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Temi concorsi - Uditore giudiziario militare | |
Associazione
di
giuristi A c c a d e
m i a di S t
u
d i G i u r i d i c i DISPENSE DIRITTO
AMMINISTRATIVO Ugo
Di Benedetto Aggiornamenti
2007 Uso
riservato interno in
house providing e società miste 1. Dottrina: Ugo
Di Benedetto, Diritto amministrativo –
giurisprudenza e casi pratici, 2007, ed
Maggioli D. L. 4 lglio 2006
conv. in legge 4 agosto 2006, n. 248 divieto delle
società miste o con capitale
interamente
pubblico di costituite per la produzione di beni e servizi
nell’interesse degli enti di svolgere attività
extraterritoriale (esclusi servizi pubblici locali). Cons.
Stato, sez. VI, 1 giugno 2007, n.
2932 in house providing e controllo analogo REPUBBLICA
ITALIANA IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il
Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 5644/2002, proposto
dal
Comune di Monte Argentario, nella persona del Sindaco in carica,
rappresentato
e difeso dagli avv.ti Porf. Andrea Guarino, Prof. Giuseppe Stancanelli
ed
Umberto Gulina, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del
primo, in
Roma, Piazza Borghese, n. 3; contro il Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti, in
persona del Ministro in carica, e la Capitaneria di Porto di Livorno,
in
persona del Comandante in carica, rappresentati e difesi ex lege
dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, via
dei
Portoghesi n. 12, sono per legge domiciliati; e il Genio Civile Opere Marittime di Roma, in
persona
del legale rappresentante pro tempore, non costituito; e la Regione Toscana, in persona del Presidente
dalla
Giunta Regionale, non costituitasi nel giudizio di appello; e la S.p.A. Porto Turistico Domiziano, in
persona del
legale rappresentate in carica, rappresentata e difesa dagli avv.ti
Giancarlo
Baschieri Salvadori, Prof. Giuseppe Morbidelli ed Umberto Righi, ed
elettivamente domiciliata presso lo studio degli ultimi due in Roma,
Via G.
Carducci, 4; per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo
per la
Toscana, sez. I, n. 710 del 9 aprile 2002, resa inter
partes; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio
dell’Avvocatura dello Stato e della Società Porto Turistico
Domiziano s.p.a.; Visto il ricorso incidentale proposto dalla
Società
Porto Turistico Domiziano s.p.a.; Viste le memorie presentate dalle parti a
sostegno
delle loro rispettive ragioni; Visti gli atti tutti della causa; Relatore
alla udienza pubblica del 3 aprile 2007 il Consigliere Roberto
Giovagnoli, ed
uditi altresì l’avv. Martelli per delega dell’avv. Guarino,
l’avv. dello Stato
Quattrone e l’avv. Manzi per delega dell’avv. Righi; Ritenuto
e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F
A T T O
E D I R I T T O 1.
Con sentenza n. 710/2002, il T.A.R. per la Toscana, Sezione Prima,
previa
riunione di 7 ricorsi (n. 2210, 3560 e
4469 del 1995, n. 2750 e 4115 del 1996, n. 807 e n. 1074 del 2001), ha
respinto
i primi due - proposti dal Comune di Monte Argentario - dichiarando
inammissibili i ricorsi incidentali della parte controinteressata; ha
dichiarato inammissibile il terzo ed ha accolto gli ultimi quattro -
proposti
dalla società Porto Turistico Domiziano - disponendo infine la
condanna alle
spese a carico solidale del Comune di Monte Argentario e della Regione
Toscana
in favore della controinteressata società Porto Turistico
Domiziano. Gli atti
oggetto delle
originarie impugnazioni, poi riunite, erano i seguenti: -
ric. n. 2210/95 (proposto dal Comune di Monte Argentario) contro il
decreto di
comparazione del 20.04.95 del Capo del Compartimento Marittimo di
Livorno
recante l'assenso alla società Porto Turistico Domiziano di
concessione
demaniale marittima; -
ric. n. 3560/95 (proposto dal Comune di Monte Argentario) contro la
licenza di
occupazione dello specchio acqua per la realizzazione dell’approdo
turistico,
rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Livorno in favore della
società Porto
Turistico Domiziano in data 16.09.1995; -
ric. n. 4469/95 con il quale la società Porto Turistico
Domiziano ha impugnato
la deliberazione della Giunta Regionale Toscana n. 3854 del 24.07.95 di
approvazione della variante parziale al P.R.G. di Monte Argentario; -
ric. n. 2750/96, con il quale la stessa società Porto Turistico
Domiziano ha
impugnato l'ordinanza del Sindaco di Monte Argentario di sospensione
dei lavori
di installazione dei pontili galleggianti; -
ric. n. 4115/96, con il quale la società Porto Turistico
Domiziano ha impugnato
il provvedimento n. 3154/96 con il quale il Sindaco del Comune di Monte
Argentario ha negato il rilascio della concessione edilizia; -
ric. n. 807/01, con il quale la società Porto Turistico
Domiziano ha impugnato
il provvedimento dirigenziale n. 5852/01 del Dirigente del III Settore
Edilizia
Privata del Comune di Monte Argentario, con il quale è stata
respinta la
domanda di concessione edilizia in sanatoria; -
ric. n. 1074/01, con il quale la società Porto Turistico
Domiziano ha impugnato
il provvedimento dirigenziale n. 8583/01 del Dirigente del III Settore
Edilizia
Privata del Comune di Monte Argentario, con il quale è stata
respinta l'istanza
di concessione edilizia per l'ampliamento ei pontili galleggianti. 2. Contro la
sentenza
del T.a.r. Toscana ha proposto appello il Comune di Monte Argentario
formulando
i seguenti motivi di gravame: a)
Violazione
dell’art. 37 del codice
della navigazione. Eccesso di potere per omessa valutazione di
circostanze
rilevanti. Difetto di motivazione e di istruttoria. Errore nei
presupposti. b)
Falsa
applicazione della variante
urbanistica approvata con delibera della Giunta Regionale n. 3854 del
24.7.1995. c)
Falsa
applicazione della normativa
urbanistica. 3. Si è
costituita in
giudizio la società Porto Turistico Domiziano s.p.a., che ha
chiesto il rigetto
dell’appello e ha riproposto, nelle forme dell’appello incidentale, i
ricorsi
incidentali già proposti in primo grado e dichiarati
inammissibili dal T.a.r. a
seguito del rigetto del ricorso principale. Si
è costituita, altresì, in giudizio l’Avvocatura Generale
dello Stato, per il
Ministero dei Trasporti e la Capitaneria di Porto di Livorno,
insistendo per il
rigetto dell’appello. 4. All’udienza
del 3
aprile 2007, su richiesta delle parti, la causa è stata
trattenuta in
decisione. 5. L’appello
è
infondato. 6. Con il primo
motivo
di gravame, il Comune di Monte Argentario sostiene
l’illegittimità
dell’assentimento e poi del rilascio alla società Porto
Turistico Domiziano
della concessione demaniale dello specchio acqueo ricompresso nel Porto
di S.
Stefano (tra il molo Garibaldi e il pontile del Valle). 6.1. Giova
rilevare
preliminarmente che la Capitaneria di Porto di Livorno, nell’effettuare
la
valutazione comparativa tra l’istanza di concessione demaniale
presentata dal
Comune di Monte Argentario e quella presentata dalla società
Porto Turistico
Domiziano, ha preferito quest’ultima sulla base di due elementi, i
quali
emergono chiaramente dalla lettura del provvedimento della Capitaneria
di Porto
del 20.4.1995. L’Autorità
portuale, in particolare, ha ritenuto: -
che la società di Porto Domiziano offrisse “maggiori
garanzie di proficua utilizzazione della concessione. Ciò in
quanto il Comune
si propone richiedente di concessione demaniale con il dichiarato
intento di
procedere a sub-concessione ad una società per azioni in cui lo
stesso Ente
pubblico dovrà sottoscrivere il 51% del capitale sociale […]
dimostrando in tal
modo di non avere sufficiente capacità economica sia per la
realizzazione del
progetto presentato che per la gestione […]”; - “che
la società Porto Domiziano si propone di
collocare strutture precarie, similmente al Comune di Monte Argentario,
ma con
dichiarata provvisorietà, nelle more della predisposizione degli
strumenti
urbanistici finalizzati alla realizzazione dell’approdo turistico,
sicché
risultano di immediata collocazione. Mentre il Comune si propone di
organizzare
un approdo turistico la cui concreta realizzazione è gravata e
vincolata dalla
prodromica possibilità di realizzare e rispettare i parametri
urbanistici
connessi, sì da risultare subordinata alla realizzazione globale
dell’approdo
turistico, non soddisfacendo in tempi brevi e con caratteristiche di
provvisorietà l’interesse pubblico attuale della
razionalizzazione degli
ormeggi in questione”. 6.2. Il Comune di
Monte
Argentario contesta tale provvedimento (impugnando la sentenza del
T.a.r. che
l’ha ritenuto legittimo), sostenendo che i due motivi
appena riassunti (su cui si è fondata la
decisione della Capitaneria) non corrispondano alla realtà dei
fatti. In
primo luogo, l’appellante sostiene che anche la proposta presentata dal
Comune
prevedeva un intervento immediato (l’unica differenza tra i due
progetti
sarebbe costituita dal fatto che, mentre la società Porto
Domiziano dichiarava
la provvisorietà delle strutture da collocare, il Comune aveva
inquadrato le
stesse in un’ampia prospettiva costituita dall’organizzazione di un
vero e
proprio approdo turistico, senza nulla togliere, però, alla
immediatezza
dell’intervento); 6.3. Secondo il
Comune,
inoltre, non corrisponderebbe al vero l’affermazione secondo cui la
società
Porto Domiziano offrisse maggiori garanzie di proficua utilizzazione
del bene.
Ciò perché, a differenza di quanto ritenuto nel
provvedimento impugnato: -
il capitale della Porto Domiziano non era di 400 milioni di lire, ma
solo di 63
milioni di vecchie lire (né può assumere rilievo, per
rimediare a tale erronea
rappresentazione della realtà, la circostanza, valorizzata
invece dal T.a.r.,
che il capitale sociale poteva comunque essere aumentato); -
il rapporto esistente tra il Comune di Monte Argentario e la
costituenda
società cui affidare la gestione del porto non era (come
erroneamente avrebbe
ritenuto la Capitaneria) di subconcessione, ma, al contrario, tale
rapporto
avrebbe dovuto essere ricondotto all’allora vigente art. 22, lett. e) legge n. 142/1990, venendo in
considerazione una società mista deputata alla gestione di un
servizio pubblico
locale. Tale società – sostiene ancora l’appellante nella
memoria difensiva
depositata il 23.3.2007 – non rappresenterebbe un soggetto terzo
rispetto al
Comune, ma “uno degli strumenti che la
legge prevede per la gestione del servizio mediante un organismo di
tipo
pubblicistico”. Titolare della concessione rimarrebbe, però,
sempre il
Comune, il quale si sarebbe avvalso della società mista solo per
gestire il
servizio. 7. Il motivo
è
infondato. Il
Collegio ritiene, infatti, che le ragioni alla luce delle quali la
Capitaneria
di Porto ha accordato preferenza alla proposta presentata dalla
Società Porto
Domiziano, non solo sussistono realmente, ma sono anche illustrate nel
provvedimento impugnato in maniera adeguata, coerente e razionale. 7.1. Per quanto
riguarda
le maggiori garanzie di proficua utilizzazione economica della
concessione, la
Capitaneria ha attribuito rilevanza decisiva alla circostanza che il
Comune di
Monte Argentario si proponeva di gestire il bene demaniale non
direttamente, ma
attraverso una costituenda società per azioni, partecipata dal
Comune per una
percentuale del capitale sociale non inferiore al 51%. Alla
luce di tale intenzione del Comune, la Capitaneria ha ritenuto che la
società
Porto Domiziano, che invece proponeva di gestire direttamente il bene
demaniale, offrisse maggiori garanzie di proficua utilizzazione
economica del
bene medesimo. Si
tratta di una valutazione che si sottrae alle censure sollevate
dall’appellante: il fatto che il Comune proponesse di gestire il bene
demaniale
non direttamente, ma attraverso una società mista non ancora
costituita, è
certamente un elemento in grado di condizionare in senso negativo la
valutazione spettante alla P.A. circa la proficua utilizzazione
economica del
bene che deve essere affidato in concessione. Ed
invero – anche a prescindere dalle censure sollevate con l’appello
incidentale
dalla controinteressata Porto Turistico Domiziano (secondo la quale,
l’istanza
del Comune, per il solo fatto di prevedere la gestione da parte di un
soggetto
terzo, non avrebbe dovuto neanche essere ammessa a comparazione) – la
circostanza che al momento della comparazione delle domande, la
società mista
(cioè il soggetto che in concreto avrebbe gestito il bene
demaniale) non fosse
ancora nemmeno costituita, era tale da stendere sul progetto del Comune
un
pesante velo di incertezza. Tale
incertezza (si pensi che l’Amministrazione concedente non poteva
neanche
conoscere, al momento della valutazione comparativa, quali sarebbero
stati i
soci privati che il Comune avrebbe chiamato a partecipare alla gestione
del
servizio) già di per sé giustifica la scelta
dell’Autorità portuale che ha
ritenuto il progetto del Comune di Monte Argentario meno allettante,
dal punto
di vista della proficua utilizzazione economica ed aziendale del bene,
rispetto
a quello concorrente della società Porto Turistico Domiziano. 7.2.
