramite la standardizzazione dei processi di erogazione dei servizi di interoperabilità e cooperazione, nonché l’interscambio sistematico dei dati tra soggetti pubblici con l’obiettivo di evitare duplicazioni e ridondanze nella erogazione e fruizione dei servizi;

b) di valorizzare i dati, i prodotti ed i servizi delle amministrazioni pubbliche e di agevolare il riuso delle funzioni dalle stesse realizzate;

c) di realizzare servizi a valore aggiunto verso soggetti terzi, anche privati”.

Secondo l’art. 3 dello stesso provvedimento, “in attuazione dell’art. 14, commi 9 e 10, del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99, l’AGEA assicura al Ministero l’integrazione all’interno del SIAN dei dati e dei servizi informativi derivanti dalle attività eseguite dagli enti ed agenzie vigilati dal Ministero o da altri soggetti pubblici e privati, delegate o finanziate dal Ministero stesso, che comportino la gestione di dati e di archivi informatizzati. Nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, l’AGEA: a) definisce gli standard idonei a garantire la compatibilità con l’architettura complessiva del SIAN, verificandone il rispetto; b) garantisce la fruizione delle informazioni all’interno del SIAN, sulla base delle specifiche definite, realizzando gli opportuni meccanismi di interoperabilità, interscambio e cooperazione.”.

 

3.2. La riferente amministrazione ritiene, quindi, che la ricognizione del quadro normativo complessivo evidenzi che il relativo trasferimento in capo all’AGEA abbia comportato “l’assunzione da parte dell’Agenzia di nuove competenze e funzioni oltre a quelle in precedenza istituzionalmente assegnate che avrebbero comportato l’adeguamento delle strutture della stessa. Ciò in quanto lo svolgimento delle relative funzioni necessita di una specifica esperienza informatica ed un patrimonio di conoscenze tecnologiche non facilmente improvvisabile, né rinvenibile presso strutture pubbliche”.

In sostanza, il Ministero reputa necessario rilevare, con il nuovo quesito, che la norma ha previsto il subentro immediato dell’AGEA in tutte le complesse competenze e funzioni del SIAN “senza che la società subentrante avesse la esperienza e vocazione tecnico-inforrnativa necessaria, né adeguate strutture vocate allo scopo. Ma, proprio nella consapevolezza di tale deficienza, per la realizzazione e gestione di siffatto sistema informativo la medesima norma ha delineato un particolare modulo organizzatorio, diretto ad assicurare il necessario patrimonio di conoscenze e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private (che come tali si confrontano con l’aggiornamento imposto dalla concorrenza del libero mercato). E, difatti, ha imposto alla AGEA di non attrezzarsi direttamente, ma di costituire una società pubblico-privata, individuando quale socio privato una impresa in possesso del requisito di esperienza nel settore specifico ed alta specializzazione tecnologica”.

Tale modulo organizzatorio, in effetti, è stato imposto dal legislatore con il d.l. n. 182 del 2005, convertito dalla legge n. 231 del 2005, senza lasciare alla AGEA alcuna possibile alternativa dì organizzare e gestire il servizio secondo modalità diverse.

 

3.3. In applicazione di questo contesto normativo, la riferente amministrazione chiarisce, con la nuova richiesta di parere, di aver configurato la “società mista” indicata dalla legge come un soggetto nell’ambito del quale il socio pubblico si faccia carico delle competenze e responsabilità amministrative e il socio privato metta a disposizione della società la propria competenza specifica, apportando il suo lavoro professionale per la realizzazione degli obiettivi di legge.

In questo quadro – ritiene il Ministero riferente – “il socio privato finisce per assumere a termine (9 anni previsti dalla gara) il ruolo di socio di lavoro munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge”. Tale modello – secondo la riferente amministrazione – è conforme a quello disciplinato dagli artt. 113 e 116 del t.u. n. 267 del 2000 sugli enti locali ed appare coerente con la natura della attività che l’AGEA è per legge chiamata a svolgere: “da un lato competenze e funzioni amministrative e di controllo in materia di agricoltura (così come esposte nella normativa in precedenza citata), dall’altro a sovrintendere alle attività operazioni e prestazioni di tipo informativo sottese alla piena la realizzazione della prime e demandate secondo lo schema organizzatorio del socio di lavoro al privato prescelto in gara”.

In sostanza, secondo questo modello organizzatorio, il socio pubblico è chiamato ad assumersi l’onere ed a svolgere funzioni amministrative del servizio, mentre il socio di lavoro privato a predispone l’organizzazione necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul servizio.

Del resto – aggiunge il quesito in esame – la peculiarità e specializzazione tecnologica della gestione del SIAN è sempre stata considerata e valutata dal legislatore anche in precedenza, atteso che anche l’art. 15 della legge n. 194 del 1984 disciplinava espressamente la gestione di tale ente “in deroga alle norme sulla contabilità dello Stato”, sì da suggerire il ricorso ad uno strumento organizzatorio ad hoc quale, per l’appunto, quello da ultimo delineato dall’art. 14, comma 10-bis, del d.l. n. 182 del 2005 come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 231 del 2005.

 

3.4. Dall’approfondimento effettuato, il Ministero trae il nuovo convincimento che “la costituzione, da parte dell’AGEA, della società SIM, costituisce il momento di esercizio di una funzione organizzativa espressamente prevista dalla legge e non già affidamento di un servizio. Per contro, tale specifico momento si configura a valle, e cioè [attraverso] le modalità che attuerà la Società per svolgere i servizi cui è preposta.”. E per tale fase è la stessa norma che si è premurata di aprire la partecipazione della Società ad un soggetto privato che andrà ad assumere il ruolo di socio di lavoro e che dovrà essere scelto con gara europea (che, effettivamente, risulta essere stata regolarmente effettuata, nel corso dello scorso anno, ai sensi del d.lgs. n. 157 del 1995).

In conclusione, la richiesta di parere afferma che dalla nuova ricognizione effettuata sembra di poter conseguire che “la costituzione della società per la gestione del SIAN non costituisce affatto una modalità di affidamento in house contraria alla disciplina comunitaria, bensì una modalità organizzatoria per lo svolgimento del SIAN articolato in via primaria nella costituzione della società e poi nella sua apertura all’apporto di lavoro di un socio privato prescelto con gara (e quindi in piena conformità con il trattato CE e le direttive comunitarie) per i prossimi 9 anni”. Inoltre, tale modello sembra al Ministero coerente con la peculiarità del servizio da svolgere, e con la “esigenza di non accentrare su AGEA funzioni che non è attrezzata a svolgere direttamente” e, nello stesso tempo, “che non può esercitare seguendo modalità ed iter procedimentali diversi da quello tassativamente imposto dalla legge, consistente nella costituzione di una società pubblico — privata”.

 

4. Questo Consiglio di Stato è dell’avviso che, alla stregua delle nuove argomentazioni e allegazioni – e ferme restando le affermazioni di principio enunciate nel precedente parere n. 3162/06 – si possa pervenire a conclusioni differenti sullo specifico caso in questione, secondo le considerazioni che seguono.

 

5. Appare necessario, in primo luogo, definire la riconducibilità o meno, in via generale, del modello organizzativo identificato dal legislatore nel caso di specie – ovvero quello della costituzione di una “società mista” pubblico-privata – al modello dell’in house providing: solo in caso affermativo si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia.

 

5.1. Come è noto, l’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., in termini, la recente decisione della VI Sezione di questo Consiglio del 3 aprile 2007, n. 1514, su cui si tornerà più avanti). Il modello si contrappone a quello delloutsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa.

La prima definizione giurisprudenziale della figura è fornita dalla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal. In quella sede – a estrema sintesi delle considerazioni della Corte – si è affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:

a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;

b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.

In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi “terzo” rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.

 

5.2. Questa Sezione condivide pienamente – come già affermato nel precedente parere n. 3162/06 (cfr. pure, in termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) – le affermazioni secondo le quali la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario.

Ciò è stato chiarito con fermezza dalla Corte di giustizia nelle sue successive pronunce (cfr. le note sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, su cui si tornerà più avanti per altri profili; 21 luglio 2005, causa C‑231/03 - Corame; 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 - Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/ Comune di Bari; 11 maggio 2006, causa C-340/04 - Carbotermo; 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux).

Il ridimensionamento dell’istituto è da ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello, del quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene societarie e dei controlli indiretti, nonché attraverso le attività svolte nei confronti di terzi.

In particolare, la ricordata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in particolare, che:

- il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

- l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 - Mödling o Commissione c/ Austria);

- le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);

- il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).

La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.

I principi giurisprudenziali sopra accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle Corti Supreme nazionali, ivi compreso, come si è detto, questo Consiglio di Stato, il quale (sia nel parere n. 3162/06 che nella decisione della VI Sezione da ultimo citati) ha anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere generale era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma non è stata poi inserita nel testo finale del d.lgs. n. 163 del 2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture (la norma dell’originario schema era l’art. 15, rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi, lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione aggiudicatrice.”; il codice, tuttavia, ha conservato un riferimento generale alle società miste all’art. 1, comma 2, e all’art. 32: cfr. infra, il punto 7).

 

5.3. Questo Consiglio di Stato ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale consenta, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing.

Tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia (e molto si è discusso sul punto: svariati autori, in dottrina, propendevano per la soluzione affermativa e ancora oggi vi sono discipline che ricomprendono entrambe le situazioni: cfr. l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, di cui si dirà infra, al punto 7.3), oggi può dirsi ormai definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di “controllo analogo”.

In particolare, ciò emerge dalla già menzionata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau: nel dare atto che, in quella controversia, la Stadt Halle si era difesa proprio sostenendo che si sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.

L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/ Comune di Bari – laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005, causa C‑231/03 - Corame)” – e in quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux, ove si afferma che “quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., con riferimento agli appalti pubblici di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”.

In altri termini, la Corte di giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli dell’amministrazione pubblica. Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.

Di tali conclusioni questo Consiglio di Stato ha già preso atto quando, con la decisione n. 1514/07 della VI Sezione, ha affermato – con argomenti che questa Sezione condivide pienamente – che, in un caso diverso da quello ivi deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha ritenuto neanche configurabile l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca … degli affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude, infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house.”.

Da ciò consegue – ad avviso del Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato pubblico-privato “società mista” cui si riconduce l’oggetto del quesito in esame.

 

6. La non riconducibilità alla figura dell’in house non implica, di per sé, la esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.

Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara (cfr. amplius infra, il punto 8.2.2).

Per la soluzione del quesito in esame si impone, allora, una verifica autonoma, da condurre alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla Corte di giustizia (sull’in house, ma non solo) ma senza poter contare, allo stato, su una indicazione specifica in termini.

Tale verifica va condotta, ad avviso della Sezione, avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della tutela dell’amministrazione.

La Sezione, difatti, rileva che – se il regime dell’evidenza pubblica per la scelta del contraente privato nei contratti “passivi” della pubblica amministrazione è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben da prima dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, in quanto dettato nell’interesse dell’amministrazione appaltante – con il progressivo avvento della disciplina comunitaria tale regime nazionale è stato, in parte, conservato nei meccanismi di selezione del contraente, ma investito da una ratio del tutto nuova, che impone diversi canoni interpretativi e applicativi.

La finalità, l’intera logica di tale disciplina si è, infatti, trasformata – in adesione ai principi europei – da quella della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella della libera circolazione e della concorrenza.

Di conseguenza, se ciò ha portato (ormai quasi del tutto) alla scomparsa di norme sulla scelta del contraente di sicuro interesse dell’amministrazione pubblica ma incompatibili con l’interesse alla libera concorrenza, i meccanismi tradizionali di evidenza pubblica che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella sostanza, recepiti dal nuovo codice dei contratti pubblici (il menzionato d.lgs. n. 163 del 2006), ovvero – se contenuti in disposizioni speciali – non sono stati espressamente abrogati. Ciò è avvenuto, però, sul presupposto che tali meccanismi vadano applicati in questa diversa logica.

È in quest’ottica che va esaminata anche la questione in esame.

Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’interesse dell’amministrazione – pure stigmatizzato, nel caso di specie, con una apposita lex specialis – ma anche la sua compatibilità con l’interesse per la massima apertura del mercato, come identificato dai principi definiti dalla Corte di giustizia europea.

Peraltro, come è noto, laddove dovesse risultare evidente una incompatibilità, da parte della legge nazionale, con la disciplina comunitaria self executing nel nostro ordinamento, l’amministrazione sarebbe tenuta a disapplicarla (secondo i principi affermati a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 389 dell’11 luglio 1989).

La suddetta verifica va condotta sia “in astratto”, analizzando il modello generale delle società miste come oggi presente nell’ordinamento nazionale  (cfr. infra, i punti 7 e 8 e i relativi sottopunti), sia “in concreto”, guardando alla specifica disciplina prevista nel caso in esame e alla sua applicazione nella procedura di selezione del contraente privato (cfr. infra, il punto 9 e i relativi sottopunti).

 

7. Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali – t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa legge di conversione. Tale previsione può essere assunta a paradigma del modello anche ai fini della soluzione del quesito in oggetto, che pure si caratterizza per una disciplina ad hoc.

Sempre in via generale, il codice dei contratti pubblici, se non prevede più una generalizzazione del modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento (come si è detto retro, al punto 5.2), contiene invece, all’art. 1, comma 2, una previsione di carattere generale sulle società miste, secondo la quale, “nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”. Anche in questo caso, la norma non intende affermare la generale ammissibilità delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli casi già previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di legalità: si codifica soltanto il principio secondo il quale, in questi casi, la scelta del socio deve comunque avvenire “con procedure di evidenza pubblica” (non necessariamente, quindi, ai sensi della disciplina dello stesso codice).

La figura delle società miste compare anche nell’art. 32, al comma 1, lett. c), e al comma 3 (tale ultima disposizione è stata confermata nel testo definitivo nonostante i rilievi di questo Consiglio di Stato espressi nel parere della Sezione per gli atti normativi n. 355/06 del 6 febbraio 2006, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici: cfr. infra, il punto 8.4).

 

7.1. L’art. 113, comma 5, lett. b), del t.u.e.l. dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio …”, tra l’altro, “… b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”. Tale norma costituisce, in qualche modo, il paradigma del modello cui si ispira anche la normativa speciale per il SIAN che è oggetto del quesito in esame.

Lo stesso art. 113 prevede, nella distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza identificati dalla sentenza Teckal. Ciò sembra confermare quanto affermato retro (al punto 5 e ai relativi sottopunti) a proposito della differente disciplina dei due modelli della società mista e della società in house, anche con riguardo ai requisiti richiesti dal diritto europeo.

 

7.2. La figura delle società a capitale misto è stata configurata da autorevole dottrina come una forma di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”; tale figura, costituendo una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali, rende più flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e può risultare – se ricondotta nei canoni del pieno rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia, almeno in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro Verde della Commissione europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del 26 ottobre 2006, richiamati amplius infra, al punto 8.5).

Inoltre, la necessità di una gara per la scelta del socio – oltre a confermare l’esclusione della riconducibilità alla figura dell’in house – ha condotto a ritenere non corretto annoverare tale figura tipo di affidamento tra quelli “diretti”.

Tuttavia, la stessa dottrina – alla luce dell’evoluzione in senso restrittivo della giurisprudenza comunitaria – ha messo in evidenza la debolezza della tesi della equiparazione automatica fra la procedura di scelta del socio e la gara per l’affidamento del servizio. Pur riconoscendo la funzionalità del modello, si afferma come ci si trovi di fronte ad una “figura peculiare che potrà presentare non pochi problemi attuativi e che, per non essere censurata, dovrà ricevere una applicazione attenta”.

 

7.3. Sempre in relazione al modello generale, si ricorda l’intervento dell’art 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006, il quale ha introdotto una articolata disciplina che, in linea con i più recenti orientamenti comunitari volti a limitare l’in house providing, ma anche in relativa autonomia da essi, mira a evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle società pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od affidanti i contratti in house. In tale nuovo regime il d.l. n. 223 del 2006 ha equiparato i due diversi modelli delle società in house e del partenariato pubblico-privato.

In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali, come invece avviene nel caso di specie) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali:

- devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);

- non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;

- sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo – è stato affermato – non sembra debba essere inteso come divieto delle c.d. multiutilities, ma appare preferibile ritenere che rafforzi regola dell’esclusività evitando che dopo affidamento la società possa andare a fare altro).

Si ricorda come alcune Regioni (in particolare, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) hanno impugnato la norma dinanzi alla Corte Costituzionale, ritenendola discriminatoria delle società regionali e locali, rispetto a quelle statali e limitativa della capacità contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni ulteriori.

 

7.4. Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto normativo generale più organico e restrittivo a favore della concorrenza si è fatto carico il recente disegno di legge governativo recante “Delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali” (atto Senato n. 772 della XV legislatura, presentato il 7 luglio 2006), il quale prevede che “l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore”, consentendo soltanto “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie in presenza dei noti presupposti comunitari e alle società miste locali.

Il d.d.l. AS 772 (all’art. 2, comma 1, lettere c) e d) ) condiziona il ricorso a queste ultime alla “stretta inerenza delle modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati agli specifici servizi pubblici locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive” (come recita la relazione di accompagnamento al d.d.l.). Si prevede, inoltre, la necessità di “norme e clausole volte ad assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili situazioni di conflitto di interessi”.

La possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quelli di appartenenza viene esclusa dal d.d.l. per i soggetti già affidatari in via diretta di servizi pubblici locali, nonché per le imprese partecipate da enti locali, che usufruiscano di finanziamenti pubblici diretti o indiretti, salvo che si tratti del ristoro degli oneri di servizio relativi ad affidamenti effettuati mediante gara, sempreché l’impresa disponga di un sistema certificato di separazione contabile e gestionale.

Inoltre, si prevede che l’ente locale debba “adeguatamente motivare le ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di ricorrere” alle modalità di affidamento diretto, anziché alle modalità di affidamento tramite procedure competitive ad evidenza pubblica, e “che debba adottare e pubblicare secondo modalità idonee il programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.

 

8. In conclusione, può affermarsi che il modello della “società a capitale misto pubblico privato” esiste  – come distinto dall’in house – nell’ordinamento nazionale, sia nella disposizione generale dell’art. 113 t.u.e.l. che in varie disposizioni speciali (come quella per il SIAN nel caso di specie). D’altro canto, però, tale disciplina è in evoluzione, sia de iure condito (art. 1, comma 2, e art. 32 del d.lgs. n. 163 del 2006; art. 13 del d.l. n. 223 del 2006) che de iure condendo (AS n. 772), poiché continua a suscitare perplessità la piena compatibilità di tale modello con il sistema comunitario, alla stregua della recente e rapida evoluzione giurisprudenziale (che sembra ancora in corso) e stante l’assenza di decisioni specifiche sul punto.

La Sezione – nei limiti del quesito in esame – ritiene possibile affermare che tale compatibilità possa essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3 – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo.

In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale” o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), questo Consiglio di Stato ritiene che l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio.

La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste e opera uno specifico riferimento all’attività da svolgere) quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari esigenze di interesse pubblico (che nell’ordinamento italiano sono comunque individuate dalla legge).

A tale conclusione sembra doversi giungere alla stregua delle argomentazioni che seguono.

 

8.1. Non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione “estrema” secondo la quale, per il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto.

Soprattutto, tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle quali il socio, ancorché selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società “generalista”, alla quale affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche attività extra moenia, avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico.

Esula, però, dall’oggetto specifico del quesito in esame l’approfondimento di tale ipotesi, poiché, come si vedrà, essa non sussiste nel caso di specie (cfr. infra, il punto 9 e relativi sottopunti).

 

8.2. Non sembra alla Sezione condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema” (che potrebbe avere, invece, dei riflessi diretti sulla soluzione del quesito in oggetto), secondo la quale la giurisprudenza comunitaria in materia di in house – e in particolare quella secondo la quale il “controllo analogo” è escluso quando la società è partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari, in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.

 

8.2.1. In tal senso si è di recente pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia (decisione 27 ottobre 2006 n. 589), che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”. Se nessuno sembra porre in discussione la necessità della gara per la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto, dal codice dei contratti pubblici all’art. 1, comma 2), si rileva, a sostegno di tale tesi estrema che, pur “in un quadro giurisprudenziale in generale incline ad escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272) sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le quali:

- configura una restrizione del mercato e della concorrenza l’obbligo per l’imprenditore di conseguire l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione;

- la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio non è sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità, a quella per l’affidamento del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico;

- il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario;

- se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 - Mödling o Commissione c/ Austria).

In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo una gara) non esimerebbe in nessun caso dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio.

 

8.2.2. La Sezione ritiene che le ragioni poste a sostegno di tale tesi – pur se tutte condivisibili – possano tuttavia condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara.

Occorre, infatti, evitare – ad avviso della Sezione – di interpretare i dicta della Corte di giustizia in modo da far loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare, paradossalmente, ad effetti opposti, e addirittura contrari allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di giustizia.

Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza pubblica.

A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 - Parking  Brixen la gestione del parcheggio, già affidata ad un operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 - Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001 a favore di una società mista, costituita nel 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio. Anche nel caso C-340/04 - Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento del servizio era stata sospesa e poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 - ANAV), al solo scopo di affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.

La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi, secondo il Collegio, a violazioni conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.

La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria.

La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata” dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto.

 

8.2.3. La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative “tutta pubblica” e “tutta privata”.

Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le società miste rischierebbe di condurre, ad avviso della Sezione, a far valere gli indirizzi della Corte di Lussemburgo come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato. Questa Sezione ritiene, invece, che l’affidamento a soggetti pubblici al 100% costituisca, in qualche modo, la negazione del mercato: non si può immaginare che la Corte di giustizia preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia invece rientrare in gioco il mercato e i privati, tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare (come si dirà infra, al par. 7.5.3) l’affidamento nell’oggetto e, soprattutto, nel tempo.

Risulterebbe allora paradossale, nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di intervento ai soli due estremi assoluti e quindi consentire – sia pure con criteri interpretativi molto restrittivi – una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato.

Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola) rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici, individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house.

In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della “chiusura in se stessa” dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione. E ciò avviene coniugando l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato  selezionato per la gestione.

 

8.3. Alla stregua di quanto esposto, sembra allora ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al “socio operativo” della società.

Peraltro, si ricorda che il suddetto modello non è ordinario nel nostro sistema e che – salvi i non frequenti casi (come quello di specie) in cui il legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve comunque motivare in modo adeguato perchè si avvale di una società mista invece di rivolgersi integralmente al mercato.

Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità in ordine alla restrizione della concorrenza.

In particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.

In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:

1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;

2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito della successiva tara egli risulti non più aggiudicatario.

Almeno nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali possibilità, come si è detto, la Sezione non deve occuparsi, stante l’oggetto del quesito) sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla stregua della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità dottrinarie sopra richiamate (cfr. retro, il punto 7.2 e lo stesso punto precedente 8.2) le quali, come si è detto, sono pienamente condivise dalla Sezione.

In particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata sentenza C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.

Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”. Ad avviso della Sezione, la presenza di un “interesse privato” appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da scegliere.

In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara “che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento dell’appalto sembra ottemperare all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo.

Parimenti insussistente appare, nel caso qui ipotizzato, l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux (e in particolare dalle conclusioni dell’Avvocato Generale), a proposito del ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso di subappalto, ben può verificarsi il pericolo chel’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti soltanto una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello previsto all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi, l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”. Nell’ipotesi, qui profilata, del “socio di lavoro” scelto con gara sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo” viene affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del “socio pubblico”.