Né hanno pregio, sotto tale
profilo, le considerazioni dell’appellante in merito alla pretesa
identità tra
il Comune e la costituenda società mista. Non vi è
dubbio, infatti, che ai
sensi dell’art. 22 legge n. 142/1990, ed oggi dell’art. 113 T.U.E.L.,
la
società mista deputata a gestire i servizi pubblici locali
è un soggetto
formalmente e sostanzialmente distinto rispetto all’ente locale. Il
rapporto è
di terzietà non di immedesimazione. Indicazioni
univoche in tal senso
derivano proprio dal diritto comunitario e dalla giurisprudenza della
Corte di
Giustizia. Alla
stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, deve
ritenersi
che un rapporto
di
immedesimazione tra l’ente e la società chiamata a gestire il
servizio pubblico
possa riscontrarsi
solo laddove concorrano i seguenti due elementi: a)
l’amministrazione deve esercitare sul soggetto affidatario un
"controllo analogo" a quello esercitato sui propri servizi; b)
il soggetto affidatario deve svolgere
la maggior parte della propria attività in favore dell’ente
pubblico di appartenenza. In
ragione del "controllo analogo" e della "destinazione prevalente
dell’attività", l’ente (c.d. in house) non può
ritenersi terzo
rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno
dei
servizi propri dell’amministrazione stessa (principi affermati dalla
Corte di
giustizia a partire dalla sentenza Teckal
del 18 novembre 1999, C-107/98). La
Corte di Giustizia ha tuttavia escluso che possa sussistere il
controllo
analogo in presenza di una compagine societaria composta anche da
capitale
privato (Corte di giustizia, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt
Halle; 11 maggio 2006, C-340/04). Secondo
la Corte di Giustizia, inoltre, la partecipazione pubblica totalitaria
è
elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del
controllo analogo. I
giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di
controllo da
parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile: -
il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve
avere
rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare
maggiori
poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla
maggioranza
sociale; -
l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che
rende precario
il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra
l’altro,
dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della
società
ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività
della società a
tutta il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13
ottobre
2005, C-458/03, Parking Brixen; 10
novembre 2005, C-29/04, Mödling;
anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo
analogo
in presenza della semplice previsione nello statuto della
cedibilità delle
quote a privati); -
le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio
preventivo
dell’ente affidante (in questo senso, anche Cons. Stato, V, 8 gennaio
2007 n.
5). E’
evidente, allora, che, nel caso di specie, la società che il
Comune di Monte
Argentario si proponeva di costituire non poteva certo essere
ricondotta a
quel fenomeno di immedesimazione che
ricorre solo in presenza dei requisiti dell’in
house: da un lato, infatti, lo statuto prevedeva una consistente
apertura
all’ingresso di soci privati (sino al 49% del capitale); dall’altro,
non
risultavano predisposti strumenti di controllo da parte dell’ente
pubblico
ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto commerciale. Esclusi
i presupposti dell’in house, e
quindi, esclusa la sussistenza di un rapporto di immedesimazione tra
l’ente e
la società, diventava anche problematico giustificare, sempre
alla luce dei
principi di diritto comunitario, l’affidamento diretto (che il Comune
intendeva
porre in essere) della gestione del bene demaniale alla costituenda
società
mista. Tutti
questi elementi erano certamente tali da incidere negativamente, come
la
Capitaneria ha correttamente rilevato nel provvedimento impugnato, sul
progetto
presentato dal Comune, giustificando così la preferenza
accordata al progetto
concorrente, ritenuto in grado di offrire maggiori garanzie di proficua
utilizzazione economica. 7.3.
Né si può ritenere che tali considerazioni rappresentino
una forma di
integrazione giudiziale della motivazione contenuta nel provvedimento
impugnato. Nel provvedimento, la Capitaneria afferma chiaramente che il
progetto presentato dal Comune offre minori garanzie di proficua
utilizzazione
economia perché prevede l’affidamento ad un società mista
partecipata solo per
il 51% dal Comune. Gli
elementi motivazionali rilevanti solo dunque tutti contenuti nella
motivazione
dell’atto impugnato. L’individuazione delle ragioni giuridiche che
rendono tale
motivazione legittima appartengono, in base al principio iura
novit curia, al Giudice amministrativo, senza che ciò
rappresenti una integrazione della motivazione già compiutamente
formulata
dall’Amministrazione. 7.4. Non ha rilievo, infine, il
fatto che il
provvedimento faccia riferimento ad un capitale sociale dichiarato
della
società Porto Domiziano di 400 milioni di vecchie lire. Si
tratta, infatti, di
un dato non decisivo nell’economia complessiva della comparazione, in
quanto
tale dato, anche a ritenerlo non esatto, nulla toglie alla valutazione
negativa
espressa, in punto di garanzie di proficua utilizzazione economica, al
progetto
presentato dal Comune di Monte Argentario. 7.5. Parimenti infondate sono le
censure
rivolte all’altro profilo motivazionale su cui si fonda la preferenza
accordata
alla Porto Domiziano: la capacità del progetto presentato da
quest’ultimo di
soddisfare in tempi brevi e con caratteristiche di provvisorietà
l’interesse
pubblico attuale della razionalizzazione degli ormeggi in questione. Premesso che si tratta un
aspetto che
attiene alla valutazione dell’interesse pubblico da soddisfare e,
quindi, al
merito dell’azione amministrativa, rispetto al quale il sindacato
giurisdizionale può esercitarsi solo attraverso le c.d. figure
sintomatiche
dell’eccesso di potere, va rilevato come, nel caso di specie, gli
indici di
sviamento denunciati dal Comune appellante non sussistono. Emerge, infatti, dagli atti che
il
progetto della Porto Domiziano si presentava di realizzazione
più pronta e più
semplice (installazione di pontili galleggianti precari e rimovibili)
di quello
presentato dal Comune, il quale si proponeva la realizzazione di una
struttura
più complessa, implicante la necessità di lavori
importanti nello specchio
acqueo, con posa in opera di strutture che, da un lato, avrebbero
richiesto
tempi più lunghi di realizzazione e, dall’altro, avrebbero
modificato
sensibilmente lo stato dei luoghi. Poiché l’Amministrazione
ha ritenuto
conforme all’interesse pubblico la realizzazione di interventi
provvisori (tali
da risolvere i problemi dell’ormeggio senza incidere sui successivi
assetti) e
di pronta realizzazione, si giustifica la preferenza accordata al
progetto
Porto Domiziano, ritenuto più adeguato rispetto alle esigenze di
rapidità e
provvisorietà. Né rileva in senso
contrario, quale indice
di contraddizione e quindi di sviamento, il fatto che nel provvedimento
si dà
atto che anche il Comune si proponesse di realizzare strutture
precarie. La
Capitaneria spiega diffusamente, infatti, che l’intervento del Comune
richieda
tempi di realizzazione più lunghi e, soprattutto, sia volto ad
una più profonda
trasformazione dello stato dei luoghi. Anche sotto questo profilo,
quindi, il
primo motivo di appello è infondato. 8.
Con il
secondo motivo di
appello, il Comune di Monte Argentario lamenta la violazione della
variante
urbanistica al P.R.G. approvata con delibera della Regione Toscana n.
3854 del
24 luglio 1995. Secondo l’appellante il
ragionamento
svolto sul punto dal T.a.r. Toscana (che ha ritenuto la variante al
P.R.G.
inapplicabile alla fattispecie in esame) sarebbe viziato perché
non tiene conto
del fatto che, in virtù del principio di leale collaborazione,
il Piano
Regolatore Portuale non può porsi in contrasto con il Piano
Regolatore Generale
e viceversa. 8.1. Anche tale motivo è
infondato. Come questo Consiglio di Stato ha già
avuto modo di rilevare
(Consiglio Stato, sez. IV, 24
marzo 2006, n. 1538), le
aree portuali sono assoggettate al regime demaniale ai sensi dell'art.
28,
comma I, lettera a), del codice della Navigazione. L'articolo 30 del codice della navigazione
prevede che
spetta alla amministrazione della Marina Mercantile regolare l'uso di
tali beni
con possibilità di delega della potestà ad altri enti,
tra cui l'Autorità
Portuale. La legge n. 84/1994, come modificata dalla
legge n.
647/1996, all'art. 5, comma 3, prevede che nei porti di cui al comma 1
nei
quali è istituita l'Autorità Portuale, il Piano
Regolatore è adottato dal
Comitato Portuale previa intesa con il comune o i comuni interessati. Ai sensi dell'art. 27 L. 84/1994 i piani
regolatori
portuali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge
conservano
efficacia fino al loro aggiornamento. Essendo, lo strumento pianificatore
dell'ambito
portuale, il Piano Regolatore Portuale, da aggiornarsi ai sensi
dell'art. 27 L.
84/1994, l'Autorità alla quale è attribuito il potere
pianificatorio nell'area
pertinente al Demanio Marittimo Portuale e alla quale è affidata
la competenza
dell'aggiornamento del Piano Regolatore Portuale è
l'Autorità Portuale. Pertanto, il piano portuale determina,
nell'ambito
portuale, l'assetto viario, la sistemazione degli edifici, la
distribuzione
degli impianti. Oggetto del piano non sono solo i beni demaniali, ma
tutti i
beni che insistono nell'area portuale, e che possono appartenere anche
a
privati (art. 5, comma 1). Esso è di competenza della
Autorità Portuale, salva
l'intesa con il comune o i comuni interessati. Il piano regolatore portuale si colloca nel
novero dei
piani speciali di competenza di quegli enti pubblici, diversi da
Regione e
Comune, ai quali leggi statali o regionali attribuiscono specifiche
funzioni di
pianificazione territoriale (art. 3, comma 2, L.R. 19/11/1991, n. 52). Esso costituisce lo strumento pianificatorio
nell'ambito portuale, avente natura esclusivamente tecnica e
finalizzato allo
svolgimento delle attività portuali. Dal punto di
vista urbanistico, la legge regionale della Toscana (l.r. 68/1997)
prevede,
all'articolo 9, che per i porti e approdi turistici il Comune
predispone un
piano regolatore, previa intesa con l’Autorità marittima. La regola per
definire i rapporti tra piano regolatore generale e piano portuale
è, pertanto,
quella della intesa. Ciò significa
che l'adozione e le modifiche sia dei piani comunali sia dei piani
speciali -
come quello portuale - non sono possibili senza una previa intesa con
le altre
autorità coinvolte, costituendo l'intesa lo strumento previsto
dall'ordinamento
in uno spirito di collaborazione tra enti pubblici, mirante a dirimere
i
contrasti e a trovare accordi. Nella specie, il
Comune, ha agito adottando lo strumento della variante, compiendo
determinate
scelte urbanistiche precise su una zona soggetta a piano speciale,
senza alcuna
previa intesa con l'autorità preposta. Ne discende che,
come ritenuto dal Giudice di primo grado, in assenza dell’intesa, la
variante
al P.R.G. approvata dalla Regione con delibera n. 3854/1995 non
può essere
applicata nell’area demaniale oggetto del presente giudizio, né
interferire con
la gestione della stessa. Ciò implica che la Capitaneria di
Porto non era
tenuta, nel rilascio della concessione demaniale alla società
Porto Domiziano,
alla osservanza della delibera regionale medesima. 9. Con il terzo motivo di appello
si
contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha accolto i
ricorsi
proposti dalla società Porto Domiziano avverso: la sospensione
dei lavori di
installazione dei pontili provvisori, il diniego di rilascio di
concessione
edilizia cautelativamente richiesta, il diniego di concessione edilizia
in
sanatoria cautelativamente richiesta, il diniego di nuova concessione
edilizia
per l’ampliamento dei pontili galleggianti nello stesso specchio
d’acqua
oggetto della concessione demaniale. 9.1. Anche tale motivo è
infondato. I provvedimenti
impugnati si fondano, infatti, essenzialmente sul contrasto con la
delibera
regionale n. 3854/1995 che approva la variante al P.R.G. delle opere
che la
società Porto Turistico Domiziano deve realizzare in attuazione
del progetto
assentito. Risulta, quindi,
corretta la decisione del T.a.r. che, ritenuta la non
applicabilità della
delibera regionale all’area demaniale in oggetto, ha di conseguenza
considerato
carenti, sul piano motivazionale, i provvedimenti emanati dal Comune, e
li ha
quindi annullati. 9.2. L’ordine di sospensione dei
lavori (dalla cui motivazione secondo l’appellante dovrebbe ricavarsi
anche
quella dei provvedimenti successivi stante l’unitarietà della
vicenda che ha
portato all’emanazione dei quattro provvedimenti impugnati) si fonda
anche
sulla considerazione che l’installazione dei pontili sarebbe di
ostacolo nelle
acque portuali per le imbarcazioni e arrecherebbe un turbamento
dell’attuale
assetto dei servizi a terra riguardanti la viabilità, i servizi
igienici e
sanitari, i parcheggi e l’approvvigionamento idrico dei natanti. Come già
rilevato dal Giudice di primo grado, anche il riferimento a tale
circostanza è
inidoneo a sorreggere il provvedimento impugnato: si tratta, infatti,
di
valutazioni che il Comune sovrappone a quella di pertinenza
dell’Autorità
statale e già svolte dalla medesima Autorità, con esito
ben diverso, al momento
del rilascio della concessione demaniale. 10. Alla luce delle considerazioni
che
precedono, l’appello principale deve essere rigettato. 11.
Il rigetto dell’appello principale rende inammissibile, per difetto di
interesse, l’appello incidentale proposto dalla Porto Turistico
Domiziano
s.p.a. 12. Sussistono,
data la complessità della vicenda, giusti motivi
per disporre la compensazione delle spese del giudizio di appello. P.Q.M. Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta,
definitivamente
pronunciando, respinge l’appello principale e dichiara inammissibile
l’appello
incidentale. Spese
del grado compensate. Ordina
che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità
amministrativa. Così
deciso in Roma, il 3 aprile 2007 dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale
- Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: Claudio
VARRONE
Presidente Carmine
VOLPE
Consigliere Luciano
BARRA CARACCIOLO
Consigliere Lanfranco
BALUCANI
Consigliere Roberto
GIOVAGNOLI
Consigliere
Est. Presidente f.to
Claudio Varrone Consigliere
Segretario f.to
Roberto Giovagnoli
f.to
Glauco Simonini CONSIGLIO DI
STATO - SEZIONE II - Parere 18 aprile
2007 n. 456 OGGETTO MINISTERO
DELLE POLITICHE AGRICOLE E
FORESTALI - Quesito in merito alla possibilità che l’AGEA
(Agenzia per le
Erogazioni in Agricoltura) possa affidare alla società SIN la
gestione del SIAN
(Sistema Informativo Agricolo Nazionale). Integrazione del parere n.
3162/06. Vista la relazione del 2 febbraio 2007, con la quale il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo) ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto, anche al fine di un riesame di quanto affermato con il precedente parere n. 3162/06, reso da questa Sezione nell’adunanza del 13 dicembre 2006; Esaminati
gli atti ed udito il relatore-estensore,
consigliere Luigi Carbone; PREMESSO e
CONSIDERATO: 1. La legge 4 giugno 1984, n. 194, autorizza il Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste ad impiantare un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale. In particolare, il primo comma dell’art. 15 dispone che: “Ai fini dell'esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi al settore agricolo nazionale, il ministro della agricoltura e delle foreste è autorizzato all'impianto di un sistema informativo agricolo nazionale attraverso la stipula di una o più convenzioni con società a prevalente partecipazione statale, anche indiretta, per la realizzazione, messa in funzione ed eventuale gestione temporanea di tale sistema informativo in base ai criteri e secondo le direttive fissate dal ministro medesimo.”. È stato a tal fine costituito il SIAN (Servizio Informativo Agricolo Nazionale). Con il decreto legislativo n. 99 del 2004, i compiti di coordinamento e gestione del SIAN sono stati trasferiti all’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), la quale è subentrata in tutti i rapporti attivi e passivi e alla quale sono state trasferite le risorse finanziarie, umane e strumentali (art. 14, commi 9 e 10), fermi i poteri di indirizzo e monitoraggio del Ministero. In
particolare, il comma 9 dispone
che: “Al fine di semplificare gli
adempimenti amministrativi e contabili a carico delle imprese agricole,
fatti
salvi i compiti di indirizzo e monitoraggio del Ministero delle
politiche
agricole e forestali ai sensi dell'articolo 3, comma 4, del decreto del
Presidente della Repubblica 28 marzo 2000, n. 450, sono trasferiti
all'AGEA i
compiti di coordinamento e di gestione per l'esercizio delle funzioni
di cui
all'articolo 15 della legge 4 giugno 1984, n. Il
D.M. 26 ottobre Successivamente,
il decreto legge n.
182 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 231 del Il
Consiglio di Amministrazione
dell’AGEA, con delibera 25 novembre 2005, n. L’AGEA, quindi, ha provveduto alla individuazione del socio privato di minoranza della SIN s.r.l. tramite un’apposita gara, con bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea. 2. Con un primo quesito, il Ministero delle Politiche Agricole, quale autorità preposta alla vigilanza sull’AGEA e nell’esercizio dei suoi poteri di indirizzo sul SIAN, ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in ordine alla legittimità di affidamento diretto del servizio in questione alla neo-costituita Società SIN. Questa
Sezione, con il parere n.
3162/06, reso dall’adunanza del 13 dicembre Alla stregua di tali considerazioni – sulla base delle prospettazioni effettuate dal Ministero riferente – la Sezione ha affermato che la situazione in esame appare “non conforme ai principi della normativa nazionale e comunitaria” esaminati (ovvero quelli relativi all’applicabilità del modello dell’in house providing). 3. Il Ministero delle politiche agricole e forestali (Dipartimento delle Politiche di Sviluppo) chiede, ora, un nuovo pronunciamento di questo Consiglio di Stato sulla questione, affermando che “ad una più attenta considerazione” si rinvengono profili e conseguenze della vicenda “che, nell’originaria richiesta di parere rivolta dal Ministero al Consiglio di Stato in ragione del rapporti di vigilanza sull’AGEA, non erano state prese in considerazione e che ora da segnalazione della stessa AGEA sono venute ad emergere”. 3.1.
In particolare, con la nuova
richiesta di parere si riferisce che “il punto nodale … è
costituito dalla
configurazione dei profili organizzatori dell’AGEA delineati dalla
normativa di
riferimento ed esattamente dall’art. 14, commi 9, 10 e 10-bis del
d.lgs. n. 99
del 29 marzo Il Ministero ricorda, innanzitutto, che il SIAN è stato istituito come servizio proposto per l’esercizio delle competenze statali in materia di indirizzo e coordinamento delle attività agricole e della conseguente necessità di acquisire e verificare tutti i dati relativi ai settore agricolo nazionale (ai sensi del sopra riportato art. 15 della legge n. 194 del 1984). Per
tali finalità, secondo la
previsione del richiamato art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 173 del 1998,
“Il SIAN, quale strumento per l'esercizio
delle funzioni di cui al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. Il comma 2 dello stesso articolo aggiunge che il Sistema Informativo Agricolo Nazionale è unificato con i sistemi informativi di cui all’articolo 24, comma 3, della legge n. 97 del 1994, e all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, nonché integrato con i sistemi informativi regionali. Allo stesso è trasferito l’insieme delle strutture organizzative, dei beni, delle banche dati, delle risorse hardware, software e di rete dei sistemi di cui all’articolo 1 della legge n. 81 del 1997, senza oneri amministrativi. Inoltre, “in attuazione della normativa comunitaria, il SIAN assicura, garantendo la necessaria riservatezza delle informazioni, nonché l’informativa su base nazionale dei controlli obbligatori, i servizi necessari alla gestione, da parte degli organismi pagatori e delle regioni e degli enti locali, degli adempimenti derivanti dalla politica agricola comune, connessi alla gestione dei regimi di intervento nei diversi settori produttivi ivi inclusi i servizi per la gestione e l’aggiornamento degli schedari oleicolo e viticolo.”. Il SIAN è, altresì, “interconnesso con i sistemi informativi delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura al fine di fornire all’ufficio del registro delle imprese di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 581 del 1995 gli elementi informativi necessari alla costituzione ed aggiornamento del Repertorio economico amministrativo (REA). Con i medesimi regolamenti, di cui all’articolo 14, comma 3, sono altresì definite le modalità di fornitura al SIAN da parte delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, delle informazioni relative alle imprese del comparto agroalimentare” (comma 3 del predetto art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998). L’integrazione del SIAN alla rete informativa pubblica è confermata dalla adozione, prevista dal comma 4 dell’art. 15, di una apposita convenzione, con la quale “le amministrazioni di cui ai commi precedenti definiscono i termini e le modalità tecniche per lo scambio dei dati, attraverso l'adozione di un protocollo di interscambio dati. Il sistema automatico di interscambio dei dati è attuato secondo modalità in grado di assicurare la salvaguardia dei dati personali e la certezza delle operazioni effettuate, garantendo altresì il trasferimento delle informazioni in ambienti operativi eterogenei, nel pieno rispetto della pariteticità dei soggetti coinvolti.”. In aggiunta a tali funzioni, l’art. 2 del decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 26 ottobre, recante adempimenti relativi alla gestione dei servizi del SIAN, sancisce che “L’AGEA in attuazione dell’art. 14, comma 9, del decreto legislativo n. 99/2004 e sulla base degli atti di indirizzo di cui all’art. 1, comma 1, assicura le funzioni di coordinamento, sviluppo e gestione del SIAN, assumendo i provvedimenti necessari a promuovere ed eseguire gli adempimenti previsti e garantendo il raccordo con il Ministero per l’innovazione e le tecnologie, e con il CNIPA per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 15 della legge 4 giugno 1984, n. 194. Per le finalità di cui al precedente comma 1, l’AGEA, in coerenza con le linee guida e le direttive del Ministero per l’innovazione e le tecnologie e del CNIPA, promuove o partecipa a progetti aventi gli obiettivi: a) di razionalizzare l’impegno delle amministrazioni pubbliche tramite la standardizzazione dei processi di erogazione dei servizi di interoperabilità e cooperazione, nonché l’interscambio sistematico dei dati tra soggetti pubblici con l’obiettivo di evitare duplicazioni e ridondanze nella erogazione e fruizione dei servizi; b) di valorizzare i dati, i prodotti ed i servizi delle amministrazioni pubbliche e di agevolare il riuso delle funzioni dalle stesse realizzate; c) di realizzare servizi a valore aggiunto verso soggetti terzi, anche privati”. Secondo l’art. 3 dello stesso provvedimento, “in attuazione dell’art. 14, commi 9 e 10, del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99, l’AGEA assicura al Ministero l’integrazione all’interno del SIAN dei dati e dei servizi informativi derivanti dalle attività eseguite dagli enti ed agenzie vigilati dal Ministero o da altri soggetti pubblici e privati, delegate o finanziate dal Ministero stesso, che comportino la gestione di dati e di archivi informatizzati. Nell’esercizio delle funzioni di cui al comma 1, l’AGEA: a) definisce gli standard idonei a garantire la compatibilità con l’architettura complessiva del SIAN, verificandone il rispetto; b) garantisce la fruizione delle informazioni all’interno del SIAN, sulla base delle specifiche definite, realizzando gli opportuni meccanismi di interoperabilità, interscambio e cooperazione.”. 3.2. La riferente amministrazione ritiene, quindi, che la ricognizione del quadro normativo complessivo evidenzi che il relativo trasferimento in capo all’AGEA abbia comportato “l’assunzione da parte dell’Agenzia di nuove competenze e funzioni oltre a quelle in precedenza istituzionalmente assegnate che avrebbero comportato l’adeguamento delle strutture della stessa. Ciò in quanto lo svolgimento delle relative funzioni necessita di una specifica esperienza informatica ed un patrimonio di conoscenze tecnologiche non facilmente improvvisabile, né rinvenibile presso strutture pubbliche”. In sostanza, il Ministero reputa necessario rilevare, con il nuovo quesito, che la norma ha previsto il subentro immediato dell’AGEA in tutte le complesse competenze e funzioni del SIAN “senza che la società subentrante avesse la esperienza e vocazione tecnico-inforrnativa necessaria, né adeguate strutture vocate allo scopo. Ma, proprio nella consapevolezza di tale deficienza, per la realizzazione e gestione di siffatto sistema informativo la medesima norma ha delineato un particolare modulo organizzatorio, diretto ad assicurare il necessario patrimonio di conoscenze e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private (che come tali si confrontano con l’aggiornamento imposto dalla concorrenza del libero mercato). E, difatti, ha imposto alla AGEA di non attrezzarsi direttamente, ma di costituire una società pubblico-privata, individuando quale socio privato una impresa in possesso del requisito di esperienza nel settore specifico ed alta specializzazione tecnologica”. Tale modulo organizzatorio, in effetti, è stato imposto dal legislatore con il d.l. n. 182 del 2005, convertito dalla legge n. 231 del 2005, senza lasciare alla AGEA alcuna possibile alternativa dì organizzare e gestire il servizio secondo modalità diverse. 