 

8.4. La Sezione è dell’avviso che tale assetto – che sembra essere molto vicino a quello che verrebbe, auspicabilmente, meglio chiarito e codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (atto Senato n. 772, descritto retro, al punto 7.4) – già oggi non può dirsi escluso dalla normativa vigente, che non va quindi necessariamente “disapplicata” ma, ove possibile, adeguata anche in via intepretativa, alla luce dei principi comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo.

Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso anche il parere (citato retro, al punto 7) n. 355/06 del 6 febbraio 2006 della Sezione per gli atti normativi di questo Consiglio, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici. In quella sede, oltre a richiedere una modifica (non recepita dal Governo) della disposizione oggi ancora contenuta nell’art. 32, comma 3, del codice, si era anche affermato che “in ogni caso, ove si intenda mantenere la previsione, sul presupposto di una portata ampia della legge delega, che in ogni caso chiama il Governo alla definizione di un nuovo quadro giuridico per il recepimento, dovrebbe risultare chiaro che la gara per la scelta del socio è stata svolta in vista proprio della realizzazione dell'opera pubblica o del servizio che successivamente si affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell'opera e del servizio nel bando della gara celebrata per la scelta del socio. Ciò al fine di assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti che vengono poi posti in essere con l'affidamento diretto.”.

Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato n. 3672/05 – che si riferisce ad un caso in cui un comune pugliese aveva bandito una gara per la costituzione di una società alla quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe tributaria comunale – laddove afferma che, ovviamente, tale modello è ben diverso da quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di parternariato pubblico-privato altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso senso, V sez., n. 272/05 e n. 2297/02).

 

8.5. L’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al socio privato l’“affidamento sostanziale” del servizio svolto dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di “parternariato pubblico-privato” (PPP) già da tempo affrontato dalle istituzioni comunitarie.

Si fa riferimento al Libro Verde pubblicato dalla Commissione europea il 30 aprile 2004 (cfr., in particolare, il par. 3, punti 53 ss.), laddove si afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria …”, tra l’altro, “permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni …”.

Tali tipologie di parternariato – prosegue la Commissione europea – non essendo disciplinate direttamente dal diritto comunitario degli appalti, dovrebbero comunque essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista … essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire” (Libro Verde, cit., punto 58; cfr. pure i successivi punti 61, 62 e 63, che appaiono in linea con le affermazioni sin qui svolte dalla Sezione).

Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal Palamento europeo nella recente “Risoluzione sui parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 26 ottobre 2006 (2006/2043 (INI)), dove si afferma, tra l’altro, che “se il primo bando di gara per la costituzione di un’impresa mista è risultato preciso e completo, non è necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40).

 

9. Una volta ritenuta configurabile in via generale, sia pure nei limiti e alle condizioni sopra esposti, l’ammissibilità del ricorso a una società mista, occorre ora verificare se tali limiti e condizioni siano riscontrabili nel peculiare caso di specie, alla stregua della disciplina speciale ivi prevista e della più precisa descrizione fornita dalla riferente amministrazione con la richiesta di riesame del quesito.

 

9.1. Dalla descrizione dell’assetto della specifica disciplina del caso di specie si evince non tanto un “interesse dell’amministrazione” a ricorrere al modello in esame (che, di per sé, nonostante l’espressa previsione legislativa, potrebbe non rivelarsi sufficiente, come si è detto retro, al punto 6) ma piuttosto quasi una necessità, in considerazione della stretta connessione del SIAN con l’esercizio di funzioni pubbliche (che appaiono ben definite dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998, riportato retro, al punto 3.1).

Tale connessione – adeguatamente evidenziata dalla nuova ricostruzione del Ministero riferente (riportata retro, ai punti 3.3 e 3.4) – non sembra consentire un integrale affidamento all’esterno del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, pur rinvenendosi, per converso, l’esigenza di una peculiare professionalità e specializzazione tecnologica nella gestione del sistema medesimo che richiede, a condizioni ben definite, la “collaborazione” di un soggetto privato, altamente qualificato, che predisponga e mantenga l’infrastruttura tecnica necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul Servizio Informativo.

Nel caso di specie, in effetti, non si può parlare di vero e proprio “affidamento di un appalto” alla società mista SIN, che difatti svolge funzioni pubbliche affidatele ope legis, ma di necessità di individuare, con gara, un partner privato che svolga un servizio di supporto tecnologico (servizio ben definito in concreto e a tempo determinato, come si vedrà), con la sola particolarità che – alla stregua delle particolari esigenze di interesse pubblico del caso di specie – questo servizio di supporto (come si è detto, in via generale, retro, al punto 8) non viene svolto con un “controllo esterno” da parte dell’amministrazione appaltante, ma con un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, nel caso di specie anche maggioritario.

In altri termini, sembra potersi rinvenire, ad avviso della Sezione, una connessione inscindibile tra la costituzione della società e l’esercizio delle funzioni del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, molte delle quali – come si è detto – appaiono di tipo amministrativo e non delegabili ai privati. Ciò consente di fugare, in concreto, i dubbi di violazione della concorrenza che potrebbero invece insorgere laddove tali due momenti fossero separati ponendo l’accento su un “affidamento diretto” alla società mista, considerata come un soggetto privo di compiti amministrativi.

In questo caso, invece, l’affidamento vero e proprio appare in qualche modo traslato dall’AGEA alla società ad hoc prevista dalla legge, per intervenire nell’unico momento in cui occorre istituire un “interfacciamento” tra pubblico e privato e far ricorso a un “patrimonio di conoscenze tecniche e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private”: il momento della scelta del “socio di lavoro” con una gara che, al tempo stesso, ne definisca specificamente il ruolo (e, quindi, il servizio da rendere), ne chiarisca le forme di controllo “interno” da parte dell’amministrazione e ne delimiti temporalmente la durata.

 

9.2. Una volta rilevata la peculiarità del caso in esame – che consente quantomeno di rinvenire l’esistenza di particolari ragioni che inducono a ritenere funzionale il ricorso alla figura della società mista come “forma di collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori” – appare altresì sussistere, in capo al socio privato, la prima delle condizioni individuate retro, al punto 8.3, ovvero quel ruolo di “socio operativo, o di lavoro”, munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge.

Nella fattispecie, come si ricava dagli ulteriori chiarimenti forniti alla Sezione nella richiesta di riesame, la procedura di selezione non ha mirato soltanto alla scelta di un socio privato, ma ha anche delineato in modo chiaro i compiti che il socio privato è chiamato a svolgere e il ruolo di controllore del socio pubblico rispetto alle attività “operative” del socio privato.

Come si ricava da più aspetti degli atti di gara (dal peso preponderante fornito alla parte tecnica dell’offerta al contratto di servizio quadro che costituiva parte integrante della disciplina dell’appalto, ai patti parasociali resi pubblici negli atti di scelta del contraente), la procedura selettiva era stata apertamente finalizzata all’individuazione di un “socio industriale”, il cui apporto non si sarebbe esaurito nel conferimento di capitali, ma sarebbe principalmente consistito nell’assunzione in proprio delle prestazioni affidate alla società nel suo complesso, con l’accollo di tutti i rischio connessi alla gestione tecnico-finanziaria. L’AGEA, insomma, ha predisposto una procedura concorsuale finalizzata non alla selezione di un semplice socio finanziario, bensì alla individuazione di un partner “operativo” chiamato a svolgere le prestazioni strumentali alla gestione e sviluppo del SIAN all’interno della società mista.

In altri termini, nel caso di specie non sembrano rinvenirsi possibilità di elusione della normativa comunitaria, poiché, come richiesto dall’ipotesi generale identificata retro, al punto 8 e ai relativi sottopunti, lo stesso bando ha mirato non solo alla scelta del socio, ma anche all’affidamento del servizio “operativo” da svolgere.

 

9.3. Oltre alla precisa definizione dell’oggetto dell’affidamento al privato che sarebbe stato prescelto come socio della SIN, la gara ha altresì soddisfatto la seconda condizione sopra indicata: quella della durata temporalmente limitata del parternariato.

Come si evince dagli atti, la partecipazione del socio privato al capitale della società ha carattere temporaneo e limitato nel tempo, con una durata di nove anni (tale elemento non ha, peraltro, limitato la partecipazione alla gara, atteso il considerevole numero di partecipanti).

Altrettanto definite appaiono, nel caso di specie, le modalità di “uscita” del socio privato alla scadenza del termine: dopo i nove anni, infatti, è previsto che le quote del socio private siano trasferite al socio pubblico al prezzo che sarà determinato, in base a regole già fissate e contenute nei documenti di gara, da un advisor nominato da entrambi i soci. L’importo in questione costituirà la nuova base d’asta per il successivo periodo, ed in tal modo l’AGEA non sarà neppure gravata da oneri per il riacquisto delle quote.

Tale dettagliata disciplina appare alla Sezione particolarmente importante, poiché in tal modo non si può neanche astrattamente configurare, nel caso di specie, una situazione – che certamente avrebbe destato perplessità in ordine alla compatibilità con il sistema europeo degli appalti pubblici – in cui il privato, pur se scelto con gara pubblica, potrebbe divenire parte integrante, a tempo indeterminato, del soggetto pubblico che svolge determinate funzioni, fruendo così di una distorsiva rendita di posizione.

 

9.4. Non sembra, infine, che si possa rinvenire una residuale incompatibilità della situazione in esame con la nuova (e per certi versi più restrittiva degli stessi principi comunitari) disciplina di cui all’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006.

Difatti, l’ambito di applicazione soggettivo del d.l. riguarda (salve ovviamente le contestazioni delle Regioni dinanzi alla Corte costituzionale) le società “costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali”, mentre qui si verte di una società costituita da un ente statale, e in ogni caso la normativa in questione si potrebbe configurare come lex specialis (poiché relativa specificamente al Sistema Informativo Agricolo Nazionale), derogatoria rispetto alla previsione generale del d.l. n. 223, ancorché antecedente ad essa.

Ma, anche a prescindere da ciò e a far assurgere il contenuto dell’art. 13 a norma di principio, integrativa della disciplina di tutte le società miste, si rileva come la SIN appaia rispettare, in concreto, anche tale nuova e più restrittiva disciplina. Difatti, secondo le attestazioni della riferente amministrazione, essa “svolge le attività solo nel settore assegnato dallo Statuto in coerenza con la legge che prevede la sua istituzione e solo con riferimento ai soggetti pubblici interessati al servizio stesso, così come precisamente individuati nell’art. 15 del d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173”.

 

9.5. Alla stregua di quanto esposto, il caso di specie sembra quindi rientrare, sotto tutti i suoi aspetti, nel caso generale di cui si è detto retro, al punto 8 e ai relativi sottopunti: può quindi affermarsi la sua complessiva compatibilità con la normativa comunitaria e nazionale.

La ammissibilità della scelta legislativa del modello della società mista nel caso di specie non esime, ovviamente, l’amministrazione dal perseguimento di tutte le ulteriori cautele che si impongono in una situazione di così stretta commistione tra l’esercizio di funzioni pubbliche e l’attività del socio “operativo” privato.

Esse non costituiscono oggetto del quesito e vertono, peraltro, su aspetti non esaurientemente trattati dalla riferente amministrazione. Tuttavia, la Sezione ritiene opportuno, comunque, richiamare l’attenzione del Ministero sull’esigenza di considerare tale aspetto: si pensi, ad esempio, alla necessità che nell’ambito della società SIN sia ben definito il regime del trattamento dei dati riservati relativi ad amministrazioni pubbliche e dei dati personali dei soggetti privati (come si è detto, il SIAN è interconnesso, tra l’altro,  con l'Anagrafe tributaria del Ministero delle finanze, con i Nuclei antifrode specializzati della Guardia di finanza e dell'Arma dei carabinieri, con l’INPS, con le camere di commercio, etc.).

 

P.Q.M.

Nelle esposte considerazioni è il parere della Sezione.

 

 

IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE                                                L’ESTENSORE

       (Livia Barberio Corsetti)                                                              (Luigi Carbone)

 

 

 

 

IL SEGRETARIO D’ADUNANZA

(Anna Vitale)

 

In house providing e società miste: due rette parallele o convergenti? nota a parere Consiglio di Stato, Sezione II, 18 aprile 2007, n. 456 di Antonio Plaisant

 

1. Introduzione
2. Il parere 18 aprile 2007, n. 456, della II Sezione del Consiglio di Stato.
3. L’evoluzione normativa dei servizi pubblici locali nell’ordinamento nazionale.
4. Le società miste a confronto con l’in house providing, l’organismo di diritto pubblico e la concessione di servizi.
5. Lo stato attuale dell’ordinamento ed il contributo offerto dal parere in commento.
6. Alcune considerazioni conclusive


1. Introduzione

 


Il presente contributo trae spunto dal parere 18 aprile 2007, n. 456, espresso dalla Sezione II del Consiglio di Stato, in merito all’affidamento di un servizio informatico a favore di società a capitale misto pubblico-privato.
La fattispecie posta all’attenzione del Supremo Collegio ha caratteristiche peculiari, ma il relativo parere riveste comunque notevole rilievo, in un momento ordinamentale caratterizzato da interventi normativi disorganici e spinte provenienti dal diritto comunitario non sempre connotate da sufficiente univocità.
Ciò ha comportato l’affermarsi di arresti giurisprudenziali e ricostruzioni dottrinali distanti non solo sul piano delle soluzioni proposte ma anche del significato lessicale e sistematico da attribuire alle diverse fattispecie giuridiche, tanto che le società miste sono state di volta in volta ricondotte alla figura dell’organismo di diritto pubblico, a quella dell’in house providing ed alla teoria generale delle concessioni di servizi e, quel che più sorprende, tali diverse conclusioni sono state spesso fondate sui medesimi dati normativi e giurisprudenziali (1).
In un quadro generale così complesso, il parere in commento si distingue soprattutto per l’apprezzabile tentativo di ricostruzione complessiva del sistema, attraverso un metodo singolarmente classificatorio, che mira a fare il punto sulle principali tesi in campo, chiarire gli effetti delle pronunce della Corte di Giustizia sull’ordinamento nazionale e, infine, indicare la soluzione ritenuta preferibile.
Nell’affrontare la complessa problematica si cercherà di utilizzare la medesima impostazione prescelta dal Consiglio di Stato.
Si partirà dall’analisi del caso concreto, inserendolo nel contesto generale degli affidamenti di servizi alle società miste (par. 2).
Sarà poi necessario richiamare sinteticamente la normativa nazionale in materia di servizi pubblici locali (par. 3).
Ciò posto si procederà all’analisi dell’evoluzione cui è andato incontro il modello in house, al fine di evidenziarne la convergenza sulle società a partecipazione pubblico-privata, alla luce dei più recenti pronunciati della Corte di Giustizia (par. 4).
Ed infine si cercherà di trarre qualche conclusione sistematica in relazione alla questione di fondo posta dal titolo del presente lavoro, nonché, più in generale, alle concrete prospettive e ragioni di sopravvivenza della società mista nell’attuale contesto ordinamentale (par. 5).




2. Il parere 18 aprile 2007, n. 456, della II Sezione del Consiglio di Stato.

 



Il Supremo Collegio è stato chiamato ad esprimere parere da parte dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AGEA), circa la legittimità dell’affidamento diretto, ad una società mista a prevalente capitale pubblico appositamente costituita, del Servizio Informativo Agricolo Nazionale (SIAN).
Quest’ultimo - consistente nella raccolta, archiviazione e trasmissione agli organi pubblici competenti dei dati inerenti al settore agricolo nazionale - era stato istituito dall’art. 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194, che ne aveva affidato la gestione al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, il quale avrebbe dovuto gestirlo “attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale, anche indiretta”.
Con l’entrata in vigore dell’art. 14, comma 9, del decreto legislativo 2004, n. 99, i compiti di coordinamento e gestione del SIAN erano stati trasferiti all’AGEA, di cui era stato disposto il subentro in tutti i rapporti attivi e passivi relativi al SIAN (comma 10).
Da ultimo il decreto legge 2005, n. 182, convertito in legge 2005, n. 231, ha aggiunto all’art. 14 il comma 10 bis, secondo cui “l’AGEA…costituisce una società a capitale misto pubblico-privato, con partecipazione pubblica maggioritaria nel limite massimo pari a 1,2 milioni di euro…alla quale affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN. La scelta del socio privato avviene mediante l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica ai sensi del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157 e successive modificazioni…”.
In virtù di tale nuova previsione normativa l’AGEA ha provveduto a costituire un società mista nei termini indicati dal legislatore, scegliendo il partner privato mediante gara ed attribuendogli il compito di assumere in proprio l’onere di gestire per nove anni il SIAN dal punto di vista tecnico-operativo ed è proprio su questo affidamento che è stato espresso il parere in commento.
Il Consiglio di Stato, per il vero, aveva già espresso un primo parere sulla fattispecie de qua ed in quella occasione si era espresso in senso negativo (2), ritenendola non riconducibile al modello dell’in house providing, il che sarebbe bastato a decretarne l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario.
La questione ha poi costituito oggetto di un nuovo quesito e su di esso è stato espresso il parere 456/2007 ora in commento.
Questa volta l’AGEA ha puntato su una diversa ricostruzione della fattispecie.
Ha evidenziato, infatti, l’Agenzia che il SIAN, nella gestione del quale è subentrata per legge, è servizio strumentale all’esercizio di competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole, tanto è vero che il “Ministero per le Politiche Agricole e gli enti e le agenzie dallo stesso vigilati, le regioni e gli enti locali, nonché le altre amministrazioni pubbliche operanti a qualsiasi titolo nel comparto agricolo e agroalimentare, hanno l’obbligo di avvalersi dei servizi messi a disposizione dal SIAN, intesi quali servizi di interesse pubblico…” (art. 15, comma 1, decreto legislativo 1998, n. 173).
In quest’ottica il ricorso alla società mista costituirebbe una necessità pratica, oltre che giuridica, vista la mancanza di personale interno in possesso della professionalità necessaria allo svolgimento di un servizio informatico di così elevata complessità. In ciò troverebbe giustificazione la scelta di affidare al socio privato - individuato con gara pubblica ad alta selezione concorrenziale, per una durata del rapporto pari a nove anni - compiti operativi e di effettiva gestione a proprio rischio delle prestazioni informatiche connesse al SIAN, mentre ad AGEA è rimasto il coordinamento e controllo della relativa attività e la gestione delle fasi propriamente “pubblicistiche” del rapporto. Nel caso di specie, quindi, non sarebbe dato ravvisare l’affidamento di un servizio pubblico, bensì una modalità organizzatoria di funzioni istituzionali.
Il Supremo Collegio ha aderito, questa volta, alle tesi dell’Agenzia, ritenendo che l’affidamento del servizio alla società mista sia compatibile con i principi comunitari.
A tal fine, con specifico riferimento alle peculiarità della fattispecie, il Supremo Collegio ha valorizzato soprattutto la diretta connessione tra la prestazione richiesta e l’attività istituzionale dell’Agenzia, che parrebbe sottrarre il caso alla teoria generale dei pubblici servizi, per collocarla all’interno degli affidamenti di pubbliche funzioni o di porzioni delle stesse.
Ciò riporta alla mente il servizio di accertamento, riscossione e liquidazione di tributi locali - remunerato direttamente dal Comune in proporzione al volume degli accertamenti compiuti e suscettibile di essere affidato a società mista in virtù dell’art. 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che rinvia alla disciplina dei servizi pubblici (3) - anche se nel caso ora in esame l’estraneità alla materia dei pubblici servizi locali è ancor più evidente, posto che la prestazione informatica resa dalla società non coinvolge in alcun modo gli utenti privati, essendo rivolta nei confronti dell’ente e nel suo esclusivo interesse, secondo lo schema classico dell’appalto di servizi (4).
Quest’ultima osservazione, peraltro, pone seri dubbi in merito alla conclusione favorevole cui è giunto il Consiglio di Stato in quanto la riconduzione alla materia degli appalti di servizi avrebbe dovuto comportare una piena sottoposizione ai principi concorrenziali previsti dalla Direttiva 2004/18/CE. Né tale assunto pare superabile mediante una ricostruzione della fattispecie in termini di “traslazione esterna di pubbliche funzioni”, come suggerito dall’AGEA e ritenuto dal Consiglio di Stato, posto che la prestazione richiesta alla società mista, risolvendosi nella raccolta e gestione informatica di dati, ha natura esclusivamente tecnico-strumentale e non pare assimilabile alla pubblica funzione, mentre la norma di legge che ne prevede l’affidamento diretto a società mista non ha valore dirimente, ben potendosi ipotizzarne l’incompatibilità comunitaria e la conseguente disapplicazione per contrasto con fonte di rango superiore.
Non sono questi, comunque, gli aspetti del parere che si intende in questa sede approfondire.
Quel che maggiormente interessa, invece, è la disamina generale sui servizi pubblici ed il relativo ruolo delle società miste, temi cui è stata dedicata la parte più importante della trattazione.
Il Supremo Collegio ha effettuato un’accurata analisi delle varie ipotesi di affidamento, distinguendo la figura dell’in house da quella della società mista.
Quest’ultima si caratterizzerebbe quale meccanismo autonomo di affidamento del servizio, non riconducibile al modello in house (del quale, peraltro, non potrebbe per definizione possedere i requisiti), ma non per questo necessariamente incompatibile con l’ordinamento comunitario.
Attraverso un’ampia analisi degli atti comunitari, e dopo aver confutato le tesi estreme, di tenore opposto (5), affacciatesi in dottrina, la II Sezione abbraccia l’impostazione intermedia (6), secondo cui la società mista può avere ancora un proprio spazio applicativo - in uno con la sua capacità di assicurare all’ente pubblico un controllo più pregnante sull’esercizio del servizio rispetto a quanto avviene nei modelli tipici dell’outsourcing - ma solo in presenza delle seguenti condizioni:
a) che al socio privato - fin dal momento della sua selezione, necessariamente concorrenziale - sia affidato (non il ruolo di mero finanziatore bensì) di esecutore materiale del servizio per il quale la società è stata costituita, servizio che deve sostanzialmente esaurire l’attività sociale;
b) che sia prevista, già all’atto della scelta concorrenziale del partner, una durata limitata dell’affidamento ed il conseguente rinnovo della gara alla scadenza.
In presenza di tali due condizioni, infatti, la II Sezione ritiene che si realizzi una “sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un socio industriale ed operativo, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio”. E rileva, inoltre, che - ove si richiedesse la gara (non solo per la scelta del socio ma anche) per l’affidamento del servizio alla società mista - si finirebbe per costruire “una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento” e ciò “condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative “tutta pubblica” e “tutta privata”.