3.3. In applicazione di questo contesto normativo, la riferente amministrazione chiarisce, con la nuova richiesta di parere, di aver configurato la “società mista” indicata dalla legge come un soggetto nell’ambito del quale il socio pubblico si faccia carico delle competenze e responsabilità amministrative e il socio privato metta a disposizione della società la propria competenza specifica, apportando il suo lavoro professionale per la realizzazione degli obiettivi di legge. In questo quadro – ritiene il Ministero riferente – “il socio privato finisce per assumere a termine (9 anni previsti dalla gara) il ruolo di socio di lavoro munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge”. Tale modello – secondo la riferente amministrazione – è conforme a quello disciplinato dagli artt. 113 e 116 del t.u. n. 267 del 2000 sugli enti locali ed appare coerente con la natura della attività che l’AGEA è per legge chiamata a svolgere: “da un lato competenze e funzioni amministrative e di controllo in materia di agricoltura (così come esposte nella normativa in precedenza citata), dall’altro a sovrintendere alle attività operazioni e prestazioni di tipo informativo sottese alla piena la realizzazione della prime e demandate secondo lo schema organizzatorio del socio di lavoro al privato prescelto in gara”. In sostanza, secondo questo modello organizzatorio, il socio pubblico è chiamato ad assumersi l’onere ed a svolgere funzioni amministrative del servizio, mentre il socio di lavoro privato a predispone l’organizzazione necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul servizio. Del resto – aggiunge il quesito in esame – la peculiarità e specializzazione tecnologica della gestione del SIAN è sempre stata considerata e valutata dal legislatore anche in precedenza, atteso che anche l’art. 15 della legge n. 194 del 1984 disciplinava espressamente la gestione di tale ente “in deroga alle norme sulla contabilità dello Stato”, sì da suggerire il ricorso ad uno strumento organizzatorio ad hoc quale, per l’appunto, quello da ultimo delineato dall’art. 14, comma 10-bis, del d.l. n. 182 del 2005 come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 231 del 2005. 3.4. Dall’approfondimento effettuato, il Ministero trae il nuovo convincimento che “la costituzione, da parte dell’AGEA, della società SIM, costituisce il momento di esercizio di una funzione organizzativa espressamente prevista dalla legge e non già affidamento di un servizio. Per contro, tale specifico momento si configura a valle, e cioè [attraverso] le modalità che attuerà la Società per svolgere i servizi cui è preposta.”. E per tale fase è la stessa norma che si è premurata di aprire la partecipazione della Società ad un soggetto privato che andrà ad assumere il ruolo di socio di lavoro e che dovrà essere scelto con gara europea (che, effettivamente, risulta essere stata regolarmente effettuata, nel corso dello scorso anno, ai sensi del d.lgs. n. 157 del 1995). In conclusione, la richiesta di parere afferma che dalla nuova ricognizione effettuata sembra di poter conseguire che “la costituzione della società per la gestione del SIAN non costituisce affatto una modalità di affidamento in house contraria alla disciplina comunitaria, bensì una modalità organizzatoria per lo svolgimento del SIAN articolato in via primaria nella costituzione della società e poi nella sua apertura all’apporto di lavoro di un socio privato prescelto con gara (e quindi in piena conformità con il trattato CE e le direttive comunitarie) per i prossimi 9 anni”. Inoltre, tale modello sembra al Ministero coerente con la peculiarità del servizio da svolgere, e con la “esigenza di non accentrare su AGEA funzioni che non è attrezzata a svolgere direttamente” e, nello stesso tempo, “che non può esercitare seguendo modalità ed iter procedimentali diversi da quello tassativamente imposto dalla legge, consistente nella costituzione di una società pubblico — privata”. 4. Questo Consiglio di Stato è dell’avviso che, alla stregua delle nuove argomentazioni e allegazioni – e ferme restando le affermazioni di principio enunciate nel precedente parere n. 3162/06 – si possa pervenire a conclusioni differenti sullo specifico caso in questione, secondo le considerazioni che seguono. 5. Appare necessario, in primo luogo, definire la riconducibilità o meno, in via generale, del modello organizzativo identificato dal legislatore nel caso di specie – ovvero quello della costituzione di una “società mista” pubblico-privata – al modello dell’in house providing: solo in caso affermativo si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia. 5.1. Come è noto, l’espressione in house providing (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., in termini, la recente decisione della VI Sezione di questo Consiglio del 3 aprile 2007, n. 1514, su cui si tornerà più avanti). Il modello si contrappone a quello dell‘outsourcing, o contracting out (la c.d. esternalizzazione), in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa. La prima definizione giurisprudenziale della figura è
fornita dalla
sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 18
novembre 1999,
causa C-107/98 – Teckal. In quella sede – a estrema sintesi delle
considerazioni della Corte – si è affermato che non è
necessario rispettare le
regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano
i
seguenti elementi: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto
aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri
servizi; b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della
propria
attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza. In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione
prevalente
dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi
“terzo” rispetto
all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei
servizi
propri dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario
che l’amministrazione
ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di
appalti di
lavori, servizi e forniture. 5.2.
Questa Sezione condivide
pienamente – come già affermato nel precedente parere n. 3162/06
(cfr. pure, in
termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) – le
affermazioni
secondo le quali la figura dell’in house
providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti
vanno
interpretati restrittivamente poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto
comunitario. Ciò è stato chiarito con fermezza dalla Corte di giustizia nelle sue successive pronunce (cfr. le note sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, su cui si tornerà più avanti per altri profili; 21 luglio 2005, causa C‑231/03 - Corame; 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 - Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/ Comune di Bari; 11 maggio 2006, causa C-340/04 - Carbotermo; 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux). Il ridimensionamento dell’istituto è da
ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello,
del
quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene
societarie e
dei controlli indiretti, nonché attraverso le attività
svolte nei confronti di
terzi. In particolare, la ricordata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in particolare, che: - il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; - l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero: cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 - Mödling o Commissione c/ Austria); - le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. pure la decisione della V sez. di questo Consiglio di Stato 8 gennaio 2007, n. 5, che ha affermato che se il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”); - il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072). La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo. I
principi giurisprudenziali sopra
accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle Corti Supreme
nazionali,
ivi compreso, come si è detto, questo Consiglio di Stato, il
quale (sia nel
parere n. 3162/06 che nella decisione della VI Sezione da ultimo
citati) ha
anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere
generale era
stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma
non è
stata poi inserita nel testo finale del d.lgs. n. 163 del 5.3. Questo Consiglio di Stato ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale consenta, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing. Tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia (e molto si è discusso sul punto: svariati autori, in dottrina, propendevano per la soluzione affermativa e ancora oggi vi sono discipline che ricomprendono entrambe le situazioni: cfr. l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, di cui si dirà infra, al punto 7.3), oggi può dirsi ormai definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di “controllo analogo”. In particolare, ciò emerge dalla già menzionata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau: nel dare atto che, in quella controversia, la Stadt Halle si era difesa proprio sostenendo che si sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”. L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/ Comune di Bari – laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005, causa C‑231/03 - Corame)” – e in quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux, ove si afferma che “quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., con riferimento agli appalti pubblici di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”. In altri termini, la Corte di giustizia ha
ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa
obbedisca
a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi
di natura
differente rispetto a quelli dell’amministrazione pubblica. Pertanto,
in
sostanza, oggi si può parlare di società in
house soltanto se essa agisce come un vero e proprio organo
dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato
da alcun
interesse privato. Di tali conclusioni questo Consiglio di Stato ha già
preso atto quando,
con la decisione n. 1514/07 della VI Sezione, ha affermato – con
argomenti che
questa Sezione condivide pienamente – che, in un caso diverso da quello
ivi
deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha
ritenuto
neanche configurabile l’affidamento in
house in considerazione dell’assenza di una
partecipazione pubblica totalitaria all’epoca … degli
affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della
partecipazione pubblica totalitaria esclude, infatti, in radice la
possibilità
di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla
giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house.”. Da
ciò consegue – ad avviso del
Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne
la
compatibilità con la disciplina europea, i (sempre più
selettivi) requisiti
richiesti per l’in house anche nel
modello di parternariato pubblico-privato “società mista” cui si
riconduce
l’oggetto del quesito in esame. 6. La non riconducibilità alla figura dell’in
house non implica, di per sé, la esclusione automatica della
compatibilità comunitaria della diversa figura della
società mista a
partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia
scelto con
una procedura di evidenza pubblica. Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 - Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara (cfr. amplius infra, il punto 8.2.2). Per
la soluzione del quesito in
esame si impone, allora, una verifica
autonoma, da condurre alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla
Corte di
giustizia (sull’in house, ma non
solo) ma senza poter contare, allo stato, su una indicazione specifica
in
termini. Tale verifica va condotta, ad avviso della Sezione, avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della tutela dell’amministrazione. La Sezione, difatti, rileva che – se il regime dell’evidenza pubblica per la scelta del contraente privato nei contratti “passivi” della pubblica amministrazione è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben da prima dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, in quanto dettato nell’interesse dell’amministrazione appaltante – con il progressivo avvento della disciplina comunitaria tale regime nazionale è stato, in parte, conservato nei meccanismi di selezione del contraente, ma investito da una ratio del tutto nuova, che impone diversi canoni interpretativi e applicativi. La finalità, l’intera logica di tale disciplina si è, infatti, trasformata – in adesione ai principi europei – da quella della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella della libera circolazione e della concorrenza. Di conseguenza, se ciò ha portato (ormai quasi del tutto) alla scomparsa di norme sulla scelta del contraente di sicuro interesse dell’amministrazione pubblica ma incompatibili con l’interesse alla libera concorrenza, i meccanismi tradizionali di evidenza pubblica che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella sostanza, recepiti dal nuovo codice dei contratti pubblici (il menzionato d.lgs. n. 163 del 2006), ovvero – se contenuti in disposizioni speciali – non sono stati espressamente abrogati. Ciò è avvenuto, però, sul presupposto che tali meccanismi vadano applicati in questa diversa logica. È in quest’ottica che va esaminata anche la questione in esame. Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’interesse dell’amministrazione – pure stigmatizzato, nel caso di specie, con una apposita lex specialis – ma anche la sua compatibilità con l’interesse per la massima apertura del mercato, come identificato dai principi definiti dalla Corte di giustizia europea. Peraltro, come è noto, laddove dovesse risultare evidente una incompatibilità, da parte della legge nazionale, con la disciplina comunitaria self executing nel nostro ordinamento, l’amministrazione sarebbe tenuta a disapplicarla (secondo i principi affermati a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 389 dell’11 luglio 1989). La suddetta verifica va condotta sia “in astratto”, analizzando il modello generale delle società miste come oggi presente nell’ordinamento nazionale (cfr. infra, i punti 7 e 8 e i relativi sottopunti), sia “in concreto”, guardando alla specifica disciplina prevista nel caso in esame e alla sua applicazione nella procedura di selezione del contraente privato (cfr. infra, il punto 9 e i relativi sottopunti). 7. Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali – t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come modificato dalla relativa legge di conversione. Tale previsione può essere assunta a paradigma del modello anche ai fini della soluzione del quesito in oggetto, che pure si caratterizza per una disciplina ad hoc. Sempre in via generale, il codice dei contratti pubblici, se
non
prevede più una generalizzazione del modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento (come
si è detto retro, al
punto 5.2), contiene invece, all’art. 1, comma 2, una previsione di
carattere
generale sulle società miste, secondo la quale, “nei
casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di
società
miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un
servizio,
la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”.
Anche in questo caso, la norma non intende affermare la generale
ammissibilità
delle società miste, che devono intendersi consentite nei soli
casi già
previsti da una disciplina speciale, nel rispetto del principio di
legalità: si
codifica soltanto il principio secondo il quale, in questi casi, la
scelta del
socio deve comunque avvenire “con procedure
di evidenza pubblica” (non necessariamente, quindi, ai sensi della
disciplina dello stesso codice). La figura delle società miste compare anche nell’art.
32, al comma 1,
lett. c), e al comma 3 (tale ultima disposizione è stata
confermata nel testo
definitivo nonostante i rilievi di questo Consiglio di Stato espressi
nel
parere della Sezione per gli atti normativi n. 355/06 del 6
febbraio
2006, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici: cfr. infra, il punto 8.4). 7.1. L’art. 113, comma 5, lett. b), del t.u.e.l. dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio …”, tra l’altro, “… b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”. Tale norma costituisce, in qualche modo, il paradigma del modello cui si ispira anche la normativa speciale per il SIAN che è oggetto del quesito in esame. Lo
stesso art. 113 prevede, nella
distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società
mista, il modello
della società in house a capitale
interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del
“controllo
analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”
in favore dell’ente pubblico di appartenenza identificati
dalla sentenza Teckal. Ciò sembra
confermare quanto affermato retro (al punto 5 e ai relativi
sottopunti)
a proposito della differente disciplina dei due modelli della
società mista e
della società in house, anche con riguardo ai requisiti
richiesti dal
diritto europeo. 7.2. La figura delle società a capitale misto è
stata configurata da
autorevole dottrina come una forma di “collaborazione tra pubblica
amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico
servizio”;
tale figura, costituendo una modalità organizzativa ulteriore
per la
soddisfazione delle esigenze generali, rende più flessibile la
risposta
istituzionale a determinate esigenze e può risultare – se
ricondotta nei canoni
del pieno rispetto dei principi comunitari – di particolare efficacia,
almeno
in certi casi (cfr., nello stesso senso, il Libro Verde della
Commissione
europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento europeo del
26
ottobre 2006, richiamati amplius infra, al punto 8.5). Inoltre, la necessità di una gara per la scelta del
socio – oltre a
confermare l’esclusione della riconducibilità alla figura dell’in
house
– ha condotto a ritenere non corretto annoverare tale figura tipo di
affidamento tra quelli “diretti”. Tuttavia, la stessa dottrina – alla luce dell’evoluzione in
senso
restrittivo della giurisprudenza comunitaria – ha messo in evidenza la
debolezza della tesi della equiparazione automatica fra la procedura di
scelta
del socio e la gara per l’affidamento del servizio. Pur riconoscendo la
funzionalità del modello, si afferma come ci si trovi di fronte
ad una “figura
peculiare che potrà presentare non pochi problemi attuativi e
che, per non
essere censurata, dovrà ricevere una applicazione attenta”. 7.3.
Sempre in relazione al modello
generale, si ricorda l’intervento dell’art 13 del d.l. n. 223 del 2006,
convertito dalla legge n. 248 del 2006, il quale ha introdotto una articolata
disciplina che, in linea con i più recenti orientamenti
comunitari volti a
limitare l’in house providing, ma anche in relativa autonomia da
essi,
mira a evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle
società
pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli ambiti territoriali
di
appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli
controllanti od affidanti i contratti in house. In tale nuovo
regime il
d.l. n. 223 del In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali, come invece avviene nel caso di specie) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali: - devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza); - non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti; - sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo – è stato affermato – non sembra debba essere inteso come divieto delle c.d. multiutilities, ma appare preferibile ritenere che rafforzi regola dell’esclusività evitando che dopo affidamento la società possa andare a fare altro). Si
ricorda come alcune Regioni (in
particolare, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia) hanno impugnato la
norma
dinanzi alla Corte Costituzionale, ritenendola discriminatoria delle
società
regionali e locali, rispetto a quelle statali e limitativa della
capacità
contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni
ulteriori. 7.4. Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto
normativo
generale più organico e restrittivo a favore della concorrenza
si è fatto
carico il recente disegno di
legge governativo recante “Delega al
governo per il riordino dei servizi pubblici locali” (atto Senato
n. 772
della XV legislatura, presentato il 7 luglio 2006), il quale prevede
che
“l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in
essere dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante
procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore”,
consentendo
soltanto “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie
in presenza dei
noti presupposti comunitari e alle società miste locali. Il d.d.l. AS 772 (all’art. 2, comma 1, lettere c) e d) )
condiziona il
ricorso a queste ultime alla “stretta inerenza delle modalità di
selezione e di
partecipazione dei soci pubblici e privati agli specifici servizi
pubblici
locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci
privati
mediante procedure competitive” (come recita la relazione di
accompagnamento al
d.d.l.). Si prevede, inoltre, la necessità di “norme e clausole
volte ad
assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e
ad
evitare possibili situazioni di conflitto di interessi”. La possibilità di acquisire la gestione di servizi
diversi o in ambiti
territoriali diversi da quelli di appartenenza viene esclusa dal d.d.l.
per i
soggetti già affidatari in via diretta di servizi pubblici
locali, nonché per
le imprese partecipate da enti locali, che usufruiscano di
finanziamenti
pubblici diretti o indiretti, salvo che si tratti del ristoro degli
oneri di
servizio relativi ad affidamenti effettuati mediante gara,
sempreché l’impresa
disponga di un sistema certificato di separazione contabile e
gestionale. Inoltre, si prevede che l’ente locale debba “adeguatamente
motivare le
ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di
ricorrere”
alle modalità di affidamento diretto, anziché alle
modalità di affidamento
tramite procedure competitive ad evidenza pubblica, e “che debba
adottare e
pubblicare secondo modalità idonee il programma volto al
superamento, entro un
arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a
procedure ad
evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a
tale
fine”. La Sezione – nei limiti del quesito in esame – ritiene possibile affermare che tale compatibilità possa essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, di cui si dirà infra, al punto 8.3 – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo. In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale” o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), questo Consiglio di Stato ritiene che l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio. La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste e opera uno specifico riferimento all’attività da svolgere) quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari esigenze di interesse pubblico (che nell’ordinamento italiano sono comunque individuate dalla legge). A tale conclusione sembra doversi giungere alla stregua delle argomentazioni che seguono. 8.1. Non appare, in primo luogo, condivisibile alla Sezione la posizione “estrema” secondo la quale, per il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile l’affidamento diretto. Soprattutto,
tale ipotesi suscita
perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle
quali il socio,
ancorché selezionato con gara, non viene scelto per
finalità definite, ma
soltanto come partner privato per una società “generalista”,
alla quale
affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati
al
momento della scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche
attività extra moenia,
avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti dal
rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico. Esula, però, dall’oggetto specifico del quesito in esame l’approfondimento di tale ipotesi, poiché, come si vedrà, essa non sussiste nel caso di specie (cfr. infra, il punto 9 e relativi sottopunti). 8.2.
Non sembra alla Sezione
condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema” (che potrebbe avere,
invece,
dei riflessi diretti sulla soluzione del quesito in oggetto), secondo
la quale
la giurisprudenza comunitaria in materia di in house – e in
particolare
quella secondo la quale il “controllo analogo” è escluso quando
la società è
partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11
gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL
Lochau) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i
principi comunitari, in qualunque caso,
dell’affidamento a
società miste. 8.2.1.
In tal senso si è di recente
pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della
Regione
Sicilia (decisione 27 ottobre 2006 n.
589), che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione
restrittiva, se
non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel
senso che
la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio
a seguito di
gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per
l’affidamento del
servizio”. Se nessuno sembra porre in discussione la necessità
della gara per
la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto,
dal codice dei
contratti pubblici all’art. 1, comma 2), si rileva, a sostegno di tale
tesi
estrema che, pur “in un quadro giurisprudenziale in generale incline ad
escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 2005,
n. 272)
sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le
quali: - configura una restrizione del mercato e della concorrenza
l’obbligo per
l’imprenditore di conseguire l’affidamento di un servizio, solo
entrando in una
società, per molti versi anomala, con l’amministrazione; - la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio
non è
sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità, a quella
per l’affidamento
del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio
privato in
possesso dei requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e
soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più
vantaggioso
nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece
esclusivamente
diretta alla scelta del soggetto che offra maggiori garanzie per la
gestione
del servizio pubblico; - il sistema di affidamento diretto alla società mista
(sia pure dopo
scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concreterebbe
nella sostanza
un affidamento in house al di fuori
dei requisiti richiesti dal diritto comunitario; - se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella
società
aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice
non possa
esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da
essa esercitato
sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa
privata è
quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna
(cfr.,
anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle
Comunità
europee, sez. I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 -
Mödling o
Commissione c/ Austria). In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione
di una
società mista (con partner scelto dopo una gara) non esimerebbe
in nessun caso
dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio. 8.2.2. La Sezione ritiene che le ragioni poste a sostegno di
tale tesi –
pur se tutte condivisibili – possano tuttavia condurre a conclusioni
differenti
da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara. Occorre, infatti, evitare – ad avviso della Sezione – di interpretare i dicta della Corte di giustizia in modo da far loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare, paradossalmente, ad effetti opposti, e addirittura contrari allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di giustizia. Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza pubblica. A
titolo di mero esempio, nella
causa C-458/03 - Parking Brixen la
gestione del parcheggio, già affidata ad un operatore, era stata
revocata per
trasferirla direttamente alla società
partecipata, con evidente lesione dei principi di tutela della
concorrenza; la
causa C-26/03 - Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto
disposto nel La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi, secondo il Collegio, a violazioni conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione. La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria. La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata” dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto. 8.2.3. La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento condurrebbe di fatto, ad avviso della Sezione, alla totale negazione del modulo. Ciò avverrebbe anche nei casi in cui la legge consente, perché le ritiene funzionali, ulteriori forme di intervento rispetto alle due ipotesi alternative “tutta pubblica” e “tutta privata”. Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le società miste rischierebbe di condurre, ad avviso della Sezione, a far valere gli indirizzi della Corte di Lussemburgo come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato. Questa Sezione ritiene, invece, che l’affidamento a soggetti pubblici al 100% costituisca, in qualche modo, la negazione del mercato: non si può immaginare che la Corte di giustizia preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia invece rientrare in gioco il mercato e i privati, tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono comunque delimitare (come si dirà infra, al par. 7.5.3) l’affidamento nell’oggetto e, soprattutto, nel tempo. Risulterebbe allora paradossale, nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di intervento ai soli due estremi assoluti e quindi consentire – sia pure con criteri interpretativi molto restrittivi – una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato. Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola) rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici, individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house. In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica: la quota esterna alla pubblica amministrazione è, cioè, reperita con il ricorso ad un mercato che è certamente premiato, diversamente da quanto avviene nel caso della “chiusura in se stessa” dell’amministrazione in un modello di pura autoproduzione. E ciò avviene coniugando l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti resterebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzatori che le consentano di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante) ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione. 8.3.