3. L’evoluzione normativa dei servizi pubblici locali nell’ordinamento nazionale.

 



Ai fini di un compiuto inquadramento della fattispecie nell’attuale quadro ordinamentale, si rende necessario ricostruire sinteticamente le vicende normative della società mista, in parallelo con l’evoluzione dell’in house providing, di cui si tratterà nel paragrafo successivo.
Nell’ordinamento nazionale la storia della società mista si identifica principalmente con quella dei servizi pubblici locali.
Come noto la prima disciplina organica della materia si deve all’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142, poi modificato dall'articolo 17, comma 58, della legge 15 maggio 1997, n. 127, che prevedeva, quale modello di gestione del servizio, la società mista a prevalente capitale pubblico locale in alternativa, tra l’altro, alla concessione di servizi.
A seguito di una procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea, che riteneva tale assetto normativo in contrasto con i principi del Trattato CE posti a tutela della concorrenza (7), con l’art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 441, si era proceduto ad una radicale modificazione di tale disciplina, nel frattempo trasfusa nell’art. 113 TUEL, prevedendo quale sistema sostanzialmente unico di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale la società per azioni scelta mediante gara pubblica (8).
Tale impianto normativo è stato nuovamente modificato dall’art. 14 del decreto legge 30 settembre 2003 n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003 n. 326, nonché dall’art. 4, comma 234, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (9).
La nuova disciplina si caratterizza per la distinzione di fondo tra servizi a rilevanza economica e servizi che ne sono privi, nonché, nell’ambito dei primi, per l’analitica distinzione tra gestione delle reti e concreta erogazione del servizio, che può avvenire mediante società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica (art. 113, comma 5, lettera a) oppure attraverso società a capitale misto pubblico-privato (art. 113, comma 5, lettera b) o, ancora, per mezzo di società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano (comma 5, lettera c).
Il legislatore ha, quindi, riesumato il previgente modello della società mista, affidandone la compatibilità con i principi comunitari alla previsione di una gara per la scelta del partner privato, come già avveniva in passato.
La finalità sostanziale di tale “ritorno al passato” deve probabilmente ricercarsi nell’intento di legittimare le gestioni dirette esistenti, in massima parte affidate a società di capitali sorte in esito a privatizzazioni sostanziali mediante offerte pubbliche di vendita. Tanto è vero che l’articolato regime transitorio introdotto dal legislatore fa espressamente salvi gli affidamenti a società miste in cui il socio privato sia stato scelto mediante gara (11).
Occorre tenere conto, inoltre, che la società mista ha raccolto l’eredità della “vecchia “Azienda Speciale”, destinataria di affidamenti diretti e tradizionalmente considerata un plesso della struttura amministrativa], per cui è sembrato naturale che l’affidamento alla società mista, cui l’ente locale partecipa direttamente, dovesse essere strutturato in modo non dissimile.
Si è ritenuto, quindi, che l’attribuzione del servizio alla società mista potesse avvenire in modo diretto - senza alcun intervento dello strumento concessorio e dei connessi principi (quasi) concorrenziali (12) - ma, a quel punto, si sono posti rilevanti interrogativi in merito al meccanismo giuridico con cui si formalizza l’affidamento, descritto dal legislatore quale “contratto di servizio” (13).
Sta di fatto che la prassi ha mostrato un amplissimo impiego della società mista, utilizzata per attrarre capitali privati in luogo della concessione di servizi, non a caso scomparsa dall’elenco normativo dei moduli di gestione dei servizi pubblici locali di cui all’art. 113 TUEL (vedi supra).
Ma in parallelo ad interventi legislativi così dichiaratamente favorevoli alla società mista, si andavano nel frattempo componendo altri fattori destinati a comportarne, se non il radicale declino, certamente un futuro più incerto.
Si tratta di una linea evolutiva dettata essenzialmente dal diritto comunitario.
L’ostilità delle Istituzioni Europee nei confronti del modello societario misto, mai tradottasi in disposizioni normative espresse, si è manifestata secondo due diverse direttrici:
- le ripetute iniziative intraprese dalla Commissione Europea, che ha contestato l’art. 113 TUEL in diversi stadi della sua tormentata evoluzione testuale;
- la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, la quale - pur non avendo specificamente analizzato la principale peculiarità del modello italiano, che risiede nell’anticipazione della scelta concorrenziale alla fase “a monte” di scelta del partner (14) - è andata incontro ad un’evoluzione particolarmente restrittiva sull’in house providing, con il quale la società mista è stata ritenuta strutturalmente incompatibile, il che ne ha messo in discussione la stessa sopravvivenza.
Ciò detto, prima di introdurre qualche considerazione critica appare, quindi, necessario analizzare i termini fondamentali di tale evoluzione comunitaria, con specifico riguardo alle possibili interferenze tra il modello in house e quello societario misto.



4. Le società miste a confronto con l’in house providing, l’organismo di diritto pubblico e la concessione di servizi

 



La nascita dell’in house providing si fa generalmente coincidere con la sentenza 18 novembre 1999, in causa C-107-98 Teckal s.r.l., ove la Corte di Giustizia ebbe modo di chiarire che in materia di appalti di forniture, rispetto ai quali non opera l’art. 6 della Direttiva/92/50/CEE, la normativa sugli appalti trova generale applicazione, tranne si tratti di un affidamento (non ad un’entità soggettiva distinta dall’ente affidante bensì) ad un plesso organizzativo sul quale l’amministrazione eserciti un controllo analogo a quello operato sui propri servizi ed il quale realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che lo controllano. In presenza di tali due condizioni, infatti, quand’anche l’affidatario abbia formalmente personalità giuridica autonoma, non sarebbe dato ravvisare una relazione intersoggettiva, mancando così il presupposto fondamentale per l’applicazione delle norme sugli appalti.
Dopo questa sua prima formulazione l’in house providing ha “fatto molta strada”.
La mancanza di una base normativa espressa, quanto meno a livello comunitario, ha favorito una continua evoluzione del modello, divenuto per un verso più rigoroso e per altro in continua “espansione territoriale”.
Fin da subito la dottrina si è interrogata sul modo in cui dovesse essere esattamente inteso il requisito del controllo analogo (15).
Una prima tesi aveva ritenuto non indispensabile la titolarità del pacchetto azionario di maggioranza da parte dell’ente controllante, mentre si era attribuito carattere decisivo al “potere di nomina di nomina di amministratori e sindaci rappresentativi dell’assetto di interessi di cui il designante è portatore” (16).
Ma alla luce dei più recenti interventi della Corte di Giustizia, la dottrina è oggi sostanzialmente concorde nel ritenere che l’eccezione in house presuppone (non solo) il controllo totalitario iniziale da parte dell’ente pubblico (ma addirittura) la garanzia di una stabile permanenza dello stesso per tutta la durata dell’affidamento. Così come il controllo analogo non si configura ove sussistano altri fattori ostativi, quali l’attribuzione al consiglio di amministrazione di poteri troppo ampi in ordine a scelte fondamentali della gestione societaria o un oggetto sociale che finisca per attribuire all’ente una vocazione di fatto commerciale. Non si esclude, invece, la possibilità di una contitolarità del pacchetto azionario da parte di più enti pubblici, purché la struttura sociale consenta alla parte pubblica un’effettiva direzione dell’attività in forma congiunta (17).
Anche il secondo requisito indicato nella sentenza Teckal, cioè la realizzazione della parte più importante dell’attività con l'ente locale, è stato meglio precisato.
A fronte delle molte ricostruzioni dottrinali, basti rilevare che il requisito in esame presuppone un’assoluta marginalità (se non l’assenza) di attività svolta al di fuori dei rapporti con l’ente locale, in linea con la ratio del requisito, con cui si vuole, da un lato, garantire la par condicio fra le imprese di settore, al fine di evitare che la società in house possa operare liberamente sul mercato, finendo per assumere una posizione ingiustamente privilegiata rispetto ad altri operatori che non vantano un simile rapporto privilegiato con l’ente pubblico (18) e, dall’altro, giustificare sul piano funzionale l’affidamento diretto alla società in house.
A fronte di questa tendenza restrittiva sul piano dei presupposti, l’eccezione in house è andata incontro ad una notevole espansione sul piano dell’ambito applicativo.
La più recente evoluzione giurisprudenziale, infatti, l’ha portata ad “invadere” la tematica dei servizi pubblici, ben distinta da quella degli appalti ove l’istituto era nato.
La locuzione “con l’ente pubblico”, utilizzata nella sentenza Teckal ad indicare la necessaria direzione pubblicistica dell’attività, è stata, infatti, ritenuta compatibile con prestazioni rese direttamente agli utenti, di tal che l’in house providing ha fatto ingresso nelle più recenti vicende giurisprudenziali dei pubblici servizi (20).
Tale impostazione ha trovato conferma nell’art. 113 TUEL, nel quale - come già si è rilevato - si indica quale sistema di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica “c) la società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano”, previsione poi “bissata” in materia di servizi pubblici a rilevanza non economica.
Ciò ha comportato notevoli ricadute sistematiche.
L’estensione ai servizi pubblici del modello in house - per il quale si richiede ora, quale requisito minimo, la partecipazione totalitaria dell’ente pubblico, unitamente ad un particolare sistema operativo della società (vedi supra) - ha finito per porre in discussione la compatibilità comunitaria della società mista che, per definizione, non corrisponde ai requisiti del controllo analogo così inteso, se non altro per la presenza del partner privato nel pacchetto azionario.
È dato ormai pacifico, infatti, che la società mista sia priva dei requisiti in house e che la sua “compatibilità comunitaria” debba semmai ricercarsi altrove (21).
A quest’ultimo riguardo non appare possibile, peraltro, giustificare l’affidamento del servizio alla società mista mediante una sua riconduzione alla categoria dell’organismo di diritto pubblico (22), chiamando in causa l’art. 6 della Direttiva 92/50/CEE, poi trasfuso nell’art. 18 della Direttiva 2004/18/CE, secondo cui “La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a un'altra amministrazione aggiudicatrice o a un'associazione di amministrazioni aggiudicatrici in base a un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”.
Sul piano sostanziale perchè in tal modo si creerebbe il “rischio che la costituzione o la partecipazione di società a partecipazione pubblica divenga il metodo privilegiato per attribuire posizioni di privilegio attraverso l’affidamento diretto del servizio in assenza di alcuna motivazione in ordine alla necessarietà dell’esclusiva” (23).
Sul piano più strettamente logico-giuridico perché la società mista presenta caratteri non sempre collimanti con il terzo elemento caratterizzante l’organismo di diritto pubblico, quello cioè di soddisfare bisogni di carattere non industriale o commerciale: la società, infatti, è - per definizione - un modulo operativo finalizzato allo svolgimento di attività commerciale e su tale premessa vi è chi le nega una natura anche impropriamente pubblicistica, quanto meno ove operi “in regime ordinario” mediante “la produzione di beni e servizi destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza” (24). Ciò sulla base di una rilettura rigorosa, e sostanzialmente condivisibile, del terzo requisito dell’organismo di diritto pubblico, ove si attribuisca rilievo non solo alla finalità d’istituzione dell’ente, bensì ad una valutazione “dinamica” della sua attività, che tiene conto del modo in cui il soggetto concretamente opera sul mercato (25).
Non è questa la sede per approfondire tale problematica, ma a parere di chi scrive la riconduzione della società mista alla nozione di organismo di diritto pubblico, ancorché prospettabile in alcuni casi, non può giustificare una “deroga soggettiva” di carattere generale ai principi concorrenziali, anche perché la Corte di Giustizia concepisce questo tipo di deviazioni in termini assai ristretti, strettamente legati alla necessità, non altrimenti perseguibile, di tutelare interessi collettivi di rango superiore alla concorrenza (26).
Più sostenibile è, invece, l’idea di ricondurre a sistema la società mista facendo leva sulla selezione concorrenziale prevista per la scelta del partner privato, che potrebbe teoricamente costituire un valido meccanismo concorrenziale alternativo alla gara per affidamento del servizio alla società.
La tesi, per il vero, non è nuova, essendo stata prospettata quale modello generale fin dall’entrata in vigore della legge 142/1990, benché la gara per la scelta del socio privato fosse stata prevista dal legislatore solo con riferimento alla società mista con capitale pubblico minoritario.
Si tratta però di stabilire se tale meccanismo possa tuttora costituire, nel mutato contesto ordinamentale, un valido sistema di armonizzazione del modello con i principi del diritto comunitario.
Al riguardo non sembra potersi rinvenire una chiara risposta nelle pronunce del giudice comunitario.
Nelle varie occasioni in cui si è occupata di società miste (peraltro non sempre con riferimento alla materia dei pubblici servizi), infatti, la Corte di Giustizia non ha direttamente affrontato il profilo della scelta concorrenziale del partner (27).
A fronte di un quadro giurisprudenziale così ambiguo, la dottrina italiana è oggi profondamente divisa in merito alla sorte delle società miste.
Alcuni autori ritengono che il relativo modello non sia più compatibile con il diritto comunitario, che vieterebbe sistemi di affidamento del servizio non concorrenziali, al di fuori dello stretto ambito dell’eccezione in house (28).
In altre tesi si ritrovano, invece, maggiori aperture, pur con alcuni distinguo.
Vi è chi, ad esempio, ritiene che il diritto comunitario impedisca soltanto l’affidamento del servizio a preesistenti società miste, ma non anche a società ad hoc costituite, purché il socio privato sia scelto con gara (29).
Altri desumono la sopravvivenza del modello soprattutto dal Libro Verde della Commissione (30).
Ulteriori ricostruzioni condividono tale ultima osservazione ed esigono che la gara per la scelta del socio sia configurata in modo da attribuirgli un effettivo ruolo di “socio d’opera”, mediante partecipazione diretta all’esecuzione del servizio, il che consentirebbe di ricondurre la fattispecie ai canoni sostanziali dell’outsourcing, fino al punto di ravvisare - in rapporto di collegamento con la partecipazione societaria - un contratto di appalto o di concessione di servizi (31).
Ed è soprattutto a queste ultime tesi che pare essersi ispirata la II Sezione del Consiglio di Stato nel parere in commento, ove ha ritenuto “ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quanto meno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al socio operativo della società”
In ogni caso la questione resta quanto mai aperta, ove si consideri che proprio di recente il Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana è pervenuto “ad un interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio” (32).
A ciò si aggiunga un distinto, ma non meno rilevante, fattore di criticità, che a giudizio di chi scrive ha origine nella difficoltà di armonizzare, prima di tutto sul piano linguistico, gli interventi del giudice comunitario con la realtà normativa italiana.
Già si è rilevato che, nell’occuparsi di affidamento diretto di pubblici servizi a società miste, la Corte di Giustizia ha per prima cosa verificato la possibilità di applicare, nel caso concreto, l’eccezione in house.
Una volta esclusa questa possibilità, come di regola avvenuto con riferimento ai “casi italiani”, la Corte ha ricondotto le relative fattispecie alla concessione di servizi e vi ha ricollegato l’applicazione dei principi concorrenziali del Trattato CE (33).
Tale impostazione potrebbe ingenerare ulteriori dubbi sistematici in quanto alla concessione di servizi si riferisce ora una specifica disposizione nazionale, introdotta nell’art. 30 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che prevede una gara informale per la scelta del concessionario.
Sul piano strutturale una simile riconduzione non pare, peraltro, condivisibile.
Nel Libro Verde della Commissione pubblicato in data 30 aprile 2004, infatti, la concessione di servizi e l’affidamento a società mista sono contrapposti, appartenendo la prima al novero dei “parternariati contrattuali” (cui è ricondotto anche l’appalto di servizi) ed il secondo alla categoria dei “parternariati istituzionali”, che si basano sulla creazione di una soggettività ad hoc cui affidare stabilmente la gestione del servizio.
Può, quindi, ragionevolmente ipotizzarsi che in materia di affidamenti alle società miste il termine “concessione di servizi” sia stato utilizzato dalla Corte di Giustizia in un’accezione atecnica, per indicare non tanto lo specifico meccanismo di attribuzione del servizio quanto la generica presenza di un modello non in house, per il quale è doverosa l’applicazione di quel nucleo fondamentali di principi concorrenziali da tempo elaborati in materia di concessione di servizi.
Ma questa precisazione - seppur fondamentale ai fini di una corretta ricostruzione del sistema - non cancella il significato sostanziale dei pronunciati comunitari, sostanzialmente tendenti a stringere intorno ad una morsa sempre più stretta il modello societario misto, mediante la sua sottoposizione agli stessi principi garantistici originariamente elaborati dalla Corte proprio in materia di affidamento delle concessioni.

5. Lo stato attuale dell’ordinamento ed il contributo offerto dal parere in commento.

 



Le società miste, da sempre “in bilico tra pubblico e privato” (33), si basano sull’inserimento - in una struttura che nasce comunque strumentale all’ente pubblico - di un partner esterno, il che le pone autenticamente “a cavallo” tra la gestione diretta e l’outsourcing, come dimostra plasticamente la previsione, auspicata dalle istituzioni comunitarie ed adottata dal legislatore italiano, di una procedura selettiva per la scelta del partner.
Come già si è evidenziato, si discute ampiamente in ordine al se, ed a quali condizioni, questo canale alternativo, non incidente sull’affidamento del servizio (come avviene, invece, nella concessione), sia sufficiente a garantire in modo sufficiente la concorrenza.
Al riguardo è possibile indicare alcuni concetti fondamentali.
Un primo dato è che l’ordinamento comunitario reputa anticoncorrenziale l’affidamento ad una società mista preesistente all’istituzione del servizio, più precisamente, già in precedenza costituita per la gestione di altri e diversi servizi.
Ciò si desume dai pronunciati del giudice comunitario, che ha avuto modo di esaminare proprio casi di questo genere (34), e nella stessa direzione depone il Libro Verde pubblicato dalla Commissione in data 30 aprile 2004, ove si legge che “non affronteremo specificamente il caso delle imprese miste preesistenti che partecipano alle procedure d'aggiudicazione di appalti pubblici o di concessioni, poiché non si tratta di una situazione che possa suscitare discussioni riguardo al diritto comunitario applicabile. Il carattere misto di un'impresa che partecipa ad una procedura di appalto non implica infatti alcuna deroga alle norme applicabili nel quadro dell'aggiudicazione di un appalto pubblico o di una concessione” (35).
Più arduo è rinvenire indicazioni precise riguardo alla diversa ipotesi di società miste costituite ad hoc per l’affidamento del servizio.
Sul punto il Libro Verde del 30 aprile 2004, atto privo di carattere precettivo, ma dotato di indubbia valenza politico-interpretativa, contiene alcune osservazioni piuttosto articolate.
Ed infatti, pur rilevando che “L'operazione consistente nel creare un'impresa a capitale misto” esige che “sia garantito “il rispetto delle norme e dei principi derivanti da tale diritto (i principi generali del Trattato o, in alcuni casi, le disposizioni delle direttive”, la Commissione Europea non sembra voler escludere queste forme di parternariato, rilevando che “La cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni, che può adattare nel tempo in funzione delle circostanze, attraverso la propria presenza nella partecipazione azionaria e in seno agli organi decisionali dell'impresa comune. Essa permette inoltre al partner pubblico di sviluppare un’esperienza propria riguardo alla fornitura del servizio in questione, pur ricorrendo al sostegno di un partner privato”, per poi indicare, quale “condizione di compatibilità” del modello, l’attribuzione “di incarichi tramite un atto che può essere definito appalto pubblico o concessione. La scelta di un partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un'impresa mista non può dunque essere basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta - che economicamente è la più vantaggiosa - per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire. Infatti, in mancanza di criteri chiari ed oggettivi che permettano all'amministrazione aggiudicatrice di individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, l'operazione in capitale potrebbe costituire una violazione del diritto degli appalti pubblici e delle concessioni”.
Sembra, quindi, che l’affidamento diretto del servizio alla società mista sia possibile a patto che la scelta del partner privato avvenga (non solo) mediante selezione concorsuale (ma anche) in base alla preventiva individuazione del suo ruolo operativo (e non di mero finanziatore), cristallizzato nell’oggetto di gara, sede in cui i requisiti soggettivi e di validità dell’offerta dovranno essere tradotti in precisi requisiti di partecipazione e di valutazione qualitativa del progetto di gestione.
Tali assunti, che trovano conferma in una recente risoluzione del Parlamento Europeo (36) - ove si afferma espressamente che “se il primo bando di gara per la costituzione di un’impresa mista è risultato preciso e completo non è necessario un’ulteriore bando di gara”- sono alla base di una già richiamata tesi “intermedia” (37) e, soprattutto, del parere 456/2007 del Consiglio di Stato in commento, ove si indicano, quali condizioni che legittimano l’affidamento diretto del servizio alla società mista, il ruolo “d’opera” attribuito al partner privato e la durata limitata del relativo affidamento.
Il significato sistematico di quest’ultimo requisito si ravvisa nell’intento di evitare la chiusura del servizio alla concorrenza, mediante affidamenti “a tempo indeterminato”.
L’attribuzione al partner di un ruolo necessariamente operativo è riconducibile, invece, alla necessità di garantire al modulo societario misto una ratio propria - in grado di giustificarne la sopravvivenza quale sistema alternativo rispetto all’outsourcing - che il Consiglio di Stato identifica nell’esigenza “di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio”.
Si giunge, in tal modo, a configurare una sorta di “controllo semianalogo”, non così diretto come quello esercitabile dall’ente sui propri plessi organizzativi, ma comunque maggiore che nelle forme di pura esternalizzazione, come la concessione di servizi, il che, secondo la II Sezione, consente di coniugare “l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione”.
Tale sforzo ricostruttivo appare condivisibile, quanto meno nella parte in cui cerca di giustificare la “sopravvivenza” della società mista sulla base di elementi sostanziali, inerenti la sua peculiare funzione nella teoria dei servizi pubblici.
In ogni caso la direzione indicata dal Consiglio di Stato è quella di un utilizzo prudente e limitato dell’istituto, che deve trovare giustificazione in precise ragioni funzionali, oltre che nella predeterminazione di limiti in grado di evitare forme di alterazione del mercato.
Un rischio insito nel modello societario misto, infatti, risiede nella possibilità che si creino posizioni di privilegio commerciale, assicurate dall’introduzione di affidamenti a tempo indeterminato e dalla compresenza del partner pubblico e di quello privato, che possono vantare ciascuno “know how” differenti e complementari. Un rischio che riguarda non tanto il singolo servizio affidato alla società mista (rispetto al quale la selezione concorrenziale del partner e la durata predeterminata dell’affidamento potrebbero costituire degli efficaci correttivi), ma soprattutto il complessivo segmento di mercato nel quale lo stesso si inserisce, se non addirittura settori diversi, nei quali la società potrebbe trovarsi a fruire di pericolose posizioni di dominanza economica.
Esemplare, a riguardo, è la nota dialettica in ordine alla possibilità per le società miste di operare extra moenia (38)
In materia sono sorti diversi indirizzi giurisprudenziali, alcuni tendenti a legare tale possibilità alla permanenza di un collegamento funzionale tra il cd. servizio eccedente e le necessità della collettività locale (39), altri più ampliativi e propensi a riconoscerle un’ampia capacità operativa, legata alla sua natura ontologicamente imprenditoriale (40).
A prescindere da quale sia l’orientamento preferibile, resta il dato di una “intrinseca espansività” del modello societario pubblico, legato alla sua collocazione nella teoria generale d’impresa (41), che impongono la costruzione di una disciplina assai rigorosa dei relativi affidamenti.
In questa stessa direzione si sta muovendo, da ultimo, lo stesso legislatore italiano.
Si fa riferimento al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248 (cd. decreto Bersani), ove all’art. 13 si prevede un totale divieto per le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite per la produzione di beni e servizi nell’interesse degli enti che vi hanno dato vita, di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, con l’ulteriore precisazione che i relativi contratti sono nulli e che le società già operanti cessano le attività non consentite entro un anno dall’entrata in vigore della nuova disposizione.
Se è vero che la portata della norma è stata fortemente ridimensionata in sede di conversione del decreto, ove dal suo ambito applicativo sono stati esclusi i servizi pubblici locali, la descritta linea di tendenza trova conferma nel recente disegno di legge 4 luglio 2006, n. 772, di riforma dei servizi pubblici locali, attualmente all’esame del Parlamento, che risponde al dichiarato intento di adeguare l’ordinamento nazionale ai principi derivanti da quello comunitario.
In tale proposta normativa si prevede l’affidamento diretto a società miste o in house quale possibilità eccezionale, “ove ciò sia reso necessario da particolari situazioni di mercato, secondo modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati direttamente connesse alla gestione ed allo sviluppo degli specifici servizi pubblici locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive e la previsione di norme e clausole volte ad assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili conflitti di interesse”, con l’obbligo di motivare adeguatamente “le ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di ricorrere” a tali modalità di affidamento, in base ad una “previa analisi di mercato, soggetta a verifica da parte delle Autorità nazionali di regolazione dei servizi di pubblica utilità competenti per settore, ovvero, ove non costituite, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove si dimostri l’inadeguatezza dell’offerta privata” e con adozione, comunque, di un “programma volto al superamento, entro un periodo di tempo definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine”.
E soprattutto si prevede il divieto per le società in house e per “le imprese partecipate da enti locali, affidatarie della gestione di servizi pubblici locali, qualora usufruiscano di forme di finanziamento pubblico diretto o indiretto, fatta eccezione per il ristoro degli oneri connessi all’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico derivanti dalla gestione di servizi affidati secondo procedure ad evidenza pubblica” di acquisire la gestione di “servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quello di appartenenza”.
L’intento è quello di armonizzare il contesto normativo italiano con i principi del diritto comunitario, in un’ottica che riduce l’ambito operativo delle società miste (e delle stesse gestioni in house) ad ipotesi di comprovata inadeguatezza degli altri sistemi gestionali e ne circoscrive il campo operativo al ristretto ambito del servizio per cui sono state istituite.