Alla stregua di quanto esposto, sembra allora ammissibile il ricorso
alla
figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui essa non
costituisca,
in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la
modalità
organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento
disposto,
con gara, al “socio operativo” della società. Peraltro, si ricorda che il suddetto modello non è
ordinario nel nostro
sistema e che – salvi i non frequenti casi (come quello di specie) in
cui il
legislatore lo impone senza alternative – l’amministrazione deve
comunque
motivare in modo adeguato perchè si avvale di una società
mista invece di
rivolgersi integralmente al mercato. Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità in ordine alla restrizione della concorrenza. In
particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una
società mista che
sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più
servizi determinati,
da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità
pubblica che procede
alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla
scelta del
socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico
servizio da
svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità
di
collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività
da svolgere e
che limiti, nel tempo, il rapporto di parternariato, prevedendo allo
scadere
una nuova gara. In altri termini, laddove vi siano
giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno
integrale,
appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in
cui
ricorrano due garanzie: 1) che vi sia una sostanziale equiparazione
tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta
del
socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od
operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio
pubblico o
di fasi dello stesso; 2)
che si preveda un rinnovo della
procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in
tal
senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art.
113 t.u.e.l.
in stretta connessione con il successivo comma 12), evitando
così che il socio
divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente
prevedendo che sin
dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le
modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della
sua posizione),
per il caso in cui all’esito della successiva tara egli risulti non
più
aggiudicatario. Almeno
nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali
possibilità,
come si è detto, la Sezione non deve occuparsi, stante l’oggetto
del quesito)
sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla
stregua
della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità
dottrinarie sopra
richiamate (cfr. retro, il punto 7.2
e lo stesso punto precedente 8.2) le quali, come si è detto,
sono pienamente
condivise dalla Sezione. In
particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con
la
scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio
“operativo”, non
sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte
citata sentenza
C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di
un
appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far
appello alla
concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e
non
falsata ed il principio della parità di trattamento degli
interessati contemplato
dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura
siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della
detta
società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”. Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”. Ad avviso della Sezione, la presenza di un “interesse privato” appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da scegliere. In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara “che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento dell’appalto sembra ottemperare all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo. Parimenti insussistente appare, nel caso qui ipotizzato, l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux (e in particolare dalle conclusioni dell’Avvocato Generale), a proposito del ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso di subappalto, ben può verificarsi il pericolo che “l’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti soltanto una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello previsto all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi, l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”. Nell’ipotesi, qui profilata, del “socio di lavoro” scelto con gara sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo” viene affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del “socio pubblico”. 8.4. La Sezione è dell’avviso che tale assetto – che
sembra essere
molto vicino a quello che verrebbe, auspicabilmente, meglio chiarito e
codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso
(atto Senato
n. 772, descritto retro, al punto 7.4) – già oggi non
può dirsi escluso
dalla normativa vigente, che non va quindi necessariamente
“disapplicata” ma,
ove possibile, adeguata anche in via intepretativa, alla luce dei
principi
comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo. Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso
anche il parere
(citato retro, al punto 7) n. 355/06 del 6 febbraio
2006 della
Sezione per gli atti normativi di questo Consiglio, relativo allo
schema di
codice dei contratti pubblici. In quella sede, oltre a richiedere una
modifica
(non recepita dal Governo) della disposizione oggi ancora contenuta
nell’art.
32, comma 3, del codice, si era anche affermato che “in
ogni caso, ove si intenda mantenere la previsione, sul presupposto di
una portata ampia della legge delega, che in ogni caso chiama il
Governo alla
definizione di un nuovo quadro giuridico per il recepimento, dovrebbe
risultare
chiaro che la gara per la scelta del socio è stata svolta in
vista proprio
della realizzazione dell'opera pubblica o del servizio che
successivamente si
affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell'opera e del
servizio
nel bando della gara celebrata per la scelta del socio. Ciò al
fine di
assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la
serie di
atti che vengono poi posti in essere con l'affidamento diretto.”. Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, la decisione della
V sez. di
questo Consiglio di Stato n. 3672/05 – che si riferisce ad un caso in
cui un
comune pugliese aveva bandito una gara per la costituzione di una
società alla
quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe
tributaria
comunale – laddove afferma che, ovviamente, tale modello è ben
diverso da
quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di
parternariato
pubblico-privato altro non è che una “concessione” esercitata
sotto forma di
società, attribuita in esito ad una selezione competitiva che si
svolge a monte
della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso
senso, V
sez., n. 272/05 e n. 2297/02). 8.5. L’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al
socio privato
l’“affidamento sostanziale” del servizio svolto dalla società
mista consente di
ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di
“parternariato
pubblico-privato” (PPP) già da tempo affrontato dalle
istituzioni comunitarie. Si fa riferimento al Libro Verde pubblicato dalla Commissione
europea
il 30 aprile 2004 (cfr., in particolare, il par. 3, punti 53 ss.),
laddove si
afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il
partner
privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica
propria …”, tra
l’altro, “permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo
relativamente elevato sullo svolgimento delle operazioni …”. Tali tipologie di parternariato – prosegue la Commissione
europea – non
essendo disciplinate direttamente dal diritto comunitario degli
appalti,
dovrebbero comunque essere assoggettate al rispetto delle norme e dei
principi
in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a
svolgere
tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista …
essere dunque
basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in
capitali o della sua
esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua
offerta –
che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto
riguarda le prestazioni
specifiche da fornire” (Libro Verde, cit., punto 58; cfr. pure i
successivi
punti 61, 62 e 63, che appaiono in linea con le affermazioni sin qui
svolte
dalla Sezione). Le medesime conclusioni sono state fatte proprie dal
Palamento europeo
nella recente “Risoluzione sui parternariati pubblico-privati e il
diritto
comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 26 ottobre
2006
(2006/2043 (INI)), dove si afferma, tra l’altro, che “se il primo bando
di gara
per la costituzione di un’impresa mista è risultato preciso e
completo, non è
necessario un ulteriore bando di gara” (punto 40). 9. Una volta ritenuta configurabile in via generale, sia pure nei limiti e alle condizioni sopra esposti, l’ammissibilità del ricorso a una società mista, occorre ora verificare se tali limiti e condizioni siano riscontrabili nel peculiare caso di specie, alla stregua della disciplina speciale ivi prevista e della più precisa descrizione fornita dalla riferente amministrazione con la richiesta di riesame del quesito. 9.1. Dalla descrizione dell’assetto della specifica disciplina del caso di specie si evince non tanto un “interesse dell’amministrazione” a ricorrere al modello in esame (che, di per sé, nonostante l’espressa previsione legislativa, potrebbe non rivelarsi sufficiente, come si è detto retro, al punto 6) ma piuttosto quasi una necessità, in considerazione della stretta connessione del SIAN con l’esercizio di funzioni pubbliche (che appaiono ben definite dall’art. 15 del d.lgs. n. 173 del 1998, riportato retro, al punto 3.1). Tale connessione – adeguatamente evidenziata dalla nuova ricostruzione del Ministero riferente (riportata retro, ai punti 3.3 e 3.4) – non sembra consentire un integrale affidamento all’esterno del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, pur rinvenendosi, per converso, l’esigenza di una peculiare professionalità e specializzazione tecnologica nella gestione del sistema medesimo che richiede, a condizioni ben definite, la “collaborazione” di un soggetto privato, altamente qualificato, che predisponga e mantenga l’infrastruttura tecnica necessaria a consentire lo svolgimento di quelle funzioni sul Servizio Informativo. Nel caso di specie, in effetti, non si può parlare di vero e proprio “affidamento di un appalto” alla società mista SIN, che difatti svolge funzioni pubbliche affidatele ope legis, ma di necessità di individuare, con gara, un partner privato che svolga un servizio di supporto tecnologico (servizio ben definito in concreto e a tempo determinato, come si vedrà), con la sola particolarità che – alla stregua delle particolari esigenze di interesse pubblico del caso di specie – questo servizio di supporto (come si è detto, in via generale, retro, al punto 8) non viene svolto con un “controllo esterno” da parte dell’amministrazione appaltante, ma con un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, nel caso di specie anche maggioritario. In altri termini, sembra potersi rinvenire, ad avviso della Sezione, una connessione inscindibile tra la costituzione della società e l’esercizio delle funzioni del Sistema Informativo Agricolo Nazionale, molte delle quali – come si è detto – appaiono di tipo amministrativo e non delegabili ai privati. Ciò consente di fugare, in concreto, i dubbi di violazione della concorrenza che potrebbero invece insorgere laddove tali due momenti fossero separati ponendo l’accento su un “affidamento diretto” alla società mista, considerata come un soggetto privo di compiti amministrativi. In questo caso, invece, l’affidamento vero e proprio appare in qualche modo traslato dall’AGEA alla società ad hoc prevista dalla legge, per intervenire nell’unico momento in cui occorre istituire un “interfacciamento” tra pubblico e privato e far ricorso a un “patrimonio di conoscenze tecniche e tecnologie specializzate ed aggiornate tipiche delle imprese private”: il momento della scelta del “socio di lavoro” con una gara che, al tempo stesso, ne definisca specificamente il ruolo (e, quindi, il servizio da rendere), ne chiarisca le forme di controllo “interno” da parte dell’amministrazione e ne delimiti temporalmente la durata. 9.2. Una volta rilevata la peculiarità del caso in esame – che consente quantomeno di rinvenire l’esistenza di particolari ragioni che inducono a ritenere funzionale il ricorso alla figura della società mista come “forma di collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori” – appare altresì sussistere, in capo al socio privato, la prima delle condizioni individuate retro, al punto 8.3, ovvero quel ruolo di “socio operativo, o di lavoro”, munito delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche per consentire alla società pubblico privata di prestare il servizio informatico previsto dalla legge. Nella fattispecie, come si ricava dagli ulteriori chiarimenti forniti alla Sezione nella richiesta di riesame, la procedura di selezione non ha mirato soltanto alla scelta di un socio privato, ma ha anche delineato in modo chiaro i compiti che il socio privato è chiamato a svolgere e il ruolo di controllore del socio pubblico rispetto alle attività “operative” del socio privato. Come si ricava da più aspetti degli atti di gara (dal peso preponderante fornito alla parte tecnica dell’offerta al contratto di servizio quadro che costituiva parte integrante della disciplina dell’appalto, ai patti parasociali resi pubblici negli atti di scelta del contraente), la procedura selettiva era stata apertamente finalizzata all’individuazione di un “socio industriale”, il cui apporto non si sarebbe esaurito nel conferimento di capitali, ma sarebbe principalmente consistito nell’assunzione in proprio delle prestazioni affidate alla società nel suo complesso, con l’accollo di tutti i rischio connessi alla gestione tecnico-finanziaria. L’AGEA, insomma, ha predisposto una procedura concorsuale finalizzata non alla selezione di un semplice socio finanziario, bensì alla individuazione di un partner “operativo” chiamato a svolgere le prestazioni strumentali alla gestione e sviluppo del SIAN all’interno della società mista. In altri termini, nel caso di specie non sembrano rinvenirsi