6. Alcune considerazioni conclusive

 



Nei paragrafi precedenti chi scrive ha sostanzialmente condiviso le tesi propense a ritenere tuttora possibile l’affidamento diretto di servizi pubblici alle società miste, purché sussistano alcune condizioni relative al “ruolo operativo” richiesto al partner privato ed alla durata predeterminata dello stesso.
Tale impostazione, infatti, è apparsa (non tanto preferibile in assoluto bensì) la più aderente alle scarne indicazioni sistematiche provenienti dall’ordinamento comunitario.
È, quindi, apprezzabile, in quest’ottica, il tentativo del Consiglio di Stato di ricollegare l’utilizzo della società mista ad effettive esigenze operative, perché soddisfa l’ineludibile esigenza di “ricollegare il tipo ad una causa”, il che risulta vieppiù necessario in materia di soggetti formali, notoriamente inclini ad un utilizzo meramente strumentale e “di facciata”.
Deve ora rilevarsi, tuttavia, che la tesi fin qui sostenuta non è esente da possibili inconvenienti sistematici, il che dimostra come la questione in esame assomigli alla “quadratura del cerchio”, non facilmente risolvibile per via interpretativa.
La scelta di richiedere al partner privato un ruolo operativo, strutturando la gara finalizzata alla sua individuazione intorno a criteri di selezione qualitativa dei relativi progetti di gestione, avvicina la società mista ad un appalto (o, più precisamente, ad una concessione) di servizi, cioè agli strumenti del parternariato contrattuale.
Ma, se così è, che senso ha la sopravvivenza della società mista?
La sua funzione non potrebbe essere svolta, con pari efficacia, dall’appalto e/o dalla concessione di servizi?
Sul punto l’analisi dottrinale e giurisprudenziale non sembra essere stata sufficientemente approfondita.
Nel parere in commento si legge che il modello societario si presterebbe ad assicurare “un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio” e considerazioni non dissimili si traggono dal Libro Verde della Commissione (vedi supra).
Ma in cosa può consistere, in concreto, questo maggior controllo?
Non pare ragionevole ritenere che lo stesso - eletto dal Consiglio di Stato a ratio giustificativa e tratto differenziale del modello societario misto rispetto al parternariato contrattuale - possa efficacemente realizzarsi in virtù del semplice esercizio dei poteri di assemblea.
Ed infatti, pur potendosi ipotizzare che la società mista italiana sia essenzialmente a capitale pubblico maggioritario (42), restano comunque gli amplissimi poteri decisionali assicurati agli amministratori dalla recente riforma del diritto societario, cristallizzati nell’art. 2380 bis del codice civile e solo in parte compensati dai poteri assicurati al socio pubblico dall’art. 2449 dello stesso codice (43), che indubbiamente sminuiscono l’importanza dei poteri di controllo del socio in quanto tale.
Per cui l’esatta delineazione di questo speciale requisito, che abbiamo definito “controllo semianalogo” (vedi supra), pare presupporre ulteriori strumenti di influenza del socio pubblico sull’attività sociale (come, ad esempio, apposite clausole statutarie), il cui contenuto rimane, tuttavia, piuttosto oscuro. Senza contare che una simile ricostruzione del modello societario misto ne comporta il sostanziale riavvicinamento all’in house, proprio mentre si è ritenuto di differenziare nettamente le due figure.
Se poi si volge lo sguardo all’altra condizione richiesta dal Consiglio di Stato - l’esigenza, cioè, di limitare la capacità operativa della società ai ristretti confini del servizio per cui è stata creata ed a periodi temporali predeterminati - emergono problemi sistematici di non minor rilievo.
Tale obiettivo, infatti, se appare pienamente condivisibile sul piano degli interessi pubblici e di tutela del libero mercato, lo è meno sotto l’angolo visuale del diritto commerciale, nel quale la società è, per definizione, strumento di libero esercizio dell’attività imprenditoriale, tanto è vero che la materia è da sempre oggetto di opposte visioni d’insieme, a seconda dell’impostazione di partenza adottata.
E, inoltre, questa crescente limitazione del campo operativo delle società miste tende a riavvicinarle, da una parte, al terzo requisito dell’organismo di diritto pubblico (l’essere istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale) e, dall’altra, al secondo requisito del modello in house (il realizzare parte più importante dell’attività con l'ente pubblico), il che comporta il rischio di una gran “confusione sistematica”, che solo un deciso intervento normativo (o quanto meno giurisprudenziale) comunitario potrebbe ormai evitare.
In conclusione la natura “strumentale” della società mista - che si basa sull’adattamento di un istituto privatistico al perseguimento del pubblico interesse (44) - se da un lato può rendere necessarie alcune forzature ai principi generali dei due insiemi giuridici coinvolti, quello amministrativo e quello commerciale, non può legittimamente comportare uno stato di perenne incertezza, che favorisce un utilizzo distorsivo dello strumento nella prassi applicativa, ove spesso si registra l’inutile creazione di nuovi soggetti giuridici, con i connessi costi, non accompagnata dall’effettiva privatizzazione dei moduli operativi e dei sistemi di scelta e controllo del management.

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NOTE.
(1) Il che denota l’esistenza di incertezze sul significato prima di tutto lessicale di alcune espressioni, specie nell’uso che ne ha fatto la Corte di Giustizia: al riguardo non può che richiamarsi, da ultimo, l’elegante studio di L.R. Perfetti, Miti e realtà nella disciplina dei servizi pubblici locali, in Rivista Italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 387 segg.
(2) Consiglio di Stato, Sezione II, 13 dicembre 2006, n. 3162.
(3) Sul punto merita citazione Consiglio di Stato, Sezione V, 1 luglio 2005, n. 3672, (in Giornale di diritto amministrativo, 2006, pagg. 291 e segg., con commento di T. Bonetti), ove si giustifica l’affidamento senza gara ad una società mista dei servizi tributari, ricondotti alla nozione di pubblico servizio. Dalla lettura della sentenza, peraltro, emerge che la ratio fondamentale del decisum risiede in una “distinta ed autonoma normativa settoriale”, ove si rinvia espressamente alle procedure di affidamento dei servizi pubblici.
(4) Del resto “I Servizi informatici ed affini” figurano espressamente, al punto 7, nell’allegato II.A. al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e come tali sono soggetti alle regole concorrenziali da esso previste per l’affidamento degli appalti in virtù dell’art. 20, comma 2, del medesimo decreto legislativo, che richiama espressamente le prestazioni di cui all’allegato II.A. Analoga riconduzione era possibile in relazione ai “vecchi” allegati al decreto legislativo 157/1995.
(5) Vedi par. 5.
(6) Cfr. da ultimo Cavallo Perin - D. Casalini, L’in house providing, un’impresa dimezzata, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 60 e segg.
(7) Atto di messa in mora 8 novembre 2000, SG (2000) D/108243.
(8) In argomento vedi A. Graziano, La riforma e la controriforma dei servizi pubblici locali, in Urbanistica e appalti, 2005, pag. 1369 e segg..
(9) Per un’ampia analisi della relativa disciplina vedi, tra gli altri, G. Piperata, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano 2005, pagg. 223 e segg.
(10) In questi termini si pone, ad esempio, G. Piperata, op. cit, pag. 226.
(11) Cfr. A. Graziano, op cit., pagg. 1369.
(12) Tra gli altri, A. Graziano, Le società per azioni con partecipazione degli enti locali: affidamento di servizi e appalto di lavori pubblici, in Rivista trimestrale degli appalti, 1994, pagg. 601 e segg; F. Carigella, Corso di diritto amministrativo, Tomo I, pag. 663 e segg.; F. Luciani, La gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Diritto amministrativo, 1995, pagg. 275 e segg.
(13) Secondo alcuni autori, peraltro, questo tipo di affidamenti presupporrebbe un procedimento complesso, in cui non potrebbe dirsi del tutto assente il profilo pubblicistico: vedi, ad esempio, le riflessioni di G. Piperata, in Tipicità ed autonomia nei servizi pubblici cit, pag. 250, secondo cui il contratto di servizio…non sembra paragonabile ad un provvedimento concessorio, ma presenta caratteristiche tipiche di uno strumento negoziale di esecuzione di una decisione di organizzazione presa in sede amministrativa…”, il che sembra evocare le tesi di chi già ricollegava l’effetto “traslativo” all’atto amministrativo istitutivo della società: si allude a B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico, Milano, 2003.
(14) Vedi infra.
(15) Per un’ampia ricostruzione vedi, tra gli altri, F. Caringella, L’affidamento in house, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici, a cura di R. Garofoli - M.A. Sandulli, pagg. 231 e segg.; R. Villata, Pubblici servizi, Milano, 2006, pagg. 283 e segg.; da ultimo Cavallo Perin - D. Casalini, op. cit., pagg. 51 e segg.
(16) Cfr. ad esempio G. Mangialardi, La scelta del socio di minoranza nelle società miste, in Urbanistica e appalti, 2002, pagg. 418 e segg.
(17) Cfr. M.G. Roversi Monaco, I caratteri della gestione in house, in Giornale di diritto amministrativo, 2006, pag. 1371 e segg., che richiama T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 15 luglio 2005 n. 634 e T.A.R. Lombardia, Brescia, 5 dicembre 2005, n. 1250.
(18) M.G. Roversi Monaco, op. cit. pag. 1379.
(19) D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003, pagg. 265 e segg.; F. Caringella, L’affidamento in house cit., pagg. 343 e segg.
(20) In Corte di Giustizia, 25 ottobre 2005, in causa C-458/03, “Parking Brixen”, ad esempio, il modello in house è stato applicato all’affidamento di un servizio pubblico, per poi rilevarne l’insussistenza e, di conseguenza, l’illegittimità dell’affidamento diretto del servizio.
(21) Tale conclusione si trae con ragionevole certezza soprattutto da Corte di Giustizia 21 luglio 2005, in causa C-231/102 Parking Brixen, e da Corte di Giustizia 6 aprile 2006, in causa C-410-2004 ANAV. Ed è, inoltre, condivisa dal Consiglio di Stato nel parere 456/2007 in commento.
(22) Per un’ampia ricostruzione dell’organismo di diritto pubblico, e dei suoi rapporti con la società mista, vedi, tra gli altri, B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit.; D. Casalini, Organismo di diritto ed organizzazione in house cit.; R. Villata, Pubblici servizi cit.; da ultimo G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house: ampliamento o limitazione della concorrenza? In Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, pagg. 61 e segg.
(23) Così B. Mameli, l’organismo di diritto pubblico cit., pag. 138.
(24) Cfr., B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit., pag. 133.
(25) Cfr. G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti in house: ampliamento o limitazione della concorrenza? cit., pag. 67, il quale richiama la recente sentenza della Corte di Giustizia 22 maggio 2003, in causa C-18/01 Taitotalo.
(26) Sul tema vedi G. F. Cartei, I servizi di interesse economico generale fra riflesso dogmatico e regole di mercato, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, pagg. 1219 e segg., nonché, da ultimo, V. Cerulli Irelli, Impresa pubblica, fini sociali, servizi di interesse generale, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2006, pagg. 772 e segg.
(27) Un fugace riferimento si rinviene, per il vero, nella sentenza ANAV, ove ai capoversi 27-30 si legge che “27 Stando alle osservazioni scritte presentate alla Corte dall’AMTAB Servizio, il Comune di Bari ha deciso, in data 27 dicembre 2002, di cedere una partecipazione corrispondente all’80% delle azioni di tale società da esso detenute, e in data 21 maggio 2004 ha deciso di avviare, a tal fine, la procedura di gara ad evidenza pubblica per la selezione del socio privato di maggioranza. Tale informazione è stata confermata dall’ANAV nel corso dell’udienza dinanzi alla Corte. 28 Nella stessa udienza, però, il Comune di Bari ha sostenuto di aver rinunciato all’intenzione di cedere una parte delle proprie azioni dell’AMTAB Servizio. Esso avrebbe deciso, in data 13 gennaio 2005, di non dare seguito alla propria delibera precedente, e di non privatizzare più detta società. Tale provvedimento non sarebbe stato inserito nei documenti inviati dal giudice a quo in quanto adottato successivamente all’ordinanza di rinvio. 29 Spetta al detto giudice, e non alla Corte, chiarire se il Comune di Bari intenda aprire il capitale dell’AMTAB Servizio ad azionisti privati. Tuttavia, allo scopo di fornire a tale giudice elementi utili per risolvere la controversia sottopostagli, va precisato quanto segue. 30 Qualora, durante la vigenza del contratto di cui alla causa principale, il capitale dell’AMTAB Servizio fosse aperto ad azionisti privati, la conseguenza di ciò sarebbe l’affidamento di una concessione di servizi pubblici ad una società mista senza procedura concorrenziale, il che contrasterebbe con gli obiettivi perseguiti dal diritto comunitario”.
(28) Così, ad esempio, R. Ursi, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica tra outsourcing e in house providing, in Diritto amministrativo, 2005, pagg. 179 ss.
(29) Cfr. De Nictolis, 2005, Commento a Corte di Giustizia CE, I, 11.1.2005, n. 2603, C-26/03, Stadt Halle, in Urbanistica e Appalti, 2005, pag. 305,
(30) Lo spunto si deve soprattutto a E. Scotti, Organizzazione pubblica e mercato: società miste, in house providing e parternariato pubblico privato, in Diritto amministrativo 2005, pag. 947.
(31) Si allude al recente ed illuminante contributo di Cavallo Perin - D. Casalini, op. cit., pagg. 87-90.
(32) La sentenza del Supremo Collegio Siciliano è la 27 ottobre 2006, n. 589, espressamente richiamata nel parere in commento.
(33) L’espressione è di B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico cit., pag. 129.
(34) Vedi nota 27.
(35) Ed in ciò sembra trovare conferma lo spunto richiamato nella precedente nota 29.
(36) Si tratta della Risoluzione sui parternariati pubblico-privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni 26 ottobre 2006 (2006/2043), richiamata anche nel parere in commento.
(37) Vedi nota 31.
(38) Per un’ampia ricostruzione della problematica vedi, da ultimo, F. Caringella, In particolare, le società pubbliche, in i Contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di R. De Nictolis, Milano, 2007, pagg. 325 e segg.
(39) In questo senso si è espressa la stessa Corte di Giustizia, seppur in relazione al secondo requisito in house, con la sentenza 11 maggio 2006, in causa C- 340/04 Carbotermo; con specifico riferimento alla società mista vedi Consiglio Stato, Sezione IV, 29 settembre 2005, n. 5204.
(40) Consiglio di Stato, Sezione VI, 3 settembre 2001, n. 4586.
(41) Tanto è vero che analoghi problemi si sono posti anche per l’azienda speciale: cfr. F. Caringella, op. ult. cit., pag. 327.
(42) Ciò è sicuramente vero per la specifica fattispecie esaminata nel parere in commento, ove la partecipazione pubblica maggioritaria è prevista dal legislatore, ma dovrebbe valere, in via generale, anche per le società mista di gestione dei servizi pubblici locali, in virtù di un’applicazione a contrariis dell’art. 116 TUEL: cfr. R. Ursi, op. cit., pag. 187.
(43) Cfr. L.R. Perfetti, op cit., pag. 422.
(44) Cfr. F. Caringella, op. ult. cit., pagg. 280 e segg.

 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE - SEZIONE II - Sentenza 19 aprile 2007
Pres. Timmermans, Rel. Arestis

 

Comunità Europea – Direttive 92/50/CEE, 93/36/CEE e 93/37/CEE – Normativa nazionale che consente ad un’impresa pubblica di eseguire per diretto incarico da parte di amministrazioni pubbliche operazioni senza applicazione del regime generale d’aggiudicazione degli appalti pubblici – Struttura di gestione interna – Presupposti – L’autorità pubblica deve esercitare su di un ente distinto un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi – L’ente distinto deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’autorità pubblica o le autorità pubbliche che lo controllano

 

Le direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi.


SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)

19 aprile 2007 (*)

 



«Domanda di pronuncia pregiudiziale – Ricevibilità – Art. 86, n. 1, CE – Mancanza di portata autonoma – Elementi che consentono alla Corte di rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte – Direttive 92/50/CEE, 93/36/CEE e 93/37/CEE – Normativa nazionale che consente ad un’impresa pubblica di eseguire per diretto incarico da parte di amministrazioni pubbliche operazioni senza applicazione del regime generale d’aggiudicazione degli appalti pubblici – Struttura di gestione interna – Presupposti – L’autorità pubblica deve esercitare su di un ente distinto un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi – L’ente distinto deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’autorità pubblica o le autorità pubbliche che lo controllano»

Nel procedimento C-295/05,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunal Supremo (Spagna) con decisione 1° aprile 2005, pervenuta in cancelleria il 21 luglio 2005, nel procedimento tra

Asociación Nacional de Empresas Forestales (Asemfo)

e

Transformación Agraria SA (Tragsa),

Administración del Estado,

LA CORTE (Seconda Sezione),

 



composta dal sig. C.W.A. Timmermans, presidente di sezione, dal sig. R. Schintgen, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. G. Arestis (relatore) e L. Bay Larsen, giudici,

avvocato generale: sig. L.A. Geelhoed

cancelliere: sig. H. von Holstein, cancelliere aggiunto

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 giugno 2006,

considerate le osservazioni presentate:

– per l’Asociación Nacional de Empresas Forestales (Asemfo), dalla sig.ra D. P. Thomas de Carranza y Méndez de Vigo, procuradora, e dal sig.
R. Vázquez del Rey Villanueva, abogado;

– per la Transformación Agraria SA (Tragsa), dai sigg.
S. Ortiz Vaamonde e I. Pereña Pinedo, abogados;

– per il governo spagnolo, dal sig. F. Díez Moreno, in qualità di agente;

– per il governo lituano, dal sig. D. Kriaučiūnas, in qualità di agente;

– per la Commissione delle Comunità europee, dai sigg. X. Lewis e F. Castillo de la Torre, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 settembre 2006,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

 



1 La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda la questione di accertare se, alla luce dell’art. 86, n. 1, CE, uno Stato membro possa attribuire ad un’impresa pubblica uno status giuridico che le consenta di realizzare operazioni senza essere assoggettata alle direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (GU L 209, pag. 1), 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (GU L 199, pag. 1), e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori (GU L 199, pag. 54), e se il regime in parola sia in contrasto con tali direttive.

2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra l’Asociación Nacional de Empresas Forestales (in prosieguo: l’«Asemfo») e l’Administración del Estado relativamente ad una denuncia concernente il regime giuridico di cui gode la Transformación Agraria SA (in prosieguo: la «Tragsa»).

Contesto normativo

La normativa comunitaria

3 L’art. 1 della direttiva 92/50 era così formulato:

«Ai fini della presente direttiva s’intendono per:

a) “appalti pubblici di servizi” i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice (…)

(…)

b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico.

(…)».

4 L’art. 1 della direttiva 93/36 prevedeva quanto segue:

«Ai fini della presente direttiva si intendono per:

a) “appalti pubblici di forniture”, i contratti a titolo oneroso, aventi per oggetto l’acquisto, il leasing, la locazione, l’acquisto a riscatto con o senza opzione per l’acquisto di prodotti, conclusi per iscritto fra un fornitore (persona fisica o giuridica) e una delle amministrazioni aggiudicatrici definite alla lettera b). La fornitura di tali prodotti può comportare, a titolo accessorio, lavori di posa e installazione;

b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico.

(...)».

5 L’art. 1 della direttiva 93/37 era così formulato:

«Ai fini della presente direttiva:

a) gli “appalti pubblici di lavori” sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta tra un imprenditore e un’amministrazione aggiudicatrice di cui alla lettera b), aventi per oggetto l’esecuzione o, congiuntamente, l’esecuzione e la progettazione di lavori relativi ad una delle attività di cui all’allegato II o di un’opera di cui alla lettera c) oppure l’esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice;

b) si considerando “amministrazioni aggiudicatrici” lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o di tali organismi di diritto pubblico.

(…)».

La normativa nazionale

La legislazione sui pubblici appalti

6 La legge 18 maggio 1995, n. 13, relativa ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni (BOE 19 maggio 1995, n. 119, pag. 14601), nella sua versione codificata dal regio decreto legislativo 16 giugno 2000, n. 2 (BOE 21 giugno 2000, n. 148, pag. 21775; in prosieguo: la «legge 13/1995»), all’art. 152 recita quanto segue:

«1. L’amministrazione può realizzare opere avvalendosi dei suoi servizi interni e delle sue risorse di personale o di materiali, ovvero della collaborazione con imprese private, in quest’ultimo caso purché il valore economico delle opere in questione sia inferiore a (…), ove ricorra una delle seguenti condizioni:

a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve fare uso di siffatti strumenti.

(…)».

7 L’art. 194 della legge 13/1995 così dispone:

«1. L’amministrazione può fabbricare beni mobili avvalendosi dei suoi servizi interni e delle sue risorse di personale e di materiali, oppure in collaborazione con imprese private, in quest’ultimo caso purché l’importo dei lavori sia inferiore agli importi massimi previsti dall’art. 177, n. 2, ove ricorra una delle seguenti condizioni:

a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve fare uso di siffatti strumenti.

(…)».

Il regime giuridico della Tragsa

8 La costituzione della Tragsa è stata autorizzata dall’art. 1 del regio decreto 21 gennaio 1977, n. 379 (BOE 17 marzo 1977, n. 65, pag. 6202).

9 Il regime giuridico della Tragsa istituito da tale regio decreto ha subìto successive modifiche, fino all’adozione della legge 30 dicembre 1997, n. 66, recante misure fiscali, amministrative e sociali (BOE 31 dicembre 1997, n. 313, pag. 38589), quale modificata dalle leggi 30 dicembre 2002, n. 53 (BOE 31 dicembre 2002, n. 313, pag. 46086), e 30 dicembre 2003, n. 62 (BOE 31 dicembre 2003, n. 313, pag. 46874; in prosieguo: la «legge 66/1997»).

10 Ai sensi dell’art. 88 della legge 66/1997, intitolato «Regime giuridico»:

«1. [La Tragsa] è una società statale (…) che presta servizi essenziali in materia di sviluppo rurale e conservazione dell’ambiente, conformemente alle disposizioni della presente legge.

2. Le comunità autonome possono partecipare al capitale sociale della Tragsa tramite l’acquisto di azioni, la cui vendita dev’essere autorizzata dal Ministero delle Finanze, su proposta del Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione e del Ministero dell’Ambiente.

3. La Tragsa si occupa di:

a) realizzazione di ogni tipo di attività, lavori e prestazioni di servizi inerenti all’agricoltura, al settore zootecnico, alle foreste, allo sviluppo rurale, alla conservazione e difesa dell’ambiente fisico e naturale, all’acquicoltura e alla pesca, nonché delle attività necessarie al miglioramento dell’utilizzo e della gestione delle risorse naturali, segnatamente l’esecuzione di opere di conservazione e di valorizzazione del patrimonio storico spagnolo nelle campagne (…);

b) elaborazione di studi, piani, progetti e ogni genere di consulenza e assistenza tecnica e formazione in materia di agricoltura, foreste, sviluppo rurale, tutela e miglioramento dell’ambiente, aquicoltura e pesca, conservazione della natura, nonché in materia di utilizzo e gestione delle risorse naturali;

c) attività agricola, del settore zootecnico, forestale e del settore dell’acquicoltura e commercializzazione dei prodotti derivanti da dette attività, amministrazione e gestione di fattorie, montagne, centri agricoli, forestali, ambientali o di tutela della natura, nonché la gestione di spazi e risorse naturali;

d) promozione, sviluppo e adattamento di nuove tecniche, nuove attrezzature e sistemi a carattere agricolo, forestale, ambientale, per l’acquicoltura o la pesca, per la tutela della natura e sistemi diretti ad un utilizzo ragionato delle risorse naturali;

e) fabbricazione e commercializzazione di beni mobili che presentano tale carattere;

f) prevenzione e lotta contro le calamità e le malattie vegetali e animali e contro gli incendi forestali, nonché realizzazione di lavori e compiti di sostegno tecnico a carattere urgente;

g) finanziamento della costruzione o dell’uso di infrastrutture agricole, ambientali e delle attrezzature delle popolazioni rurali, nonché costituzione di società e partecipazione in società già costituite che hanno obiettivi in relazione con l’oggetto sociale dell’impresa;

h) realizzazione, su richiesta di terzi, di azioni, lavori, assistenza tecnica, consulenza e prestazioni di servizi in ambito rurale, di agricoltura, foreste e ambiente, all’interno e al di fuori del territorio nazionale, direttamente o attraverso le sue controllate.

4. In quanto strumento esecutivo e servizio tecnico dell’amministrazione, la Tragsa è tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle sue controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’Amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti, nelle materie che costituiscono l’oggetto sociale della società e, segnatamente, quelli che hanno carattere urgente o che sono stati ordinati in seguito alla constatazione di situazioni urgenti.

(…)

5. Né la Tragsa né le sue controllate possono partecipare alle procedure di aggiudicazione di appalti disposte dalle amministrazioni pubbliche di cui sono strumenti. Tuttavia, in mancanza di offerenti, alla Tragsa può essere affidata l’esecuzione dell’attività oggetto della gara di pubblico appalto.

6. L’importo delle opere di ampia portata, dei lavori, dei progetti, degli studi e delle forniture realizzati per mezzo della Tragsa è stabilito applicando alle parti eseguite le tariffe corrispondenti, le quali devono essere fissate dall’amministrazione competente. Le tariffe in parola sono calcolate in modo da riflettere i costi di realizzazione effettivi e la loro applicazione alle parti eseguite ha la funzione di giustificativo dell’investimento o dei servizi realizzati.

7. I contratti per lavori, forniture, consulenza e assistenza e servizi che la Tragsa e le sue controllate stipulano con terzi sono assoggettati alle disposizioni della [legge 13/1995], per quanto riguarda la pubblicità, le procedure di aggiudicazione e le relative modalità, a condizione che l’importo degli appalti sia uguale o superiore a quelli fissati agli artt. 135, n. 1, 177, n. 2, e 203, n. 2, della [detta legge]».

11 Il regio decreto 5 marzo 1999, n. 371, che stabilisce il regime della Tragsa (BOE 16 marzo 1999, n. 64, pag. 10605), precisa il regime giuridico, economico e amministrativo di tale società e delle sue controllate nei rapporti con le amministrazioni pubbliche in materia di azione amministrativa sul territorio nazionale o al di fuori di esso, nella loro qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di tali amministrazioni.

12 Secondo l’art. 2 del regio decreto 371/1999, il capitale sociale della Tragsa è detenuto totalmente da soggetti di diritto pubblico.

13 L’art. 3 del detto regio decreto, intitolato «Regime giuridico», dispone quanto segue:

«1. La Tragsa e le sue controllate rappresentano uno strumento esecutivo interno e un servizio tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna delle comunità autonome interessate.

I vari dipartimenti o ministeri delle comunità autonome delle amministrazioni pubbliche in questione, così come gli organismi pubblici da esse dipendenti e gli enti di qualsiasi natura ad esse connessi ai fini della realizzazione dei loro piani d’intervento, possono incaricare la Tragsa o le sue controllate dei lavori e delle attività necessarie per l’esercizio delle loro competenze e missioni, nonché dei lavori e delle attività complementari o accessorie conformemente al regime stabilito dal presente regio decreto.

2. La Tragsa e le sue controllate devono realizzare i lavori e le attività loro affidati dall’amministrazione. Tale obbligo concerne, esclusivamente, gli incarichi loro affidati in quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico nelle materie rientranti nel suo oggetto sociale.

3. Gli interventi urgenti decisi nell’ambito di catastrofi o calamità di qualsiasi genere ad esse affidati dall’amministrazione competente hanno per la Tragsa e le sue controllate carattere, oltre che obbligatorio, prioritario.

Nelle situazioni di urgenza, in cui le autorità pubbliche debbano agire immediatamente, queste ultime potranno disporre direttamente della Tragsa e delle sue controllate e ordinare gli interventi necessari ad assicurare la tutela più efficace possibile delle persone e dei beni, nonché il mantenimento dei servizi.

A tal fine, la Tragsa e le sue controllate saranno integrate ai dispositivi esistenti di prevenzione dei rischi ed ai piani di intervento, e dovranno attenersi ai protocolli d’applicazione. In situazioni di tal genere, se richieste, dovranno mobilitare tutti i mezzi di cui dispongono.

4. Nell’ambito dei loro rapporti di collaborazione o cooperazione con altre amministrazioni o enti di diritto pubblico, le amministrazioni pubbliche possono proporre i servizi della Tragsa e delle sue controllate, considerate come loro strumento esecutivo interno, affinché le dette altre amministrazioni o enti di diritto pubblico le utilizzino quale loro strumento esecutivo interno (…).

5. (…) Le funzioni di organizzazione, sorveglianza e controllo della Tragsa e delle sue controllate sono esercitate dal Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione e dal Ministero dell’Ambiente.

6. I rapporti della Tragsa e delle sue filiali con le amministrazioni pubbliche, nella loro qualità di strumento interno e servizio tecnico, hanno natura strumentale e non contrattuale. Pertanto, a tutti gli effetti, essi hanno carattere interno, dipendente e subordinato».

14 L’art. 4 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime economico», è formulato nel modo seguente:

«1. Conformemente all’art. 3 del presente regio decreto, quale corrispettivo per i lavori, l’assistenza tecnica, le consulenze, le forniture e la prestazione di servizi ad essa affidati, la Tragsa e le sue filiali ricevono un importo corrispondente alle spese da loro sostenute, in applicazione del sistema tariffario stabilito nel presente articolo (…)

2. Le tariffe sono calcolate e applicate sulla base di parti di esecuzione ed in modo da riflettere i costi effettivi e complessivi di realizzazione di queste ultime, sia diretti, sia indiretti.

(…)

7. Le nuove tariffe, la modificazione di quelle esistenti, così come le procedure, i meccanismi e le formule di revisione sono adottati da ogni amministrazione pubblica di cui la Tragsa e le sue controllate costituiscono strumento interno e servizio tecnico.

(…)».

15 Infine, l’art. 5 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime amministrativo d’intervento», prevede quanto segue:

«1. Gli interventi obbligatori affidati alla Tragsa o alle sue controllate sono oggetto, a seconda dei casi, di progetti, relazioni o altri documenti tecnici (…)

2. Prima di definire l’incarico, gli organi competenti approvano tali documenti e seguono le procedure obbligatorie, gli adempimenti formali tecnici, giuridici, di bilancio e di controllo e approvazione della spesa.

3. L’incarico relativo ad ogni intervento obbligatorio è comunicato formalmente alla Tragsa o alle sue controllate dall’amministrazione, per mezzo di una richiesta contenente, oltre alle informazioni utili, la denominazione dell’amministrazione, il termine per la realizzazione, il suo importo, la voce di bilancio corrispondente e, se del caso, le annualità sulle quali il finanziamento è ripartito e il rispettivo importo afferente, nonché il direttore designato per l’intervento da realizzare. (…)

(…)».

Causa principale e questioni pregiudiziali

16 I fatti, come risultano dalla decisione di rinvio, possono essere riassunti nella maniera seguente.

17 Il 23 febbraio 1996 l’Asemfo ha presentato una denuncia nei confronti della Tragsa, diretta a far constatare l’abuso, da parte di quest’ultima, della propria posizione dominante sul mercato spagnolo dei lavori, dei servizi e progetti forestali, a causa del mancato rispetto delle procedure di aggiudicazione previste dalla legge 13/1995. Secondo detta associazione, lo speciale regime della Tragsa le consentirebbe di effettuare un grande numero di operazioni su incarico diretto dell’amministrazione, in violazione dei principi relativi all’aggiudicazione degli appalti pubblici ed alla libera concorrenza, con la conseguenza di eliminare qualsiasi concorrenza sul mercato spagnolo. In quanto impresa pubblica ai sensi del diritto comunitario, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato relativamente alle disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il pretesto che si tratterebbe di un servizio tecnico dell’amministrazione.

18 Con decisione dell’autorità competente del 16 ottobre 1997, la denuncia in questione è stata respinta, con la motivazione che la Tragsa sarebbe un servizio interno dell’amministrazione, privo di autonomia decisionale e obbligato a realizzare i lavori commissionati. Operando detta società fuori dal mercato, la sua attività non sarebbe soggetta al diritto della concorrenza.

19 Tale decisione è stata oggetto di ricorso da parte dell’Asemfo dinanzi al Tribunal de Defensa de la Competencia (Tribunale spagnolo competente per le questioni di concorrenza). Con sentenza 30 marzo 1998 detto giudice ha respinto il ricorso in parola, considerando che le opere realizzate dalla Tragsa sono eseguite dall’amministrazione stessa e che, pertanto, si potrebbe configurare una violazione del diritto della concorrenza solo in caso di un operato autonomo di tale società.

20 L’Asemfo ha proposto un ricorso avverso tale sentenza dinanzi all’Audiencia Nacional (Tribunale spagnolo competente per l’intero territorio in determinati ambiti penali amministrativi e della legislazione sociale), che, a sua volta, ha confermato la decisione di primo grado con sentenza 26 settembre 2001.

21 L’Asemfo ha proposto ricorso per cassazione avverso detta decisione dinanzi al Tribunal Supremo (Corte di cassazione spagnola), sostenendo che la Tragsa, in qualità di impresa pubblica, non potrebbe essere qualificata come servizio interno dell’amministrazione, posizione che le consentirebbe di derogare alle disposizioni relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, e che il regime giuridico della società di cui trattasi, quale definito all’art. 88 della legge 66/1997, sarebbe incompatibile con la normativa comunitaria.

22 Dopo aver constatato che la Tragsa costituisce un ente di cui dispone l’amministrazione e che detta società si limita ad eseguire gli ordini delle amministrazioni pubbliche, senza poterli rifiutare né stabilire i prezzi e i costi dei suoi interventi, il Tribunal Supremo ha espresso dubbi sulla compatibilità del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario alla luce della giurisprudenza della Corte sull’applicabilità alle imprese pubbliche delle disposizioni di quest’ultimo in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e della libera concorrenza.

23 Inoltre, ricordando che, nella sentenza 8 maggio 2003, causa C-349/97, Spagna/Commissione (Racc. pag. I 3851), la Corte, relativamente alla Tragsa, ha dichiarato che detta società dev’essere considerata come un modo diretto di agire da parte dell’amministrazione, il giudice del rinvio precisa che, nella controversia ad esso sottoposta, vi sono circostanze di fatto di cui la decisione in parola non ha tenuto conto, quali la considerevole partecipazione dell’impresa pubblica al mercato delle opere di natura agricola, che causa una distorsione rilevante dello stesso, per quanto l’operato di tale impresa sia de iure estraneo al mercato, poiché, dal punto di vista giuridico, sarebbe l’amministrazione medesima ad esercitare l’attività.

24 In tale contesto, il Tribunal Supremo ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se, ai sensi dell’art. [86 CE], n. 1, sia ammissibile che uno Stato membro dell’Unione europea attribuisca con legge ad un’impresa pubblica uno status giuridico che le consenta di realizzare opere pubbliche senza essere assoggettata alla disciplina generale sugli appalti della pubblica amministrazione aggiudicati mediante gara quando non sussistano circostanze speciali di urgenza o interesse generale, indipendentemente se superino o meno la soglia economica prevista dalle direttive comunitarie a tal proposito.

2) Se un tale regime giuridico sia compatibile con quanto stabilito nelle direttive 93/36 (…) e 93/37 (…), nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 1997, 97/52/CE [GU L 328, pag. 1], e nella direttiva della Commissione [13 settembre 2001,] 2001/78/CE [GU L 285, pag. 1], che modifica le direttive precedenti – normativa recentemente coordinata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, [relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114)].

3) Se le affermazioni della sentenza (…) Spagna/Commissione siano applicabili in ogni caso alla Tragsa e alle sue filiali, anche qualora si tenga in considerazione la restante giurisprudenza della Corte in materia di appalti pubblici, e si consideri che l’amministrazione affida alla Tragsa un elevato numero di opere, le quali sono sottratte al regime della libera concorrenza, e che tale circostanza potrebbe comportare una distorsione significativa del mercato rilevante».

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla ricevibilità

25 La Tragsa, il governo spagnolo e la Commissione delle Comunità europee contestano la competenza della Corte a statuire sulla domanda di pronuncia pregiudiziale e avanzano dubbi sulla ricevibilità delle questioni sottoposte dal giudice del rinvio facendo appello a diversi argomenti.

26 Innanzi tutto, tali questioni verterebbero unicamente sulla valutazione di provvedimenti nazionali e, pertanto, non rientrerebbero nella sfera di competenza della Corte.

27 In secondo luogo, dette questioni sarebbero ipotetiche in quanto dirette a dirimere problemi non pertinenti ed estranei alla soluzione della causa principale. Se il solo motivo richiamato dall’Asemfo consiste nella violazione delle norme relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, tale violazione non consentirebbe di per sé di affermare che la Tragsa abusi di una posizione dominante sul mercato. Inoltre, non parrebbe che la Corte possa essere indotta ad interpretare le direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici nell’ambito di un procedimento nazionale diretto ad accertare se la società in parola abbia abusato di un’asserita posizione dominante.

28 Infine, l’ordinanza di rinvio non conterrebbe alcuna informazione relativa al mercato rilevante né alla pretesa posizione dominante della Trasga rispetto ad esso. La decisione in parola non riporterebbe neanche un’analisi dettagliata sulla questione dell’applicabilità dell’art. 86 CE e non menzionerebbe nulla circa l’applicazione combinata di quest’ultimo con l’art. 82 CE.

29 Occorre in primo luogo ricordare che, secondo costante giurisprudenza, benché, nell’ambito di un procedimento ex art. 234 CE, non spetti alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità di norme del diritto interno con disposizioni del diritto comunitario, posto che l’interpretazione delle norme nazionali incombe ai giudici nazionali, la Corte è comunque competente a fornire a questi ultimi tutti gli elementi d’interpretazione propri del diritto comunitario che consentano loro di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa comunitaria (sentenza 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson, Racc. pag. I-8613, punti 34 e 35 nonché giurisprudenza ivi citata).

30 In secondo luogo, secondo giurisprudenza altrettanto costante, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali stabilita dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Pertanto, dal momento che le questioni poste dei giudici nazionali riguardano l’interpretazione di una norma del diritto comunitario, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire (v., in particolare, sentenze 1º aprile 2004, causa C-286/02, Bellio F.lli, Racc. pag.
I 3465, punto 27, e 14 dicembre 2006, causa C-217/05, Confederación Española de Empresarios de Estaciones de Servicio, Racc. pag. I-0000, punti 16 e 17 nonché giurisprudenza ivi citata).

31 In terzo luogo, secondo una giurisprudenza consolidata, il rigetto di una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario chiesta da tale giudice non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica o la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza 23 novembre 2006, causa C-238/05, Asnef-Equifax e Administración del Estado, Racc. pag. I-11125, punto 17 e giurisprudenza ivi citata).

32 Inoltre, la Corte ha altresì dichiarato che l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno l’ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate (sentenze 9 novembre 2006, causa C-205/05, Nemec, Racc. pag.
I-0000, punto 25, e Confederación Española de Empresarios de Estaciones de Servicio, cit., punto 26 e giurisprudenza ivi citata).

33 A tal proposito, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioni e il diritto nazionale applicabile alla controversia (sentenze Nemec, cit., punto 26, e 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C 202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-0000, punto 38).

34 Nella causa principale, se è pur vero che la Corte non può pronunciarsi sulla compatibilità, in quanto tale, del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario, nulla le impedisce di fornire gli elementi interpretativi tratti dal diritto comunitario che consentiranno al giudice a quo di decidere esso stesso sulla compatibilità del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario.

35 In tale contesto occorre verificare se, alla luce della giurisprudenza citata ai precedenti punti 31 33 della presente sentenza, la Corte dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte.

36 Riguardo alla seconda e alla terza questione, va osservato che la decisione di rinvio espone, sinteticamente ma con precisione, gli antefatti della causa principale e le disposizioni rilevanti del diritto nazionale applicabile.

37 Da detta decisione, infatti, risulta chiaramente che la controversia di cui trattasi è sorta in seguito ad una denuncia dell’Asemfo relativa al regime giuridico della Tragsa, dal momento che quest’ultima, a giudizio della ricorrente nella causa principale, poteva eseguire un gran numero di lavori per diretto incarico da parte dell’amministrazione, e senza il rispetto delle previsioni in materia di pubblicità stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici. Nell’ambito di tale procedimento, l’Asemfo sostiene altresì che, in quanto impresa pubblica, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato relativamente alle disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il pretesto che si tratterebbe di un servizio tecnico dell’amministrazione.

38 Inoltre, nell’ambito della seconda e della terza questione, la decisione di rinvio, con riferimento alla giurisprudenza della Corte, espone, da un lato, i motivi per cui il giudice a quo chiede l’interpretazione delle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici nonché, dall’altro, il nesso fra la normativa comunitaria pertinente e la legislazione nazionale applicabile in materia.

39 Quanto alla prima questione, relativa alla circostanza di accertare se il regime della Tragsa sia in contrasto con l’art. 86, n. 1, CE, occorre ricordare che, secondo tale articolo, gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del trattato CE, specialmente a quelle contemplate dagli artt. 12 CE e da 81 CE a 89 CE incluso.

40 Dalla chiara formulazione dell’art. 86, n. 1, CE risulta che detta disposizione non ha portata autonoma, nel senso che essa dev’essere letta in combinato con le previsioni rilevanti nel caso di specie del Trattato.

41 Dalla decisione di rinvio discende che la disposizione pertinente considerata dal giudice del rinvio è l’art. 86, n. 1, CE, in combinato con l’art. 82 CE.

42 A tale proposito va constatato che nella decisione di rinvio non vi sono indicazioni precise riguardo all’esistenza di una posizione dominante, al relativo sfruttamento abusivo di quest’ultima da parte della Tragsa e all’impatto di detta posizione sul commercio fra Stati membri.

43 Inoltre, pare che, con la prima questione, il giudice del rinvio consideri, in sostanza, le operazioni idonee ad essere qualificate come appalti pubblici, presupposto sul quale, in ogni caso, la Corte è invitata a pronunciarsi nell’ambito della seconda questione.

44 Da quanto precede risulta, quindi, che, contrariamente al caso della seconda e della terza questione, la Corte non dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere utilmente alla prima questione.

45 Ne consegue che, se la prima questione dev’essere dichiarata irricevibile, la domanda di pronuncia pregiudiziale è ricevibile per quanto riguarda le due altre questioni.

Nel merito

Sulla seconda questione

46 Con la seconda questione, il giudice a quo chiede alla Corte se le direttive 93/36 e 93/37, come modificate dalle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, ostino ad un regime giuridico come quello di cui gode la Tragsa, che le consente di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola.

47 In via preliminare, va constatato che, nonostante i richiami operati dal giudice del rinvio alle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, tenuto conto sia del contesto e della data dei fatti della causa principale, sia della natura delle attività della Tragsa quale precisata all’art. 88, n. 3, della legge 66/1997, occorre esaminare detta seconda questione alla luce delle previsioni stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, vale a dire le direttive 92/50, 93/36 e 93/37, pertinenti nel caso di specie.

48 A tale riguardo giova ricordare che, secondo le definizioni di cui all’art. 1, lett. a), delle direttive citate al punto precedente, un appalto pubblico di servizi, di forniture o di lavori presuppone l’esistenza di un contratto a titolo oneroso, stipulato in forma scritta tra, da un lato, un prestatore di servizi, un fornitore o un imprenditore e, dall’altro, un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dello stesso art. 1, lett. b), delle dette direttive.

49 Nel caso di specie va constatato innanzi tutto che, ai sensi dell’art. 88, nn. 1 e 2, della legge 66/1997, la Tragsa è una società statale al cui capitale sociale possono partecipare anche le comunità autonome. Il medesimo art. 88, n. 4, e l’art. 3, n. 1, primo comma, del regio decreto 371/1999 precisano che la Tragsa è strumento esecutivo interno e servizio tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna delle comunità autonome interessate.

50 Inoltre, come risulta dagli artt. 3, nn. 2 5, e 4, nn. 1, 2 e 7, del regio decreto 371/1999, la Tragsa deve realizzare gli incarichi ad essa affidati dall’amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli enti pubblici da queste ultime dipendenti, nelle materie rientranti nel suo oggetto sociale, senza avere la possibilità di fissare liberamente il costo dei suoi interventi.

51 Infine, secondo l’art. 3, n. 6, del detto regio decreto, i rapporti della Tragsa con gli enti pubblici in questione, rappresentando tale società uno strumento esecutivo interno e un servizio tecnico di queste ultime, non hanno natura contrattuale, bensì, sotto tutti gli aspetti, carattere interno, dipendente e subordinato.

52 L’Asemfo sostiene che il rapporto giuridico che discende dagli ordini ricevuti dalla Tragsa, nonostante esso abbia formalmente carattere unilaterale, sarebbe nella realtà dei fatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, un legame contrattuale incontestabile con l’accomandatario. A tale proposito, l’Asemfo fa riferimento alla sentenza 12 luglio 2001, causa C 399/98, Ordine degli Architetti e a. (Racc. pag. I 5409). In siffatto contesto, benché la Tragsa sembri agire su ordine delle amministrazioni pubbliche, essa sarebbe in effetti contraente dell’amministrazione, così che dovrebbero essere applicate le norme relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici.

53 A tale riguardo occorre ricordare che, al punto 205 della citata sentenza Spagna/Commissione, la Corte, in un contesto diverso da quello della causa principale, ha dichiarato che la Tragsa, nella sua veste di ente strumentale e di servizio tecnico dell’amministrazione spagnola, è tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle proprie controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti.

54 Giova osservare che, se la Tragsa non dispone di alcun margine di libertà, né in merito al seguito da dare ad un incarico da parte delle amministrazioni competenti in parola, né quanto alle tariffe applicabili alle sue prestazioni, il che spetta al giudice del rinvio accertare, la condizione per applicare le direttive di cui trattasi relativa all’esistenza di un contratto non è soddisfatta.

55 In ogni caso, va ricordato che, secondo costante giurisprudenza della Corte, il ricorso alla gara d’appalto, conformemente alle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, non è obbligatorio, anche quando il contraente è un ente giuridicamente distinto dall’amministrazione aggiudicatrice, qualora due condizioni siano soddisfatte. Da un lato, l’amministrazione pubblica, che è un’amministrazione aggiudicatrice, deve esercitare sull’ente distinto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e, dall’altro, l’ente di cui trattasi deve svolgere la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti pubblici che lo detengono (v. sentenze 18 novembre 1999, causa C 107/98, Teckal, Racc. pag. I 8121, punto 50; 11 gennaio 2005, causa C 26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, Racc. pag. I-1, punto 49; 13 gennaio 2005, causa C 84/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-139, punto 38; 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punto 34, e 11 maggio 2006, causa C 340/04, Carbotermo e Consorzio Alisei, Racc. pag. I 4137, punto 33).