possibilità
di elusione della normativa comunitaria, poiché, come richiesto
dall’ipotesi
generale identificata retro, al punto
8 e ai relativi sottopunti, lo stesso bando ha mirato non solo alla
scelta del
socio, ma anche all’affidamento del servizio “operativo” da svolgere. 9.3. Oltre alla precisa definizione dell’oggetto dell’affidamento al privato che sarebbe stato prescelto come socio della SIN, la gara ha altresì soddisfatto la seconda condizione sopra indicata: quella della durata temporalmente limitata del parternariato. Come si evince dagli atti, la partecipazione del socio privato al capitale della società ha carattere temporaneo e limitato nel tempo, con una durata di nove anni (tale elemento non ha, peraltro, limitato la partecipazione alla gara, atteso il considerevole numero di partecipanti). Altrettanto definite appaiono, nel caso di specie, le modalità di “uscita” del socio privato alla scadenza del termine: dopo i nove anni, infatti, è previsto che le quote del socio private siano trasferite al socio pubblico al prezzo che sarà determinato, in base a regole già fissate e contenute nei documenti di gara, da un advisor nominato da entrambi i soci. L’importo in questione costituirà la nuova base d’asta per il successivo periodo, ed in tal modo l’AGEA non sarà neppure gravata da oneri per il riacquisto delle quote. Tale dettagliata disciplina appare alla Sezione particolarmente importante, poiché in tal modo non si può neanche astrattamente configurare, nel caso di specie, una situazione – che certamente avrebbe destato perplessità in ordine alla compatibilità con il sistema europeo degli appalti pubblici – in cui il privato, pur se scelto con gara pubblica, potrebbe divenire parte integrante, a tempo indeterminato, del soggetto pubblico che svolge determinate funzioni, fruendo così di una distorsiva rendita di posizione. 9.4. Non sembra, infine, che si possa rinvenire una residuale incompatibilità della situazione in esame con la nuova (e per certi versi più restrittiva degli stessi principi comunitari) disciplina di cui all’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006. Difatti, l’ambito di applicazione soggettivo del d.l. riguarda (salve ovviamente le contestazioni delle Regioni dinanzi alla Corte costituzionale) le società “costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali”, mentre qui si verte di una società costituita da un ente statale, e in ogni caso la normativa in questione si potrebbe configurare come lex specialis (poiché relativa specificamente al Sistema Informativo Agricolo Nazionale), derogatoria rispetto alla previsione generale del d.l. n. 223, ancorché antecedente ad essa. Ma,
anche a prescindere da ciò e a
far assurgere il contenuto dell’art. 9.5. Alla stregua di quanto esposto, il caso di specie sembra quindi rientrare, sotto tutti i suoi aspetti, nel caso generale di cui si è detto retro, al punto 8 e ai relativi sottopunti: può quindi affermarsi la sua complessiva compatibilità con la normativa comunitaria e nazionale. La ammissibilità della scelta legislativa del modello della società mista nel caso di specie non esime, ovviamente, l’amministrazione dal perseguimento di tutte le ulteriori cautele che si impongono in una situazione di così stretta commistione tra l’esercizio di funzioni pubbliche e l’attività del socio “operativo” privato. Esse non costituiscono oggetto del quesito e vertono, peraltro, su aspetti non esaurientemente trattati dalla riferente amministrazione. Tuttavia, la Sezione ritiene opportuno, comunque, richiamare l’attenzione del Ministero sull’esigenza di considerare tale aspetto: si pensi, ad esempio, alla necessità che nell’ambito della società SIN sia ben definito il regime del trattamento dei dati riservati relativi ad amministrazioni pubbliche e dei dati personali dei soggetti privati (come si è detto, il SIAN è interconnesso, tra l’altro, con l'Anagrafe tributaria del Ministero delle finanze, con i Nuclei antifrode specializzati della Guardia di finanza e dell'Arma dei carabinieri, con l’INPS, con le camere di commercio, etc.). P.Q.M. Nelle esposte considerazioni è il parere della Sezione. IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE L’ESTENSORE
(Livia
Barberio Corsetti)
(Luigi
Carbone) IL SEGRETARIO D’ADUNANZA (Anna Vitale) In house providing e società miste:
due rette parallele o
convergenti? nota a parere Consiglio di Stato, Sezione II, 18 aprile
2007, n.
456 di Antonio Plaisant 1.
Introduzione
3. L’evoluzione normativa dei servizi pubblici locali nell’ordinamento nazionale.
5. Lo stato attuale dell’ordinamento ed il contributo offerto dal parere in commento.
6. Alcune considerazioni conclusive
CORTE DI
GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE -
SEZIONE II - Sentenza 19 aprile 2007 Comunità
Europea – Direttive
92/50/CEE, 93/36/CEE e 93/37/CEE – Normativa nazionale che consente ad
un’impresa pubblica di eseguire per diretto incarico da parte di
amministrazioni pubbliche operazioni senza applicazione del regime
generale
d’aggiudicazione degli appalti pubblici – Struttura di gestione interna
–
Presupposti – L’autorità pubblica deve esercitare su di un ente
distinto un
controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi –
L’ente
distinto deve realizzare la parte più importante della propria
attività con
l’autorità pubblica o le autorità pubbliche che lo
controllano
Le direttive del Consiglio
18 giugno 1992,
92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici
di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993,
93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici
di lavori, non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode
la
Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa
pubblica operante
in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di
diverse
amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere
assoggettata
al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un
lato, le
amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un
controllo
analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che,
dall’altro, la
detta impresa realizza la parte più importante della sua
attività con le
amministrazioni di cui trattasi. SENTENZA DELLA
CORTE (Seconda Sezione)
LA CORTE
(Seconda Sezione),
Sentenza
GIUSEPPE FRANCO FERRARI Un raro esempio di controllo analogo Asociación
Nacional de Empresas Forestales (Asemfo) C-295/05 1. La decisione
in esame
rappresenta l’ultimo (per ora) anello della catena di pronunce in punto
di
house providing. Essa si segnala soprattutto, oltre che per la disamina
delle
tematiche processuali relative alle questioni di ricevibilità
della domanda di
pronuncia pregiudiziale, per l’individuazione di un caso di controllo
analogo
ai fini del c.d. primo requisito Teckal in materia di in-house
providing.
L’eccezionalità del caso sotto quest’ultimo profilo si spiega
con il fatto che,
salvo errore, si tratta del primo ed unico – ma v. già
Commissione c. Spagna,
13 gennaio 2005, C-84/03 - tra quelli sottoposti al controllo della
Corte in
cui il controllo analogo viene ravvisato esistente.
(pubblicato il 24.8.2007) Il C.G.A.R. Sicilia, con la sentenza in rassegna, affronta la tematica dei presupposti necessari - per l’affidamento diretto e senza gara di un servizio pubblico - ad una società appositamente costituita. In particolare, si concentra sull’analisi del requisito del "controllo analogo" di matrice comunitaria. Per il Supremo Consesso siciliano la sussistenza del c.d. "controllo analogo" – che secondo la giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza del 18 novembre 1999, causa Teckal C-107/98) è necessario per l’affidamento diretto di un servizio pubblico ad una società appositamente costituita - richiede: a) il possesso dell’intero capitale azionario che, tuttavia, da solo, è condizione necessaria ma non sufficiente a determinare il requisito strutturale; b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali. E’, pertanto, necessario, a tal fine, che si realizzi quello che è definito un "controllo strutturale" e questo non può limitarsi agli aspetti formali relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario. Ha aggiunto il C.G.A. che, secondo quanto si evince dalla giurisprudenza comunitaria, il requisito del possesso totale della mano pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente. Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza in ordine ai poteri di indirizzo e controllo, atteso che, soprattutto nel nostro ordinamento giuridico, la condizione di socio unico proprietario non necessariamente garantisce un potere diretto sulle strategie e sugli indirizzi della società, dovendo la volontà di esso comunque essere filtrata ed attuata dagli organi societari. Sicché, il controllo analogo è costituito da una serie di poteri pregnanti, quali: a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione, il che garantisce esattamente il controllo dell'indirizzo strategico ed operativo della società; b) indicazione dei dirigenti; c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale. Conseguentemente, l’ingerenza dell’ente controllante si deve realizzare non sotto un profilo formale bensì sostanziale, impedendo, in concreto, l’attuazione di politiche aziendali che, di fatto, incidano sulla concorrenza. Per quanto riguarda il requisito funzionale dell’in house, i giudici precisano che - richiamandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee - si deve ritenere che il criterio della prevalenza (ossia la realizzazione dell’ attività dell’ in house provider per "la parte più importante di essa" a favore del soggetto affidante ) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante. Secondo i giudici amministrativi, l’onere della prova circa la esistenza delle condizioni legittimanti l'affidamento diretto ad una società di un servizio pubblico spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto. Nel caso di specie, il C.G.A. conclude per l‘assenza di qualsiasi prova in merito alla sussistenza delle condizioni necessarie per la realizzazione della c.d. eccezione Teckal (rectius per l’affidamento diretto). Il G.A. specifica, inoltre, che, nel caso in cui si contesti l’affidamento diretto di un servizio ad una società in mano pubblica e, pertanto, si pretenda l’affermazione dell’obbligo per la P.A. di tenere un determinato comportamento che si concretizza in un non facere, vale a dire nel non affidare il servizio senza l’esperimento previo di una gara, legittimato alla proposizione del ricorso è un imprenditore del settore e, dunque, un soggetto che astrattamente e potenzialmente sarebbe abilitato a partecipare ad una qualsiasi gara ad hoc indetta. “Il suo interesse, quindi, non è leso dalla indizione di una gara cui non abbia partecipato, o non possa partecipare, per carenza di requisiti, ma esattamente dal fatto che nessuna gara è bandita.” La lesione dell'interesse, nel caso in cui si contesti l’affidamento diretto di un servizio ad una società in mano pubblica, si verifica solo nel momento dell’affidamento e non già con la delibera che ha manifestato la volontà dell’ente pubblico di creare una società che rivesta la qualifica di affidatario diretto del servizio, la quale non è in sé lesiva perché espressione di una potestà autorganizzatoria dell’ente. L’atto di affidamento di un servizio è espressione di un potere di amministrazione attiva che spetta, nel caso di enti locali, al dirigente e non all’organo elettivo, salvo che la legge attribuisca espressamente a questa ultima la cura concreta di un interesse. Pertanto, non costituisce atto di indirizzo politico, ma un atto amministrativo - come tale impugnabile- una delibera con la quale la Giunta municipale non si è limitata ad esprimere un indirizzo capace di orientare l’organo di amministrazione attiva per il raggiungimento di un fine politico, nella scelta tra più soluzioni possibili, ma ha impartito un preciso ordine, vale a dire di affidare il servizio in maniera diretta e senza gara. “Nella fattispecie concreta, quindi, la Giunta ha, in effetti, emanato un provvedimento amministrativo vero e proprio, direttamente impugnabile dalla ricorrente.” (Altalex, 21 settembre 2007. Nota di Francesco Logiudice) Consiglio di