56 Di conseguenza, occorre verificare se le due condizioni richieste dalla giurisprudenza citata al punto precedente siano soddisfatte relativamente alla Tragsa.

57 Per quanto riguarda la prima condizione, attinente al controllo dell’amministrazione pubblica, dalla giurisprudenza della Corte risulta che il fatto che l’amministrazione aggiudicatrice detenga, da sola o insieme ad altri enti pubblici, l’intero capitale di una società aggiudicataria potrebbe indicare, pur non essendo decisivo, che l’amministrazione aggiudicatrice in questione esercita su detta società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (sentenza Carbotermo e Consorzio Alisei, cit., punto 37).

58 Nella causa principale, dagli atti risulta, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che il 99% del capitale sociale della Tragsa è detenuto dallo Stato spagnolo stesso, per mezzo di un’impresa di partecipazione e di un fondo di garanzia, e che quattro comunità autonome, ognuna delle quali in possesso di un’azione, detengono l’1% di detto capitale.

59 A tale riguardo, non può essere accolta la tesi secondo la quale la condizione di cui trattasi sarebbe soddisfatta solamente rispetto agli appalti effettuati su incarico dello Stato spagnolo, con esclusione di quelli oggetto di incarichi delle comunità autonome, rispetto alle quali la Tragsa dovrebbe essere considerata come un terzo.

60 Pare, infatti, discendere dagli artt. 88, n. 4, della legge 66/1997 nonché 3, nn. 2 6, e 4, nn. 1 e 7, del regio decreto 371/1999 che la Tragsa è tenuta ad eseguire gli incarichi ad essa affidati dalle amministrazioni pubbliche, comunità autonome incluse. Sembra altresì evincersi da tale normativa nazionale che, come per ciò che concerne lo Stato spagnolo, nell’ambito delle sue attività con queste ultime in quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico, la Tragsa non ha la possibilità di stabilire liberamente il costo dei suoi interventi e che i suoi rapporti con le dette comunità non sono di natura contrattuale.

61 Sembra quindi che la Tragsa non possa essere considerata come un terzo rispetto alla comunità autonome che detengono una parte del suo capitale sociale.

62 Per quanto riguarda la seconda condizione, relativa alla circostanza che la parte essenziale dell’attività della Tragsa dev’essere realizzata con l’ente o gli enti pubblici che controllano detta società, dalla giurisprudenza risulta che, nel caso in cui diversi enti locali detengano un’impresa, la condizione in parola può essere soddisfatta qualora l’impresa in questione svolga la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo o quell’ente locale ma con tali enti complessivamente considerati (sentenza Carbotermo e Consorzio Alisei, cit., punto 70).

63 Come risulta dal fascicolo, nella causa principale la Tragsa realizza mediamente più del 55% della sua attività con le comunità autonome e circa il 35% con lo Stato. Appare dunque che la parte più importante dell’attività della società di cui trattasi è realizzato con gli enti e gli organismi pubblici che la controllano.

64 Alla luce di quanto precede, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, va rilevato che le due condizioni richieste dalla giurisprudenza citata al punto 55 della presente sentenza ricorrono nel caso di specie.

65 Dalle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la seconda questione dichiarando che le direttive 92/50, 93/36 e 93/37 non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Tragsa, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi.

Sulla terza questione

66 Alla luce della soluzione data alla seconda questione sottoposta dal giudice del rinvio, non occorre risolvere la terza questione.

Sulle spese

67 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:

Le direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi.

Firme


 

GIUSEPPE FRANCO FERRARI


Un raro esempio di controllo analogo


Asociación Nacional de Empresas Forestales (Asemfo) C-295/05

 

1. La decisione in esame rappresenta l’ultimo (per ora) anello della catena di pronunce in punto di house providing. Essa si segnala soprattutto, oltre che per la disamina delle tematiche processuali relative alle questioni di ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, per l’individuazione di un caso di controllo analogo ai fini del c.d. primo requisito Teckal in materia di in-house providing. L’eccezionalità del caso sotto quest’ultimo profilo si spiega con il fatto che, salvo errore, si tratta del primo ed unico – ma v. già Commissione c. Spagna, 13 gennaio 2005, C-84/03 - tra quelli sottoposti al controllo della Corte in cui il controllo analogo viene ravvisato esistente.
Il risultato è di legittimare in fatto una teoria che sin qui aveva generato solo preclusioni e per conseguenza sentenze di accertamento di illegittimità, senza peraltro aprire brecce in una parete che rimane impenetrabile, almeno sul piano giurisprudenziale, ma che potrebbe venire incrinata da revisioni dei Trattati, se le conclusioni del Consiglio del 21/22 giugno (par.19 i) dovessero venire effettivamente recepite nella disciplina superprimaria dell’Unione.

2. Il soggetto a cui la statuizione della Corte si riferisce è la Transformación agraria (Tragsa), una società di capitali istituita da un decreto real del 1977, e dunque prima dell’entrata della Spagna nelle Comunità europee, anche se la disciplina è stata più volte modificata, nel 1995, nel 1999, nel 2002 e nel 2003. Il capitale è attualmente statale al 99%, la quota residua essendo stata sottoscritta da quattro comunità autonome. L’oggetto sociale include non solo la elaborazione di studi, piani e progetti in materia di agricoltura e settori connessi e la promozione di nuove tecniche, ma anche la realizzazione di lavori e la prestazione di servizi negli stessi ambiti, e la costruzione o l’uso di infrastrutture o beni mobili, la lotta contro le calamità e lo svolgimento dell’attività agricola: il tutto in Spagna o all’estero, direttamente o a mezzo di controllate. Tragsa e controllate non possono partecipare a procedure di appalto disposte dalle amministrazioni di cui sono strumentali, ma sono tenute ad eseguire lavori e servizi loro attribuiti direttamente dallo Stato, dalle comunità autonome o da organismi pubblici da essi dipendenti e in caso di appalti deserti possono divenire affidatarie di contratti pubblici. Secondo il Governo spagnolo, Tragsa può qualificarsi come strumento interno dell’amministrazione statale o servizio tecnico, amministrazione dipendente sotto il diretto controllo dei Ministeri dell’agricoltura e dell’ambiente. Il suo rapporto con gli enti controllanti e committenti non ha natura contrattuale e le prestazioni vengono remunerate in base ad un tariffario approvato normativamente.
La vertenza è originata da una denuncia per abuso di posizione dominante presentata dalla associazione nazionale delle imprese forestali al Tribunal de defensa de la competencia, seguita, a seguito di rigetto da parte di quest’ultimo, da un ricorso alla Audiencia nacional e quindi al Tribunal Supremo, inteso a contestare il carattere interno di Tragsa e la sua consequenziale sottrazione al regime della concorrenza, anche alla luce della rilevanza del suo fatturato. Il Tribunal Supremo ha operato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per una verifica del compatibilità con il diritto comunitario, e in specie con l’art.86 n. 1 del Trattato e con le direttive appalti, del regime giuridico di Tragsa.
La Corte evade anzi tutto le eccezioni pregiudiziali di ricevibilità, che ruotano intorno al carattere esclusivamente nazionale degli atti normativi sospetti di illegittimità europea, alla natura ipotetica delle questioni prospettate, all’assenza di informazioni di fatto sul mercato rilevante adeguate a valutare se Tragsa rivesta una posizione dominante e dunque se i diritti speciali riconosciuti all’impresa pubblica comportino una violazione dell’art.82, non menzionato nell’ordinanza di rimessione. Il collegio ritiene di valutare irricevibile la questione relativa all’art.86 per difetto di indicazioni adeguate a ricostruire gli elementi di fatto e di diritto concernenti l’eventuale abuso di posizione dominante, ma entra nel merito della questione concernente la conformità del regime di Tragsa rispetto alle direttive appalti.
Schematicamente, la Corte muove dalla ricerca della qualificabilità come contratto oneroso del sinallagma che lega Tragsa alle controllate committenti, concludendo per la negativa, in quanto la richiesta di prestazioni da parte delle amministrazioni statali o regionali non è declinabile, ma obbligatoria, mentre il loro valore non forma oggetto di negoziazione ma è determinato preventivamente in via normativa. Questi due elementi, che in realtà si fondo in uno solo, l’assenza di un rapporto sinallagmatico di carattere negoziale tra preponente ed esecutore del lavoro o del servizio, paio alla Corte sufficienti per escludere la terzietà di Tragsa rispetto ai soggetti pubblici istituenti, finanzianti e controllanti, e per configurare presente l’elemento del controllo analogo (par.60-61), mentre la prevalenza dell’attività svolta in favore degli enti territoriali pare suffragata dai dati disponibili (55% dell’attività per le Comunità autonome, 35% per lo Stato), salve ulteriori verifiche da parte del giudice del rinvio (par.63-64).

3. La Corte di giustizia riesce dunque a dare corpo ad un requisito che, almeno se riferito a società di enti locali secondo la casistica originata in Italia e nei Paesi di lingua tedesca, sembrava sinora pressoché irrealizzabile. Il reperimento dell’eccezione, statisticamente parlando, conferma la validità di una regola sull’esistenza o sulla sostanza della quale era lecito nutrire qualche dubbio. E’ vero che la formula dell’affidamento diretto o in house providing non viene mai menzionata né nella motivazione né nel dispositivo; ma ciò si deve almeno in parte all’impostazione della vertenza, giocata in prevalenza dai ricorrenti privati sul possibile abuso di posizione dominante. Essa tuttavia aleggia lungo tutto l’iter motivazionale come una presenza incombente. Ed alla fine si manifesta con i richiami giurisprudenziali, come sempre autoreferenziali, alla linea di precedenti aperta da Teckal.
Rimane tuttavia il fatto che la decisione in esame, se assolve dal punto di vista della Corte all’esigenza, logica prima che nomofilattica, di dimostrare l’esistenza di un contenuto per la regola del controllo analogo, presta però il fianco a numerose perplessità sia in termini di reasoning che di risultati.
L’analitica disamina dell’avvocato generale Geelhoed, benché non sempre coerente nel rapporto tra premesse e conclusioni, evidenziava svariati profili problematici: il trasferimento di poteri dallo Stato alle Comunità autonome dopo l’entrata in vigore della Costituzione dl 1978 ha dato luogo a contratti di diritto pubblico tra le entità regionali e Tragsa (par.13), e su questa formula negoziale, che meritava forse qualche attenzione, la Corte non si è soffermata pur pervenendo al fermo diniego dell’esistenza di qualsiasi sinallgma negoziale, anche con riferimento alle Comunità non azioniste; per le amministrazioni avvalenti il ricorso a Tragsa non costituisce obbligo, ma mera facoltà (par.16) e dunque non sussiste una correlazione inscindibile tra interesse pubblico ed avvalimento; la società chiude il bilancio con significativi utili (par.21); oltre metà del fatturato viene realizzato mediante prestazioni a Comunità autonome (par.22), di cui però solo quattro sono socie, e dunque in gran parte a soggetti non controllanti, mentre il 5% consiste in prestazioni rese a Comuni e tra il 2 e il 3.5% a privati e imprese; la normativa vigente non esclude il conferimento di incarichi non connessi a competenze o responsabilità pubbliche (par.24), ma che potrebbero venire eseguiti da imprese private a condizioni di mercato. In complesso dunque, se è vero che Tragsa versa in una condizione di subordinazione semi-gerarchica rispetto ad amministrazione centrale e regioni, a cui non può rifiutare prestazioni richieste, è dubitabile che sussista l’elemento del controllo, analogo o meno, almeno rispetto alle Comunità autonome (par.38), e persino che sussista con esse un rapporto di strumentalità (par.51). Ed anche nei riguardi dello Stato, mentre è pacifica l’inerenza a pubbliche funzioni laddove vengano rese prestazioni che concernono calamità naturali o esecuzione di politiche agricole – la decisione della Corte del maggio 2003 in causa C-349-97 si riferiva infatti alla formazione del catalogo oleario -, per la stragrande maggioranza gli incarichi a Tragsa non pervengono ad operazioni connesse all’esercizio di pubblici poteri, ma solo ad obiettivi politici di interesse pubblico (par.54); esse potrebbero dunque essere commissionate senza difficoltà a privati, con conseguente sottrazione al regime della concorrenza nazionale ed europea di un segmento di mercato (par.59, 71 e 79). La partecipazione ad appalti di Comuni e privati per una percentuale di fatturato tra il 7 e l’8.5% (par.61), per giunta in assenza di norme limitative della quantità di prestazioni da rendere sul mercato (par. 64), inoltre, mentre getta un’ombra di dubbio sulla sussistenza del secondo requisito Teckal, mette in evidenza possibili distorsioni della concorrenza derivanti dalla posizione di privilegio riconducibile all’esperienza accumulata da Tragsa mediante le commesse esclusive (par.71). Insomma, se controllante è lo Stato, la percentuale del 30% di prestazioni a suo favore (par. 65) non determina la sussistenza del fatturato prevalente; se controllanti sono lo Stato e le Comunità autonome, la sommatoria del fatturato a favore di entità regionali non azioniste, di Comuni e privati fa venir meno il secondo requisito Teckal e mette in crisi anche il primo. Manca inoltre una netta distinzione finanziario-contabile tra le due parti dell’attività (par.70). Lo stesso divieto normativo di partecipare ad appalti di Stato e Comunità autonome pare inteso, più che a tutelare la concorrenza, ad inibire che si ricorra al mercato quando i servizi esecutivi dell’amministrazione sono disponibili (par.81). Almeno quanto alle entità regionali, la stessa incertezza normativa circa gli ambiti in cui può venire officiata Tagsa paiono all’Avvocato generale escludere non solo il controllo analogo, ma persino la strumentalià (par. 100 e 103), oltre che il secondo requisito Teckal (par.104 e 109).
Per pervenire al dispositivo la Corte ha in sostanza dovuto semplificare l’analisi, sorvolare su dati rilevanti, eliminarne alcuni dalla visuale, utilizzare profili di ricevibilità per circoscrivere l’ambito del merito, e nondimeno essa ha tracciato una linea divisoria il cui senso non è chiarissimo. Deve forse intendersi, infatti, che lo standard di giudizio sul primo, e magari sul secondo, dei requisiti Teckal, deve essere meno rigido quando si tratta di amministrazioni centrali anziché locali? Ma la ricaduta sui mercati dovrebbe essere, al contrario, più rilevante. O si deve pensare che quando la scelta statale è consapevole, come nel caso spagnolo, e risalente nel tempo, va rispettata, mentre iniziative locali non troppo coordinate in chiave di politica legislativa, come nei casi italiano e tedesco, meritano minor riguardo? O, ancora, la prospettazione delle questioni solo alla luce dell’art.86 e non in combinato disposto con l’art.82 induce a maggior prudenza verso le soluzioni tradizionalmente proprie di ciascun ordinamento? O, infine, l’atteggiamento degli Stati o almeno di alcuni dei più autorevoli di essi, che in giugno ha portato a conclusioni della Presidenza del Consiglio molto restrittive per la competenza dell’Unione in materia di servizi, ha avuto qualche peso nel self-restraint della Corte?
In complesso, se la Corte ha voluto dimostrare che il primo requisito Teckal non era vuoto di contenuti, ha però lasciato in sospeso una serie di questioni su cui prima o poi dovrà tornare, a meno che la revisione dei Trattati non riduca espressamente la sua cognizione.

 

(pubblicato il 24.8.2007)

 

Il C.G.A.R. Sicilia, con la sentenza in rassegna, affronta la tematica dei presupposti necessari - per l’affidamento diretto e senza gara di un servizio pubblico - ad una società appositamente costituita. In particolare, si concentra sull’analisi del requisito del "controllo analogo" di matrice comunitaria.

Per il Supremo Consesso siciliano la sussistenza del c.d. "controllo analogo" – che secondo la giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza del 18 novembre 1999, causa Teckal C-107/98) è necessario per l’affidamento diretto di un servizio pubblico ad una società appositamente costituita - richiede:

a) il possesso dell’intero capitale azionario che, tuttavia, da solo, è condizione necessaria ma non sufficiente a determinare il requisito strutturale;

b) il controllo del bilancio;

c) il controllo sulla qualità della amministrazione;

d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante

di visitare i luoghi di produzione;

e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.

E’, pertanto, necessario, a tal fine, che si realizzi quello che è definito un "controllo strutturale" e questo non può limitarsi agli aspetti formali relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario.

Ha aggiunto il C.G.A. che, secondo quanto si evince dalla giurisprudenza comunitaria, il requisito del possesso totale della mano pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente.

Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza in ordine ai poteri di indirizzo e controllo, atteso che, soprattutto nel nostro ordinamento giuridico, la condizione di socio unico proprietario non necessariamente garantisce un potere diretto sulle strategie e sugli indirizzi della società, dovendo la volontà di esso comunque essere filtrata ed attuata dagli organi societari.

Sicché, il controllo analogo è costituito da una serie di poteri pregnanti, quali:

a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione, il che garantisce esattamente

il controllo dell'indirizzo strategico ed operativo della società;

b) indicazione dei dirigenti;

c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale.

Conseguentemente, l’ingerenza dell’ente controllante si deve realizzare non sotto un profilo formale bensì sostanziale, impedendo, in concreto, l’attuazione di politiche aziendali che, di fatto, incidano sulla concorrenza.

Per quanto riguarda il requisito funzionale dell’in house, i giudici precisano che - richiamandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee - si deve ritenere che il criterio della prevalenza (ossia la realizzazione dell’ attività dell’ in house provider per "la parte più importante di essa" a favore del soggetto affidante ) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante.

Secondo i giudici amministrativi, l’onere della prova circa la esistenza delle condizioni legittimanti l'affidamento diretto ad una società di un servizio pubblico spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto.

Nel caso di specie, il C.G.A. conclude per l‘assenza di qualsiasi prova in merito alla sussistenza delle condizioni necessarie per la realizzazione della c.d. eccezione Teckal (rectius per l’affidamento diretto).

Il G.A. specifica, inoltre, che, nel caso in cui si contesti l’affidamento diretto di un servizio ad una società in mano pubblica e, pertanto, si pretenda l’affermazione dell’obbligo per la P.A. di tenere un determinato comportamento che si concretizza in un non facere, vale a dire nel non affidare il servizio senza l’esperimento previo di una gara, legittimato alla proposizione del ricorso è un imprenditore del settore e, dunque, un soggetto che astrattamente e potenzialmente sarebbe abilitato a partecipare ad una qualsiasi gara ad hoc indetta.

Il suo interesse, quindi, non è leso dalla indizione di una gara cui non abbia partecipato, o non possa partecipare, per carenza di requisiti, ma esattamente dal fatto che nessuna gara è bandita.”

La lesione dell'interesse, nel caso in cui si contesti l’affidamento diretto di un servizio ad una società in mano pubblica, si verifica solo nel momento dell’affidamento e non già con la delibera che ha manifestato la volontà dell’ente pubblico di creare una società che rivesta la qualifica di affidatario diretto del servizio, la quale non è in sé lesiva perché espressione di una potestà autorganizzatoria dell’ente.

L’atto di affidamento di un servizio è espressione di un potere di amministrazione attiva che spetta, nel caso di enti locali, al dirigente e non all’organo elettivo, salvo che la legge attribuisca espressamente a questa ultima la cura concreta di un interesse.

Pertanto, non costituisce atto di indirizzo politico, ma un atto amministrativo - come tale impugnabile- una delibera con la quale la Giunta municipale non si è limitata ad esprimere un indirizzo capace di orientare l’organo di amministrazione attiva per il raggiungimento di un fine politico, nella scelta tra più soluzioni possibili, ma ha impartito un preciso ordine, vale a dire di affidare il servizio in maniera diretta e senza gara.

Nella fattispecie concreta, quindi, la Giunta ha, in effetti, emanato un provvedimento amministrativo vero e proprio, direttamente impugnabile dalla ricorrente.

(Altalex, 21 settembre 2007. Nota di Francesco Logiudice)

 

Consiglio di Giustizia Amministrativa

Sede Giurisdizionale

Decizione 4 settembre 2007, n. 719

N. 719/07 Reg.Dec.
NN. 406
424 Reg.Ric.
ANNO 2006

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale

ha pronunciato la seguente

Decisione

sui ricorsi in appello nn. 406/06 e 424/06 proposti da:

- Ric. n. 406/06 - W. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore rappresentata e difesa dagli avvocati Caterina Giunta e Maria C. Puglisi, ed elettivamente domiciliata in Palermo, via N. Morello, n. 20, presso lo studio della prima;

contro

X. s.n.c., in persona del rappresentante legale pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Lucia Marino, presso cui è elettivamente domiciliata in Palermo, via V. E. Orlando, n. 6, presso lo studio dell’avvocato Elisa Gullo;

e nei confronti di

AMMINISTRAZIONE DEL COMUNE DI CATANIA, in persona del Sindaco pro-tempore, non costituito in giudizio;

FEDERAZIONE DEL COMPARTO FUNERARIO ITALIANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

- Ric. n. 424/06 - COMUNE DI CATANIA, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Marco Petino ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Torricelli, 3, presso lo studio dell’avv. Giovanna Condorelli;

contro

la s.n.c. X. DI S. R., in persona del legale rappresentante pro tempore, come sopra rappresentata e difesa ed elettivamente domiciliata;

e nei confronti di

W. s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

FEDERAZIONE DEL COMPARTO FUNERARIO ITALIANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – sezione staccata di Catania (sez. II) - n. 198/06 del 10 novembre 2005 - 13 febbraio 2006.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’avv. L. Marino per la s.n.c. X.;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visto il dispositivo n. 161/06 del 19 dicembre 2006;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore il Consigliere Claudio Zucchelli;

Uditi alla pubblica udienza del 29 novembre 2006 l’avvocato M.B. Miceli, su delega dell’avvocato C. Giunta, per la W., l’avvocato F. Gullotta, su delega dell’avvocato M. Petino, per il Comune di Catania e l’avvocato N. D’Alessandro, su delega dell’avvocato L. Marino, per la s.n.c. X.;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

Il Comune di Catania aveva bandito una gara per l'affidamento del servizio di illuminazione votiva nei cimiteri cittadini.

Con successiva deliberazione di Giunta n. 153 dell’8 febbraio 2005 fu assunto un atto d’indirizzo diretto a revocare il bando e a procedere all’affidamento del servizio con il sistema del così detto in house providing o “affidamento diretto”.

Con determinazione dirigenziale n. 5/124/Dir del 4 marzo 2005 il bando fu revocato e fu deliberato l’affidamento del servizio alla W. s.p.a. con il sistema dell’affidamento diretto.

Con deliberazioni n. 14 del 26 febbraio 1997 e n. 14 del 20 marzo 1998 il Consiglio Comunale aveva già deliberato l’affidamento diretto alla società W. per il periodo precedente.

Con successiva determinazione n. 5/256/Dir del 10 maggio 2001 il Direttore dei Servizi cimiteriali affidava il servizio e stabiliva il capitolato d’oneri, le condizioni generali di abbonamento e le norme transitorie.

Avversi tali atti l’impresa X. s.n.c. proponeva ricorso al TAR di Catania, lamentando:

1.      L’incompetenza della giunta alla emanazione dell’atto.

2.      L’illegittimità dell’affidamento diretto alla controinteressata, in assenza del così detto “controllo analogo” da parte dell’ente locale sulla società affidataria.

3.      La non prevalenza della attività a favore del soggetto pubblico azionista.

4.      La violazione articolo 113 d. l.vo 267 del 2000.

5.      Difetto di motivazione.

Il Comune si costituiva eccependo:

1.      La tardività del ricorso.

2.      Carenza di legittimazione della ricorrente, la quale non aveva presentato domanda di partecipazione alla gara revocata.

3.      Carenza di interesse.

4.      Inammissibilità del ricorso diretto contro atti politici insindacabili.

5.      Affermava altresì l’esistenza del controllo analogo, come si evinceva dal possesso da parte del Comune del pacchetto di maggioranza e dal potere di nomina del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale.

6.      La prevalenza della attività a favore di soggetto pubblico poiché essa rappresentava il 62 per cento del fatturato dell’impresa affidataria.

7.      In ogni caso la tardività e la carenza di interesse ad impugnare gli atti riguardanti la costituzione della società pubblica.

Si costituiva altresì la controinteressata W. s.p.a., resistendo.

Non si costituiva l’Italia Lavoro s.p.a. proprietaria del 49% del pacchetto azionario della W. s.p.a.

Si costituiva la FEDER.CO.IT, federazione imprenditoriale di categoria.

Con la sentenza di cui in epigrafe il TAR accoglieva il ricorso, osservando in sintesi:

1.      Il ricorso contro l’affidamento diretto alla W. s.p.a. non è tardivo, poiché è stato notificato il 29 marzo 1005, mentre tali atti sono stati assunti l’8 febbraio ed il 4 marzo 2005. Al più può essere tradivo il ricorso avverso la costituzione della società pubblica.

2.      L’ammissibilità del ricorso diretto a contestare non la procedura di gara revocata, cui la ricorrente non aveva partecipato, ma la scelta di affidare il servizio in modalità diretta. A fronte di tale decisione la legittimazione attiva deriva dalla posizione di imprenditore di settore.

3.      La deliberazione di giunta non costituisce atto politico ma amministrativo anche se ampiamente discrezionale.

4.      Nel merito osserva che la normativa europea, come interpretata dalla Corte di giustizia, ritiene il così detto affidamento diretto una misura eccezionale, tale da considerarsi anche nei confronti degli appalti di servizi e non solo di quelli di lavori.

5.      La disciplina italiana è contenuta nell'articolo 113 del testo unico sugli enti locali, il quale richiede la prevalenza della attività a favore del soggetto pubblico proprietario. Nel caso di specie la controinteressata, pur avendo realizzato la maggioranza del proprio fatturato con il Comune azionista, circa il 62 per cento, aveva indirizzato la propria attività imprenditoriale verso altri ambiti e territori amministrativi.

Accoglieva quindi il ricorso avverso l’affidamento, e contro gli atti conseguenti, respingendo quello contro la costituzione della società per irricevibilità per tardività ed inammissibilità per carenza di interesse.

Avverso la detta sentenza propone appello la W. s.p.a., lamentando:

1.      La costituzione della società è avvenuta con la deliberazione del 1997 e con quella del 1998 è stato approvato il contratto di servizio. L’affidamento alla W. del servizio in oggetto, quindi, era già stato deliberato e l’atto era immediatamente lesivo. Ne consegue la tardività del ricorso di primo grado avverso tali atti e l’inammissibilità del ricorso contro atti sostanzialmente esecutivi del precedente non impugnato nei termini.

2.      La revoca della gara costituisce atto presupposto e prodromico al successivo affidamento, e immediatamente lesivo, quindi la mancata partecipazione ad essa rende inammissibile, per carenza di interesse, l'impugnazione dei successivi atti.

3.      La non impugnabilità dell'atto di indirizzo espresso dal Consiglio comunale.

4.      La sussistenza dei requisiti per l’affidamento diretto, costituito: a) dalla partecipazione interamente pubblica; b) dalla sussistenza di un controllo analogo; c) dalla realizzazione della parte più importante della propria attività a favore dell'ente pubblico controllante.

Si costituiva in giudizio la X. s.n.c. resistendo e riproponendo i motivi assorbiti dal TAR, ed in particolare: l’inesistenza del così detto controllo analogo e l'ostacolo costituito dalla clausola dello statuto che prevedeva la cessione ai privati entro il quinquennio del 49 per cento delle azioni in mano alla GEPI, oggi Italia Lavoro. Deposita altresì ricorso incidentale con il quale ripropone l’impugnativa delle due deliberazioni consiliari di istituzione della società e di approvazione del contratto di servizio, osservando che la lesione si attua solo nel momento in cui l'affidamento si è concretizzato.

Con separato atto, rubricato a diverso numero di ruolo generale, anche il Comune di Catania impugna la sentenza in epigrafe, lamentando:

1.      Inammissibilità per carenza di interesse non avendo la ricorrente partecipato alla gara revocata.

2.      Inammissibilità dell'impugnazione di atti di indirizzo politico.

3.      La sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla giurisprudenza comunitaria e dall’articolo 113 del TUEL per l'affidamento in house.

DIRITTO

1.      Preliminarmente si deve procedere alla riunione del ricorso n. 424/06 al ricorso n. 406/06, siccome anteriore nel ruolo, poiché entrambi diretti a censurare la stessa sentenza del TAR, in applicazione dell’articolo 335 c.p.c..

2.      Gli appellanti ripropongo all’attenzione di questo Giudice l’eccezione già presentata in primo grado circa l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, poiché la ricorrente non ha partecipato alla gara poi revocata il cui oggetto è stato poi realizzato mediante un affidamento diretto. Come ha già osservato il TAR con la sentenza impugnata, la questione sottoposta all’attenzione del Giudice non è costituita dalla revoca del bando di concorso, ma dall’affidamento del servizio senza l’esperimento previo di una gara. La pretesa della ricorrente in primo grado deve essere attentamente chiarita. Essa è diretta ad accertare l’obbligo per il comune di tenere un determinato comportamento che si concretizza in un non facere, vale a dire nel non affidare il servizio senza l’esperimento previo di una gara. A tale pretesa la ricorrente è legittimata per il solo fatto di essere un imprenditore del settore, e dunque un soggetto astrattamente e potenzialmente abilitato a partecipare ad una qualsiasi gara ad hoc indetta. Il suo interesse, quindi, non è leso dalla indizione di una gara cui non abbia partecipato, o non possa partecipare, per carenza di requisiti, ma esattamente dal fatto che nessuna gara è bandita. Anzi, analizzando logicamente la situazione attuale, la revoca del bando di gara precedente, cui ella non aveva partecipato, giovava all’interesse della ricorrente, quindi tale atto non solo non doveva necessariamente esser impugnato, ma anzi non poteva esserlo perché assolutamente non lesivo nei suoi confronti. Per altro, una volta revocata la gara, la situazione giuridica relativa al servizio è stata ricondotta allo status quo ante, per cui la successiva decisione di affidamento diretto è essa proprio nuovamente lesiva degli interessi della ricorrente, perché viene a disciplinare ex novo la situazione per l’innanzi ritornata al punto di partenza. In altri termini la deliberazione di affidamento ha rinnovato totalmente l’attuazione della volontà del Comune e quindi essa è autonomamente impugnabile a prescindere dalla sorte degli atti precedenti che non rilevano.

3.      Del pari infondata è l'eccezione in primo grado, oggi motivo di appello, circa la carenza di interesse alla impugnazione dell'affidamento per l’avvenuto consolidamento delle deliberazioni consiliari del 1997 e 1998 con le quali era stata costituita la società pubblica e si era ad essa affidato il servizio approvando il contratto di servizio. In realtà, non rileva se l’atto costitutivo prevedesse al momento l’affidamen-to in questione, poiché ciò che conta è che, al momento del rinnovo del rapporto, segnato appunto dalla decisione di indire la gara poi revocata e successivamente di affidamento diretto, la posizione giuridica soggettiva della ricorrente era caratterizzata dalla pretesa che tale affidamento non avvenisse appunto in maniera diretta. La lesione dell'interesse, e cioè la negazione della pretesa, si è verificata solo nel momento dell’affidamento e non già con le delibere del 1997-1998, le quali, a tutto concedere, potrebbero avere leso gli interessi della ricorrente all’epoca per quella tratta contrattuale, ma non poi per la tratta da rinnovare. Del resto la manifestazione di volontà dell’ente locale di creare una società che rivesta la qualifica di affidatario diretto non è in sé lesiva perchè espressione di una potestà autorganizzatoria. Se del caso, sarà lesivo il successivo affidamento qualora non realizzato secondo le norme che infra esamineremo.

4.      Sotto questo profilo, invece, l’appello incidentale della X. avverso le dette due deliberazioni consiliari deve essere dichiarato inammissibile, prima ancora che irricevibile, appunto perchè non sussiste l'interesse attuale alla impugnazione di esse, ma al contempo il loro consolidamento non impedisce che, oggi, sussista l’interesse alla impugnazione dell’affidamento diretto alla W..

5.      Ancora in via di eccezione in primo grado e poi di motivo d’appello, la W. s.p.a. ed il Comune di Catania osservano l’inammissibilità dell’impugnazione della deliberazione di Giunta che costituirebbe un atto di indirizzo politico e non amministrativo. La questione, in realtà, è del tutto inconferente. L'affidamento del servizio è comunque avvenuto con la determinazione del dirigente competente, la quale costituisce atto lesivo in questa sede debitamente impugnato. Che l’atto precedente, cioè la deliberazione di Giunta, sia da considerare atto di indirizzo politico che ha condizionato la decisione amministrativa o sia esso stesso atto presupposto di alta amministrazione immediatamente lesivo, non rileva alcunché alla presenza del successivo atto di amministrazione attiva che ha determinato il nuovo assetto giuridico degli interessi. In linea generale, e solo per corrispondere alla naturale funzione didattica della giurisprudenza, si può osservare che l’atto di affidamento di un servizio è espressione di un potere di amministrazione attiva che spetta al dirigente e non all’organo elettivo, o alla di lui espressione costituita dalla Giunta, salvo che la legge attribuisca espressamente a questa ultima la cura concreta di un interesse. L’atto di indirizzo in questione, quindi, è da considerare in generale atto politico e non di alta amministrazione. Nella specie, tuttavia, la Giunta non si è limitata ad esprimere un indirizzo capace di orientare l’organo di amministrazione attiva per il raggiungimento di un fine politico, nella scelta tra più soluzioni possibili, ma ha impartito un preciso ordine, vale a dire di revocare la precedente gara e di affidare il servizio in maniera diretta e senza gara, che non poteva non essere eseguito dal dirigente e non altrimenti che non bandendo la gara relativa. Nella fattispecie concreta, quindi, la Giunta ha, in effetti, emanato un provvedimento amministrativo vero e proprio, direttamente impugnabile dalla ricorrente. Il ricorso, quindi, per questo verso è ammissibile, infra si vedrà se e in quali termini sia anche fondato.

6.      Entrando finalmente nel merito della questione occorre premettere alcune considerazioni generali sulla normativa europea di riferimento e sulla costituzione economica, formale e sostanziale, che essa ha indotto anche nel nostro Paese. Il principio della concorrenza è uno dei basamenti della costituzione economica europea, soprattutto in relazione al mondo delle commesse pubbliche. Nei considerando delle direttive “lavori”, “servizi” e “forniture” (oggi accomunate nella direttiva n. 18 del 2004), espressamente si fa riferimento alla volontà dell’Unione Europea di garantire la completa parità di accesso di tutte le imprese europee al monte dei contratti pubblici, che costituisce, e di ciò l’Unione ha piena coscienza, il volano economico più consistente nel sistema interventista in vigore in Europa. Tale attenzione e l’accentuazione del principio della concorrenza hanno conseguenze molteplici. Per ciò che qui interessa, la conseguenza rilevante è che le imprese europee (ma con ciò si intende anche quelle dello stesso Paese del cui ordinamento giuridico si giudica) devono essere poste sullo stesso piano, concedendo loro le medesime opportunità, sia sotto il profilo dell’accesso ai contratti pubblici (e quindi attraverso il sistema ordinario della evidenza pubblica), sia impedendo che particolari situazioni economiche pongano alcune di esse in una condizione di privilegio o comunque di favore economico. Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento.

7.      L’Unione Europea è ben consapevole della esistenza di situazioni nelle quali l’interesse pubblico affidato ad un soggetto pubblico sia più proficuamente curato attraverso un soggetto imprenditoriale che ad esso risponda direttamente, in virtù di un rapporto di proprietà azionaria o comunque di controllo diretto. In tal caso non considera a priori contrario ai principi del trattato affidare il contratto senza procedere ad una gara, ma a precise condizioni. Infatti, una tale evenienza depaupera il monte contrattuale a disposizione di tutte le imprese europee, e per questo il sistema dell’affidamento diretto deve, in primo luogo, essere considerato un’eccezione di stretta interpretazione (quella che nel linguaggio giudiziario della Corte di giustizia viene, infatti, definita “eccezione Teckal”) al sistema ordinario delle gare; in secondo luogo deve rispondere alla sussistenza di ben precisi presupposti, in assenza dei quali l’affidamento è idoneo a turbare la par condicio e quindi a violare il trattato (e le direttive).

8.      Il rispetto delle eccezioni dell’obbligo della gara, però, non è sufficiente per ricondurre l’affidamento diretto all’interno dell’alveo della concorrenza e della par condicio tra le imprese. Si è accennato poc’anzi al pericolo che si creino particolari situazioni di privilegio per alcune imprese. Una situazione di tal fatta si verifica quando un’impresa usufruisca, sostanzialmente, di un aiuto di Stato, vale a dire di una provvidenza economica pubblica atta a diminuirne o coprirne i costi. Il privilegio economico non necessariamente si concretizza, brutalmente, nel contributo o sussidio diretto o nell’agevola-zione fiscale o contributiva, ma anche garantendo una posizione di mercato avvantaggiata rispetto alle altre imprese. Anche in questo senso, il privilegio non necessariamente si realizza in modo semplicistico introducendo limiti e condizioni alla partecipazione delle imprese concorrenti, ma anche, ed in maniera più sofisticata, garantendo all’impresa una partecipazione sicura al mercato cui appartiene, garantendo, in sostanza, l’acquisizione sicura di contratti il cui provento sia in grado di coprire, se non tutte, la maggior parte delle spese generali, in sintesi: un minimo garantito. Non è necessario che ciò determini profitto, purché l’impresa derivi da tali contratti quanto è sufficiente a garantire e mantenere l’apparato aziendale. In una tale situazione, è fin troppo evidente che ogni ulteriore acquisizione contrattuale potrà avvenire offrendo sul mercato condizioni concorrenziali, poiché l’impre-sa non deve imputare al nuovo contratto anche la parte di costi generali già coperta, ma solo il costo diretto di produzione. Gli ulteriori contratti, sostanzialmente, diventano più che marginali e permettono o la realizzazione di un profitto maggiore rispetto all’ordinaria economia aziendale del settore, ovvero di offrire sul mercato prezzi innaturalmente più bassi, perché non gravati dall’ammortamento delle spese generali. Nell’uno o nell’altro caso, il meccanismo del minimo garantito altera la par condicio delle imprese in maniera ancora più grave perché con riflessi anche sul mercato dei contratti privati. L’impresa beneficiaria di questa sorta di minimo garantito, infatti, è competitiva non solo nelle gare pubbliche, ma anche rispetto ai committenti privati, sicché, in definitiva, un tale sistema diviene in sé assai più pericoloso e distorcente di una semplice elusione del sistema delle gare. Potenzialmente ciò induce ed incoraggia il capitalismo di Stato e conduce alla espulsione delle imprese private marginali.

9.      Dai rischi sopra segnalati discendono direttamente le misure che l’Unione Europea ha adottato per contenere il fenomeno dell’affida-mento diretto. Esse si indirizzano, sostanzialmente, su due strade: da un lato assimilare quanto più possibile l’impresa assegnataria alla medesima amministrazione appaltatrice; dall’altro non introdurre nell’ambito del mercato privato l’elemento di disturbo, costituito da tale tipo di impresa. Al primo obiettivo corrispondono i principi che, sincreticamente, possiamo indicare come quelli del “controllo analogo”; al secondo, il principio della “attività prevalente”, vale a dire della tendenziale esclusività della attività economica a favore dell’azio-nista: l’impresa pubblica non può in nessun modo inserirsi nel mercato privato nel quale costituirebbe un elemento di disturbo e pericolo.

10.  Dall’esame della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, di cui infra, emerge con chiarezza che questo imprenditore non può essere un vero imprenditore. Egli non rischia, costituisce solo un braccio operativo della Pubblica Amministrazione, professionalizzato e capace di acquisire sul mercato i mezzi e le professionalità necessarie, ma sostanzialmente equiparabile a quelle figure tradizionali del diritto amministrativo, ormai scomparse, quali le aziende autonome o gli organi con personalità giuridica. I motivi per cui un soggetto pubblico opera la scelta di agire attraverso una società per azioni ad hoc costituita, anziché apprestare all’uopo un ufficio tecnico, possono essere i più vari. Dalla esigenza di sottrarsi alla contabilità pubblica, a quella di acquisire uomini e mezzi in maniera flessibile attingendo al mercato, e quindi aderendo alle sue logiche dei prezzi e delle retribuzioni; dalla temporaneità della intrapresa, alla particolare professionalità non reperibile attraverso il reclutamento pubblico etc. Ciò non rileva molto, ciò che l’Unione Europea pretende è che tale esperienza rimanga confinata all’interno del soggetto pubblico azionista o proprietario, e che un tale imprenditore non abbia margini e discrezionalità per invadere il mercato libero.

11.  E’ fin troppo facile, ormai, comprendere la genesi e il significato delle condizioni poste dalla giurisprudenza europea alla utilizzazione di un affidamento indiretto:

1.      La totale proprietà delle azioni, o comunque del capitale, da parte del soggetto pubblico;

2.      Il controllo totale della volontà formale della persona giuridica attraverso l’espressione degli amministratori;

3.      La sussistenza di un controllo specifico non solo sulle procedure formali di manifestazioni di volontà (contratti), ma anche sulle politiche aziendali, per garantire che esse non si evolvano in direzione contraria o comunque diversa dai semplici e stringenti bisogni tecnici dell’azionista. E’ quello che, in sostanza, definiamo “controllo analogo”.

4.      L’esclusività dell’attività a favore dei soggetti pubblici (uno o più non rileva) che l’hanno costituita o che ne sono proprietari.

12.  Le condizioni sopra indicate non escludono l’autonomia gestionale ed operativa della impresa, allo stesso modo in cui nel caso di socio unico di una società privata, questi orienta secondo la sua indiscutibile ed insindacabile volontà la politica dell’impresa posseduta, ma questa attua gli indirizzi attraverso la professionalità e le scelte operative autonome dei suoi dirigenti ed impiegati. Allo stesso tempo, però, la volontà del socio unico è, in questo particolare caso, regolamentata dal diritto europeo nel senso che gli è del tutto interdetto perseguire obiettivi e risultati imprenditoriali in concorrenza nel mercato pubblico o privato dei contratti. Alcuni passi della giurisprudenza europea chiariranno ancor meglio il rapporto tra il controllo analogo ed i poteri dei consigli di amministrazione ed il concetto della attività prevalente o esclusiva.

13.  Come è noto nella prima sentenza dedicata all’argomento (causa Teckal C-107/98 sentenza del 18 novembre 1999) in un importante passaggio la Corte si espresse nel seguente modo: “Può avvenire diversamente (la stipulazione di un contratto tra un soggetto pubblico e una persona giuridicamente distinta senza il ricorso alla gara n. d. r.) solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano.

In quel procedimento l’Avvocato generale, nelle proprie conclusioni, aveva sottolineato che: “Se ammettiamo la possibilità delle amministrazioni aggiudicatrici di potersi rivolgere a enti separati, al cui controllo procedere in modo assoluto o relativo, per la fornitura di beni in violazione della normativa comunitaria in materia, ciò aprirebbe gli otri di Eolo per elusioni contrastanti con l'obiettivo di assicurare una libera e leale concorrenza che il legislatore comunitario intende conseguire attraverso il coordinamento delle procedure per l'aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture.” con ciò chiarendo l’obiettivo finale della impostazione giuridica, cui precedentemente si è accennato.

Aggiungeva ancora l'Avvocato generale che si sarebbe dovuto procedere alla gara qualora si giungesse alla conclusione “che i rapporti tra il comune e **** sono conseguenza dell'incontro di due volontà autonome che rappresentano interessi giuridici distinti, conformemente all'abituale schema di rapporti che caratterizza i rapporti contrattuali di due soggetti distinti, e questa conclusione risulta anche dall'esame delle condizioni contrattuali”

Questa ultima considerazione apre alla valutazione degli interessi in campo e quindi della realtà economica sottostante al fenomeno dell’affidamento diretto e sarà sviluppata dalla giurisprudenza comunitaria e del Consiglio di Stato.

Come è stato osservato da autorevole giurisprudenza (Consiglio di Stato, V, 13 luglio 2006, n. 4440) l’espressione usata dalla Corte nella sentenza Teckal non chiariva cosa dovesse intendersi per “controllo analogo” fornendo però alcune indicazioni significative. Si ammetteva, infatti, che l’affidatario potesse non essere un ufficio interno della amministrazione e che questo soggetto ben poteva svolgere una parte della propria attività anche a favore di altri soggetti pubblici o privati. A questa ultima conclusione la Corte perveniva nel paragrafo 50 della sentenza dettando, sostanzialmente, due condizioni per quello che in futuro sarebbe stato chiamato affidamento in house o diretto: il controllo analogo, appunto, e la realizzazione della propria attività per “la parte più importante di essa” a favore del soggetto affidante.

14. La giurisprudenza della Corte ha successivamente meglio specificato il concetto di controllo analogo, astenendosi dal dettare un decalogo espresso e puntuale, ma utilizzando lo strumento tipicamente pretorio della decisione del caso concreto per indicare, quale sorta di precedente, la regola, vale a dire la ripetitività ragionevole della decisione, cui si atterrà in futuro.

E così si è precisato (sentenze Truley/Bestattung Wien C-373/00 del 27 febbraio 2003, punto 68; Comm/Repubblica Francese. C-232/99 del 1 febbraio 2001, punti 48 e 49) che il concetto di controllo analogo si risolve in quello di “dipendenza”. Ed ancora che ciò presuppone (sentenze Stadt Halle, C-26/03, Parking Brixen C-458/03) un’influenza determinante da parte del soggetto affidante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti (sentenza Parking Brixen, punto 65), sia sulle attività gestionali direttamente connesse al raggiungimento degli scopi sociali. Poiché ciò determina l’insufficien-za degli usuali poteri di vigilanza e controllo previsti dal diritto societario per i soci unici o di maggioranza (art. 2497 bis del c.c.) (sentenza Parking Brixen, punto 69), è necessario predisporre procedure e strumenti di più incisivo intervento, quali un ufficio di interfaccia ad hoc.

Il controllo analogo, nella visione della Corte europea, è costituito da una serie di poteri pregnanti: a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione, il che garantisce esattamente il controllo dell'indirizzo strategico ed operativo della società; b) indicazione dei dirigenti; c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale. Spetta, ovviamente, al soggetto controllante provare la sussistenza di tali circostanze che lo legittimino all’utilizzazione della “eccezione Teckal”, poiché l’affidamento diretto è l’eccezione (vedi su questi punti: C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440, V 30 agosto 2006, n. 5072).

15. Ha osservato ancora la Corte (sentenza Truley/Bestattung Wien C-373/00 punti 70-74) che “Per quanto riguarda, in particolare, il criterio relativo al controllo della gestione, esso deve creare una dipendenza nei confronti dei poteri pubblici equivalente a quella che esiste allorché uno degli altri due criteri alternativi, (previsti dall’articolo 1 lettera b), secondo comma terzo trattino delle direttive allora in vigore 92/50, 93/36 e 93/37. ndr) è soddisfatto”, vale a dire il finanziamento che provenga in modo maggioritario dai poteri pubblici oppure la nomina da parte di questi ultimi di una maggioranza dei membri che costituiscono l'organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza di tale organismo, che permetta ai poteri pubblici d'influenzare le decisioni del suddetto organismo in materia di appalti pubblici (v. anche sentenza Commissione/Francia, C-237/99 punti 48 e 49).

L’ingerenza sostanziale dell’ente controllante si deve realizzare non sotto un profilo formale ma sostanziale, impedendo, in concreto, l’attuazione di politiche aziendali che, di fatto, incidano sulla concorrenza nel modo sopra segnalato. Anche in questo caso l’atteggiamento pragmatico della giurisprudenza comunitaria, sostanzialmente sembra richiamarsi al meccanismo logico tipico del così detto ”effetto utile” che è, praticamente, uno dei fili conduttori dei principi ermeneutici europei.

E quindi la Corte ha sottolineato (Truley/Bestattung Wien citata) che non è sufficiente un mero controllo a posteriori per soddisfare il criterio del “controllo analogo”, perché, per definizione, un tale controllo non consente alle pubbliche autorità di influenzare preventivamente (atteso che un’influenza successiva è una contraddizione logica) le decisioni dell'organismo interessato in materia di appalti pubblici.

Nella stessa sentenza la Corte individua a contrario quale sia concretamente il tipo di organizzazione manageriale atto a soddisfare le esigenze segnalate, là dove, accogliendo le osservazioni dell'avvocato generale, ritiene che la città di Vienna in effetti, esercitasse un tale tipo di controllo per il fatto che la Bestattung Wien è direttamente assoggettata al controllo della città di Vienna, in ragione della sua appartenenza ad una società - la WSH - il cui intero capitale è nelle mani di tale ente locale. Ed ancora per il fatto che dall'ordinanza di rinvio emerge anche che il contratto sociale della Bestattung Wien prevede espressamente che il Kontrollamt della città di Vienna ha il diritto non solo di controllare il bilancio di esercizio di detta società ma altresì di accertarsi che «l'amministrazione corrente sia esatta, regolare, improntata a risparmio, redditizia e razionale». Lo stesso punto del contratto sociale autorizza inoltre il Kontrollamt a visitare i locali e gli impianti aziendali di detta società e a riferire sul risultato di tali verifiche agli organi competenti nonché ai soci e alla città di Vienna. Siffatte prerogative consentono quindi un controllo attivo sulla gestione della suddetta società.

16. Se estrapoliamo da questo passaggio i principi astratti riflessi dalla situazione di fatto, giungiamo alla conclusione che essenziale, ai fini del controllo analogo, sono: a) il possesso dell’intero capitale azionario (che tuttavia da solo è condizione necessaria, ma non sufficiente a determinare il controllo analogo come ritiene C. d. S. . V 22-12-05 n. 7345, vedi oltre): b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.

Ed infatti, testualmente, conclude la Corte: “Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve risolvere la questione nel senso che un mero controllo a posteriori non soddisfa il criterio del controllo della gestione figurante all'art. 1, lett. b), secondo comma, terzo trattino, della direttiva 93/36. Soddisfa per contro detto criterio una situazione in cui, da un lato, le pubbliche autorità verificano non solo i conti annuali dell'organismo considerato, ma anche la sua amministrazione corrente sotto il profilo dell'esattezza, della regolarità, dell'economicità, della redditività e della razionalità e, dall'altro, le stesse autorità sono autorizzate a visitare i locali e gli impianti aziendali del suddetto organismo e a riferire sul risultato di tali verifiche a un ente locale che detenga, tramite un'altra società, il capitale dell'organismo di cui trattasi.”

Si può quindi concludere che è necessario si realizzi quello che è definito “controllo strutturale”, ma che questo non può limitarsi agli aspetti formali relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario.

17. Questo ultimo punto, del possesso del capitale sociale, richiede una precisazione.

L’aspetto non era stato sufficientemente trattato nella sentenza Teckal, ma la Corte ha avuto modo di ulteriormente approfondirlo, giungendo a conclusioni molto trancianti vale a dire che condicio sine qua non perché si verifichi un legittimo affidamento diretto è che il capitale sociale appartenga interamente al soggetto pubblico, dato che “la partecipazione anche minoritaria di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi” (Stadt Halle, C-26/03, punto 49, 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32). Ancora una volta la Corte appunta la sua attenzione sulla situazione di vantaggio che deriverebbe indirettamente al soggetto privato il quale, per il solo fatto di essere associato con un soggetto pubblico, godrebbe di un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti privati, sia nei riguardi dell’appalto pubblico, sia nei confronti del mercato privato (punto 51 della sentenza Stadt Halle citata).

Appare evidente dalla giurisprudenza citata, tuttavia, che il requisito del possesso totale della mano pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente. Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza in ordine ai poteri di indirizzo e controllo che si è sopra richiamata, atteso che, soprattutto nel nostro ordinamento giuridico, la condizione di socio unico proprietario non necessariamente garantisce un potere diretto sulle strategie e sugli indirizzi della società, dovendo la volontà di esso comunque essere filtrata ed attuata dagli organi societari. Per tale motivo la Corte ha superato il precedente orientamento di cui era espressione C.d.S., V, 22 dicembre 2005 n. 7345 già citata.

Ma ancora, la Corte si è spinta più avanti, prevenendo la possibilità concretamente realizzatasi in varie circostanze, che il soggetto economico avvantaggiato dall’affidamento diretto perché interamente pubblico, rientrasse successivamente nel circuito privato. Da ciò il principio per cui lo statuto dell’affidatario diretto non deve prevedere la cessione, anche solo di parte, del capitale azionario a futuri soci privati.

Si è già osservato che nella sentenza Teckal la Corte richiama la situazione di dipendenza sostanziale tra il soggetto affidante e affidatario anche sotto il profilo della prevalenza della attività svolta dall’impresa affidataria (“la parte più importante ….”).

Si sono già esplicitati i motivi economici sottostanti a questa impostazione. La limitazione della attività “privata” della impresa non rileva nei confronti del mercato pubblico delle commesse, quanto piuttosto nei confronti del mercato privato. I requisiti funzionali soddisfatti dal “controllo analogo” sono sufficienti per qualificare l’impresa come, sostanzialmente, un braccio operativo della amministrazione, sotto i due profili sostanziali della supremazia e della proprietà; essi, però, non sono sufficienti ad impedire la distorsione della concorrenza nel mercato privato, anzi, paradossalmente, la aggravano perché permettono, in astratto, che solide imprese pubbliche, ben governate dagli organi pubblici, acquisite remunerative commesse pubbliche, si presentino sul mercato privato in condizioni di forte concorrenza.

Pertanto, unitamente agli altri elementi qualificanti, quali il controllo totalitario della partecipazione (sentenze Stadt Halle, C-26/03, punti 49 e 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32) l’esercizio diretto deve essere caratterizzato dalla quasi esclusività, quantitativa e qualitativa, delle attività svolte dall’impresa nei confronti dell’Ente controllante (sentenza Carbotermo spa C-340/04, punti 62, 63, 64).

18. Questo ultimo punto giova essere brevemente approfondito.

Sembrano ormai chiari, ripercorrendo l’iter logico ed evolutivo della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, i motivi e gli scopi ultimi delle norme, anche pretorie, consolidatesi nella materia. La giurisprudenza traccia dell’affidatario diretto un ritratto stringente, che, in parole povere e sincreticamente, potremmo definire come una mera articolazione interna della pubblica amministrazione sia pure sotto una forma giuridica che ne separa la personalità.

Che questa articolazione svolga i suoi compiti contrattuali esclusivamente nei confronti dell’Ente è, quindi, conseguenza logica ed ineludibile.

La giurisprudenza della Corte si è astenuta dall’indicare parametri numerici, quali principalmente la quota di fatturato ”pubblico” rispetto a quello privato, e con saggezza.

Più ancora che l’individuazione di una soglia percentuale necessita un giudizio pragmatico nel caso concreto che si basi, però, non solo sull’aspetto quantitativo, ma anche su quello qualitativo. In altri termini, la natura dei servizi, opere o beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto nel mercato pubblico e privato. Che un’impresa creata per gestire lo spin off immobiliare di un grande ente locale come una Provincia, fornisca, saltuariamente, una sola volta nell’anno, e in quantità irrisoria rispetto al fatturato pubblico, un servizio di global service ad una grande impresa privata dello stesso territorio, particolarmente importante sotto il profilo sociale, potrebbe non violare il principio della prevalenza. Ma se la stessa operazione, negli stessi limiti quantitativi, cominciasse ad inserirsi in un piano aziendale di espansione, anche territoriale, ciò implicherebbe una rilevanza “qualitativa” della operazione in contrasto con il principio della prevalenza.

Sotto questo profilo la giurisprudenza della Corte e del Consiglio di Stato mostrano di ritenere a priori che l’espansione territoriale, anche a vantaggio di altri enti pubblici analoghi, violi la prevalenza. Questo Consiglio condivide pienamente questo indirizzo.

Sembra piuttosto evidente che l’impresa controllata da un ente locale, nel momento in cui partecipa ad una gara fuori territorio, sia pure bandita da un ente locale analogo a quello che la controlla (in ipotesi comune e comune) si pone nei confronti del mercato imprenditoriale locale come concorrente sleale (per i motivi ampiamente sopra illustrati) e quindi non solo questa sua espansione può condurre da un lato alla inammissibilità della sua partecipazione alla gara, fino a che dura il regime di affidamento diretto nei confronti del suo ente controllante, ma anche al venire meno della sua qualifica di soggetto “affidatario diretto” (o soggetto in house come si dice nel gergo comune), sì che delle due l’una: o l’impresa non partecipa a gare fuori territorio, e mantiene così il suo status, o vi partecipa, e perde il suo status, con le ovvie conseguenze nei confronti della legittimità dell’affidamento diretto già realizzato o da realizzare. Già con la sentenza n. 4586 del Consiglio di Stato, sez. V, del 3 settembre 2001, si era ritenuto che il vincolo territoriale entrasse in gioco qualora la distrazione di mezzi e di risorse fosse realmente apprezzabile e tale da creare nocumento agli interessi della comunità locale espressione della società.

Il Consiglio giudicava la questione sotto il profilo dell'interesse pubblico dell’ente promotore della società, preoccupandosi che non si verificasse una sorta di “peculato per distrazione” delle risorse dall’una all'altra comunità locale. L’extraterritoriale influenza, quindi, la legittimazione alla gara nella visione del Consiglio. La tesi è esatta e condivisibile, sotto questo profilo, ma deve essere integrata con le considerazioni di diritto comunitario sopra esposte. In effetti, la circostanza che l’affidatario diretto impieghi risorse consistenti fuori del territorio di competenza del suo ente promotore, è non solo indice di una possibile cura affievolita dell’interesse pubblico di questi, ma anche, e soprattutto, della rilevanza della attività a favore di soggetto diverso dal suo ente proprietario. Quindi l’extraterritorialità della attività incide, a priori, proprio sul concetto di prevalenza, particolarmente nel senso qualitativo che si vedrà infra.

A fortiori, infine, è del tutto da escludere un affidamento diretto da parte del secondo soggetto pubblico, atteso che esso, pur rivestendo una qualificazione pubblica, non è proprietario del pacchetto azionario e dunque non esercita alcun controllo, né analogo né difforme, sull’impresa affidataria.

Per concludere sul punto, si deve ritenere che il criterio della prevalenza (“la parte più importante…”) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante.

A tale proposito si ricorda la più volte citata sentenza della Corte Europea in causa Spagna/Commissione, C-349/97 del 8 maggio 2003, punto 204, nella quale la Corte, interpretando se stessa, ha assimilato l’espressione “più importante”, in precedenza utilizzata, al termine “essenziale”, come pure ha fatto nella citata sentenza Parken Brixen, punto 71.

Si veda, soprattutto, questa ultima sentenza, nella quale la corte esprime un concetto fondamentale. Essa, infatti, sincreticamente considera l’aspetto qualitativo e quantitativo, riferendosi al fatto che il soggetto “ha invece acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo del comune. In questo senso militano: a) la trasformazione della azienda speciale in società per azioni; b) l’amplia-mento dell’oggetto sociale; l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; c) l’espansione territoriale; d) i considerevoli poteri conferiti al Consiglio di Amministrazione.” Come è evidente il punto chiave è ”l’acquisizione di una vocazione commerciale” che, dietro lo schermo della forma giuridica della società pubblica, di fatto consegna questo imprenditore al mercato libero, pur in condizioni di privilegio. In tale motivazione cogliamo quindi, frammisti, i concetti del controllo analogo, ma anche della prevalenza della attività, sussunti nella rilevante definizione di: “voca-zione commerciale”. Da essa, per altro, C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440 che inserisce definitivamente tale giurisprudenza anche nel circuito giurisprudenziale pretorio del Giudice amministrativo italiano.

Ma soprattutto la sentenza Carbotermo chiarisce i termini. Nel punto 62 utilizza l’espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale”, e nel punto successivo afferma: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altar attività risulta avere solo un carattere marginale”.

Il cammino della giurisprudenza della Corte Europea, che ha sempre più ristretto il concetto espresso da quella espressione “parte più importante”, lascia prevedere che il traguardo definitivo della totale esclusività sia assai prossimo. Si parte infatti dalla espressione “parte più importante” della sentenza Teckal, redatta in lingua italiana, e Stadt Halle, redatta in lingua tedesca, alla complessa motivazione della sentenza Parken Brixen appena citata, alla espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale in questione”, sentenza Carbotermo, C340/04 del 11 maggio 2006, punto 62, sopra citata, anch’essa redatta in lingua italiana.

Le differenze linguistiche sono essenziali per comprendere la volontà della Corte, perché, per quanto quella redatta nella lingua processuale faccia fede, le altre chiariscono, con le sfumature, il significato dei termini meno precisi ed integrano quello che potremmo definire “il diritto vivente” nella comparazione dei diversi linguaggi giuridici.

L’espressione, in italiano nelle due prime sentenze, “parte più importante” è stata tradotta in tedesco con “im wesentlichen” che significa, in realtà, “essenzialmente”, e con il medesimo senso è stata tradotta in inglese: “the essential part of his activities”; in francese: “l’essentiel de son activité”.

Nella sentenza Stadt Halle, redatta in tedesco, compare infatti direttamente l’espressione “im wesentlichen” (essenzialmente). Nella sentenza Parken Brixen, redatta in tedesco ma proveniente da un rinvio del TAR di Bolzano e successivamente recepita con gli stessi termini dai giudici italiani di lingua tedesca, ben coscienti delle sfumature di significato, si usa ancora il termine “im wesentlichen”, anche se la traduzione in italiano, tralaticiamente, torna ad usare l’espressione “più importante.

Si comprende agevolmente come “essenziale” rinvii ad un concetto qualitativo, oltre che quantitativo, facendo riferimento all’”essenza”, ovvero all’ubi consistam dell’affidatario diretto. In altri termini, la Corte accetta un’attività esterna puramente marginale, insignificante, non essenziale, assai prossima ad un’inesistenza, che è il modo speculare di vedere l’esclusività.

Ma infine, realmente conclusivi sono il punto 62 e 63 della sentenza Carbotermo. Nel punto 62 la Corte usa l’espressione, in lingua italiana, “sostanzialmente destinate in via esclusiva”, già sufficientemente chiara in italiano per la verità, essa è tradotta in tedesco: “im Wesentlichen nur für diese Körperschaft erbracht werden” cioè, esattamente esprimendo il concetto che l’attività sia essenzialmente riservata solo all’ente. In francese è stata resa con: “substantiellement destinées à cette seule collectivité”, ed in inglese, con il medesimo significato: “undertaking’s services be intended mostly for that authority alone”. In aggiunta, il punto 63 della medesima sentenza definisce, a contrario, quali siano le attività che non elidono il nesso dell’affidamento diretto: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”. Il concetto di marginalità è reso in tedesco: “jede andere Tätigkeit rein nebensächlich ist” (espressione che sottolinea che l’attività è “veramente, autenticamente, puramente” (rein) marginale, di secondaria importanza), in francese: “toute autre activité ne revêtant qu’un caractère marginal”, in inglese: “marginal significance”, entrambe espressioni simili a quella italiana.

Concludendo, si comprende che si sia ad un passo dalla totale esclusività, e che, per l’intanto, il giudizio deve essere espresso secondo parametri di eccezionale ristrettezza quantitativa e qualitativa.

19. Illustrati i principi guida derivanti dall’ordinamento comunitario ed italiano, dalla giurisprudenza della Corte Europea e del Consiglio di Stato, appare agevole concludere che, nella specie, l’affidamento diretto del servizio in questione alla W. s.p.a. sia illegittimo perché carente dei requisiti necessari a realizzare la così detta “eccezione Teckal”.

In primo luogo si osserva che l’onere della prova della esistenza delle condizioni legittimanti l'eccezione, spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto, come ritenuto dalla giurisprudenza comunitaria sopra citata. Nella specie tali prove non sono state fornite.

Il Comune di Catania si è limitato a postulare:

1.      Il completo possesso pubblico del pacchetto azionario con Italia Lavoro s.p.a. La circostanza non solo è inconferente, ma anzi milita a sfavore dell’affidamento diretto. L’Italia Lavoro s.p.a. possiede, come è emerso in corso di causa, il 49 per cento del pacchetto azionario. Essa, inoltre, non è destinataria dei servizi della W. che sono peculiari alla attività comunale e non di una società come l’Italia Lavoro. Riesce difficile comprendere come possa ipotizzarsi un controllo completo delle strategie aziendali quando l’ente aggiudicante deve mediare il controllo proprietario con altro soggetto, sia pure pubblico, che persegue diversi interessi pubblici. In ogni caso, la Corte europea ha ammesso la pluralità di soggetti pubblici controllanti, ma la ha condizionata alla omogeneità degli interessi, oltre che alla costituzione, nel caso di pluralità ampia, di un ufficio apposito per il coordinamento del controllo strutturale. Quanto poi alla possibile pluralità dei soggetti pubblici proprietari, è evidente che gli stessi devono trovarsi in condizione di omogeneità di interessi e di bisogni. Vale a dire che la società in questione deve essere di proprietà di enti pubblici i quali, attraverso di essa, soddisfino i medesimi bisogni: più comuni per la gestione dei rifiuti o dei servizi di illuminazione, un comune ed un provincia per la gestione di un servizio di trasporto e così via. Identici i bisogni e quindi identici gli interessi pubblici. Solo in tal caso si può ammettere che lo stesso bisogno sia soddisfatto, da soggetti giuridicamente diversi, affidandosi in maniera diretta alla medesima impresa controllata. Solo incidentalmente si osservi, per altro, che già nella sentenza Parken Brixen la Corte ribadisce la convinzione, recepita dalla giurisprudenza italiana, che non siano soddisfatte la condizione del possesso interamente pubblico delle azioni nel caso in cui lo statuto della società partecipata preveda la dismissione delle o di parte delle quote. Nella specie la circostanza riguarda, come è evidente, non la W. s.p.a, ma l’Italia Lavoro s.p.a., cioè il soggetto proprietario. Ma poiché l’affidamento diretto troverebbe il presupposto nella totale partecipazione pubblica, la norma circa l’incedibilità a privati del pacchetto azionario deve essere riferita non solo all’affi-datario diretto, ma anche ai soggetti pubblici proprietari, poiché è evidente che se il soggetto proprietario divenisse partecipato dai privati, anche l’impresa controllata sarebbe, per interposta persona, di proprietà pro quota di privati, venendo meno la condizione richiesta.

2.      La sussistenza del controllo analogo solo per il fatto di nominare il presidente del consiglio di amministrazione, i membri dell'intero consiglio e collegio sindacale. Si è già osservato che, nella struttura del nostro diritto societario, ciò non implica necessariamente il completo controllo ed indirizzo delle politiche aziendali. A tal proposito la Giurisprudenza comunitaria, e questo collegio condivide pienamente l’indirizzo, richiede la sussistenza di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri “di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo” (Cons. di Stato, V, 22 aprile 2004, n. 2316). Nessuna prova è agli atti della esistenza di un siffatto pregnante potere di indirizzo.

3.      La prevalenza della attività. Dinanzi ad un’attività imprenditoriale pubblica del 62 per cento viene meno perfino la necessità di un giudizio sulla prevalenza qualitativa, atteso che un’attività sul mercato esterno all’ente proprietario pari al 38 per cento del fatturato non può certo definirsi irrisoria. Si aggiunga che la W. ha realizzato parte di questo 38 per cento di fatturato, fuori dell’ambito territoriale di competenza del comune di riferimento. Tale circostanza sarebbe sufficiente, per quanto si è detto, per ritenere la decadenza dello status di società affidataria diretta.

E’ pertanto assente qualsiasi prova in merito alla sussistenza delle condizioni ampiamente illustrate in precedenza per la realizzazione della eccezione Teckal.

Anzi, si osservi che proprio la W. s.p.a., nel suo atto di appello, fornisce la base argomentativa per una decisione ad essa sfavorevole. In essa si prospetta che “Premesso che le programmazioni strategiche di una società hanno obiettivi di lungo periodo, tali da ricomprendere non solo le attività tipicamente svolte, ma anche quelle che la società si propone di svolgere nel futuro, appare evidente che, ai fini della questione che ci interessa, rileva esclusivamente la concreta attività svolta dalla società e non le sue mire imprenditoriali.” Con ciò la società intimata ammette la presenza di strategie aziendali di lungo periodo che la vedranno impegnata in attività fuori ambito e comunque non con l’ente controllante, assai rilevanti nella gestione aziendale. Tutto ciò è perfettamente legittimo, anzi commendevole, nell’ottica di una sana gestione imprenditoriale, solo che è del tutto estraneo alle condizioni legittimanti l’affidamento diretto, dimostrando che la detta strategia aziendale si ispira a criteri del tutto opposti alla irrisorietà quantitativa ed alla irrilevanza qualitativa della attività non in essere con il soggetto controllante.

20. In conclusione, l’appello è infondato, poiché la W. s.p.a., allo stato, dimostra di non corrispondere minimamente alle condizioni necessarie per esser qualificata come soggetto di affidamento diretto.

21. Parzialmente infondato è altresì l’appello incidentale della X. s.n.c. nella parte in cui reitera le doglianze contro le deliberazioni di costituzione della società ed il contratto di servizio, assorbite dal TAR. A prescindere da qualsiasi considerazione di tardività, non sussiste l’interesse alla impugnazione di tali delibere poiché esse costituiscono solo l’atto con cui il Comune dà vita alla società potenzialmente ad affidamento indiretto. Una tale decisione non trova controinteressati, poiché determina conseguenze giuridiche solo all’inter-no della organizzazione dell’ente pubblico, proprio per le considerazioni sopra avanzate circa la sostanziale assimilazione della detta società ad un organismo interno della Pubblica Amministrazione. Solo la realizzazione dell’affidamento diretto, nella misura in cui esso avvenga in violazione dei principi italiani e comunitari estesamente citati precedentemente, è lesivo dell’interesse delle società del mercato. In altri termini l’affidamento diretto come strumento giuridico in sé considerato, l’utilizzazione se si vuole della “eccezione Teckal”, non produce alcuna lesione se non ove realizzato, concretamente, in violazione di legge. Ne consegue che qualunque impresa del settore è del tutto estranea ed indifferente alla decisione di costituire la società, mentre sarà tutelata quando, e se, l’affidamento diretto effettivamente avvenga in maniera illegittima.

Sussistono giustificati motivi per la compensazione integrale delle spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio, attesa la novità della materia.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando respinge gli appelli riuniti, respinge il ricorso incidentale.

Compensa integralmente le spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 29 novembre 2006 e del 12 dicembre 2006, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Claudio Zucchelli, estensore, Pietro Falcone, Antonino Corsaro, Francesco Teresi, componenti.

F.to: Riccardo Virgilio, Presidente

F.to: Claudio Zucchelli, Estensore

F.to: Loredana Lopez, Segretario

Depositata in segreteria il 4 settembre 2007.

 


 

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