Giustizia
Amministrativa Sede
Giurisdizionale Decizione 4 settembre 2007, n. 719 N. 719/07 Reg.Dec. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente Decisione sui ricorsi in appello nn. 406/06 e 424/06 proposti da: - Ric. n. 406/06 - W. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore rappresentata e difesa dagli avvocati Caterina Giunta e Maria C. Puglisi, ed elettivamente domiciliata in Palermo, via N. Morello, n. 20, presso lo studio della prima; contro X. s.n.c., in persona del rappresentante legale pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Lucia Marino, presso cui è elettivamente domiciliata in Palermo, via V. E. Orlando, n. 6, presso lo studio dell’avvocato Elisa Gullo; e nei confronti di AMMINISTRAZIONE DEL COMUNE DI CATANIA, in persona del Sindaco pro-tempore, non costituito in giudizio; FEDERAZIONE DEL COMPARTO FUNERARIO ITALIANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; - Ric. n. 424/06 - COMUNE DI CATANIA, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Marco Petino ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Torricelli, 3, presso lo studio dell’avv. Giovanna Condorelli; contro la s.n.c. X. DI S. R., in persona del legale rappresentante pro tempore, come sopra rappresentata e difesa ed elettivamente domiciliata; e nei confronti di W. s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; FEDERAZIONE DEL COMPARTO FUNERARIO ITALIANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – sezione staccata di Catania (sez. II) - n. 198/06 del 10 novembre 2005 - 13 febbraio 2006. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’avv. L. Marino per la s.n.c. X.; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visto il dispositivo n. 161/06 del 19 dicembre 2006; Visti gli atti tutti della causa; Relatore il Consigliere Claudio Zucchelli; Uditi alla pubblica udienza del 29 novembre 2006 l’avvocato M.B. Miceli, su delega dell’avvocato C. Giunta, per la W., l’avvocato F. Gullotta, su delega dell’avvocato M. Petino, per il Comune di Catania e l’avvocato N. D’Alessandro, su delega dell’avvocato L. Marino, per la s.n.c. X.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: FATTO Il Comune di Catania aveva bandito una gara per l'affidamento del servizio di illuminazione votiva nei cimiteri cittadini. Con successiva deliberazione di Giunta n. 153 dell’8 febbraio 2005 fu assunto un atto d’indirizzo diretto a revocare il bando e a procedere all’affidamento del servizio con il sistema del così detto in house providing o “affidamento diretto”. Con determinazione dirigenziale n. 5/124/Dir del 4 marzo 2005 il bando fu revocato e fu deliberato l’affidamento del servizio alla W. s.p.a. con il sistema dell’affidamento diretto. Con deliberazioni n. 14 del 26 febbraio 1997 e n. 14 del 20 marzo 1998 il Consiglio Comunale aveva già deliberato l’affidamento diretto alla società W. per il periodo precedente. Con successiva determinazione n. 5/256/Dir del 10 maggio 2001 il Direttore dei Servizi cimiteriali affidava il servizio e stabiliva il capitolato d’oneri, le condizioni generali di abbonamento e le norme transitorie. Avversi tali atti l’impresa X. s.n.c. proponeva ricorso al TAR di Catania, lamentando: 1. L’incompetenza della giunta alla emanazione dell’atto. 2. L’illegittimità dell’affidamento diretto alla controinteressata, in assenza del così detto “controllo analogo” da parte dell’ente locale sulla società affidataria. 3. La non prevalenza della attività a favore del soggetto pubblico azionista. 4. La violazione articolo 113 d. l.vo 267 del 2000. 5. Difetto di motivazione. Il Comune si costituiva eccependo: 1. La tardività del ricorso. 2. Carenza di legittimazione della ricorrente, la quale non aveva presentato domanda di partecipazione alla gara revocata. 3. Carenza di interesse. 4. Inammissibilità del ricorso diretto contro atti politici insindacabili. 5. Affermava altresì l’esistenza del controllo analogo, come si evinceva dal possesso da parte del Comune del pacchetto di maggioranza e dal potere di nomina del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. 6. La prevalenza della attività a favore di soggetto pubblico poiché essa rappresentava il 62 per cento del fatturato dell’impresa affidataria. 7. In ogni caso la tardività e la carenza di interesse ad impugnare gli atti riguardanti la costituzione della società pubblica. Si costituiva altresì la controinteressata W. s.p.a., resistendo. Non si costituiva l’Italia Lavoro s.p.a. proprietaria del 49% del pacchetto azionario della W. s.p.a. Si costituiva la FEDER.CO.IT, federazione imprenditoriale di categoria. Con la sentenza di cui in epigrafe il TAR accoglieva il ricorso, osservando in sintesi: 1. Il ricorso contro l’affidamento diretto alla W. s.p.a. non è tardivo, poiché è stato notificato il 29 marzo 1005, mentre tali atti sono stati assunti l’8 febbraio ed il 4 marzo 2005. Al più può essere tradivo il ricorso avverso la costituzione della società pubblica. 2. L’ammissibilità del ricorso diretto a contestare non la procedura di gara revocata, cui la ricorrente non aveva partecipato, ma la scelta di affidare il servizio in modalità diretta. A fronte di tale decisione la legittimazione attiva deriva dalla posizione di imprenditore di settore. 3. La deliberazione di giunta non costituisce atto politico ma amministrativo anche se ampiamente discrezionale. 4. Nel merito osserva che la normativa europea, come interpretata dalla Corte di giustizia, ritiene il così detto affidamento diretto una misura eccezionale, tale da considerarsi anche nei confronti degli appalti di servizi e non solo di quelli di lavori. 5. La disciplina italiana è contenuta nell'articolo 113 del testo unico sugli enti locali, il quale richiede la prevalenza della attività a favore del soggetto pubblico proprietario. Nel caso di specie la controinteressata, pur avendo realizzato la maggioranza del proprio fatturato con il Comune azionista, circa il 62 per cento, aveva indirizzato la propria attività imprenditoriale verso altri ambiti e territori amministrativi. Accoglieva quindi il ricorso avverso l’affidamento, e contro gli atti conseguenti, respingendo quello contro la costituzione della società per irricevibilità per tardività ed inammissibilità per carenza di interesse. Avverso la detta sentenza propone appello la W. s.p.a., lamentando: 1. La costituzione della società è avvenuta con la deliberazione del 1997 e con quella del 1998 è stato approvato il contratto di servizio. L’affidamento alla W. del servizio in oggetto, quindi, era già stato deliberato e l’atto era immediatamente lesivo. Ne consegue la tardività del ricorso di primo grado avverso tali atti e l’inammissibilità del ricorso contro atti sostanzialmente esecutivi del precedente non impugnato nei termini. 2. La revoca della gara costituisce atto presupposto e prodromico al successivo affidamento, e immediatamente lesivo, quindi la mancata partecipazione ad essa rende inammissibile, per carenza di interesse, l'impugnazione dei successivi atti. 3. La non impugnabilità dell'atto di indirizzo espresso dal Consiglio comunale. 4. La sussistenza dei requisiti per l’affidamento diretto, costituito: a) dalla partecipazione interamente pubblica; b) dalla sussistenza di un controllo analogo; c) dalla realizzazione della parte più importante della propria attività a favore dell'ente pubblico controllante. Si costituiva in giudizio la X. s.n.c. resistendo e riproponendo i motivi assorbiti dal TAR, ed in particolare: l’inesistenza del così detto controllo analogo e l'ostacolo costituito dalla clausola dello statuto che prevedeva la cessione ai privati entro il quinquennio del 49 per cento delle azioni in mano alla GEPI, oggi Italia Lavoro. Deposita altresì ricorso incidentale con il quale ripropone l’impugnativa delle due deliberazioni consiliari di istituzione della società e di approvazione del contratto di servizio, osservando che la lesione si attua solo nel momento in cui l'affidamento si è concretizzato. Con separato atto, rubricato a diverso numero di ruolo generale, anche il Comune di Catania impugna la sentenza in epigrafe, lamentando: 1. Inammissibilità per carenza di interesse non avendo la ricorrente partecipato alla gara revocata. 2. Inammissibilità dell'impugnazione di atti di indirizzo politico. 3. La sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla giurisprudenza comunitaria e dall’articolo 113 del TUEL per l'affidamento in house. DIRITTO 1. Preliminarmente si deve procedere alla riunione del ricorso n. 424/06 al ricorso n. 406/06, siccome anteriore nel ruolo, poiché entrambi diretti a censurare la stessa sentenza del TAR, in applicazione dell’articolo 335 c.p.c.. 2. Gli appellanti ripropongo all’attenzione di questo Giudice l’eccezione già presentata in primo grado circa l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, poiché la ricorrente non ha partecipato alla gara poi revocata il cui oggetto è stato poi realizzato mediante un affidamento diretto. Come ha già osservato il TAR con la sentenza impugnata, la questione sottoposta all’attenzione del Giudice non è costituita dalla revoca del bando di concorso, ma dall’affidamento del servizio senza l’esperimento previo di una gara. La pretesa della ricorrente in primo grado deve essere attentamente chiarita. Essa è diretta ad accertare l’obbligo per il comune di tenere un determinato comportamento che si concretizza in un non facere, vale a dire nel non affidare il servizio senza l’esperimento previo di una gara. A tale pretesa la ricorrente è legittimata per il solo fatto di essere un imprenditore del settore, e dunque un soggetto astrattamente e potenzialmente abilitato a partecipare ad una qualsiasi gara ad hoc indetta. Il suo interesse, quindi, non è leso dalla indizione di una gara cui non abbia partecipato, o non possa partecipare, per carenza di requisiti, ma esattamente dal fatto che nessuna gara è bandita. Anzi, analizzando logicamente la situazione attuale, la revoca del bando di gara precedente, cui ella non aveva partecipato, giovava all’interesse della ricorrente, quindi tale atto non solo non doveva necessariamente esser impugnato, ma anzi non poteva esserlo perché assolutamente non lesivo nei suoi confronti. Per altro, una volta revocata la gara, la situazione giuridica relativa al servizio è stata ricondotta allo status quo ante, per cui la successiva decisione di affidamento diretto è essa proprio nuovamente lesiva degli interessi della ricorrente, perché viene a disciplinare ex novo la situazione per l’innanzi ritornata al punto di partenza. In altri termini la deliberazione di affidamento ha rinnovato totalmente l’attuazione della volontà del Comune e quindi essa è autonomamente impugnabile a prescindere dalla sorte degli atti precedenti che non rilevano. 3. Del pari infondata è l'eccezione in primo grado, oggi motivo di appello, circa la carenza di interesse alla impugnazione dell'affidamento per l’avvenuto consolidamento delle deliberazioni consiliari del 1997 e 1998 con le quali era stata costituita la società pubblica e si era ad essa affidato il servizio approvando il contratto di servizio. In realtà, non rileva se l’atto costitutivo prevedesse al momento l’affidamen-to in questione, poiché ciò che conta è che, al momento del rinnovo del rapporto, segnato appunto dalla decisione di indire la gara poi revocata e successivamente di affidamento diretto, la posizione giuridica soggettiva della ricorrente era caratterizzata dalla pretesa che tale affidamento non avvenisse appunto in maniera diretta. La lesione dell'interesse, e cioè la negazione della pretesa, si è verificata solo nel momento dell’affidamento e non già con le delibere del 1997-1998, le quali, a tutto concedere, potrebbero avere leso gli interessi della ricorrente all’epoca per quella tratta contrattuale, ma non poi per la tratta da rinnovare. Del resto la manifestazione di volontà dell’ente locale di creare una società che rivesta la qualifica di affidatario diretto non è in sé lesiva perchè espressione di una potestà autorganizzatoria. Se del caso, sarà lesivo il successivo affidamento qualora non realizzato secondo le norme che infra esamineremo. 4. Sotto questo profilo, invece, l’appello incidentale della X. avverso le dette due deliberazioni consiliari deve essere dichiarato inammissibile, prima ancora che irricevibile, appunto perchè non sussiste l'interesse attuale alla impugnazione di esse, ma al contempo il loro consolidamento non impedisce che, oggi, sussista l’interesse alla impugnazione dell’affidamento diretto alla W.. 5. Ancora in via di eccezione in primo grado e poi di motivo d’appello, la W. s.p.a. ed il Comune di Catania osservano l’inammissibilità dell’impugnazione della deliberazione di Giunta che costituirebbe un atto di indirizzo politico e non amministrativo. La questione, in realtà, è del tutto inconferente. L'affidamento del servizio è comunque avvenuto con la determinazione del dirigente competente, la quale costituisce atto lesivo in questa sede debitamente impugnato. Che l’atto precedente, cioè la deliberazione di Giunta, sia da considerare atto di indirizzo politico che ha condizionato la decisione amministrativa o sia esso stesso atto presupposto di alta amministrazione immediatamente lesivo, non rileva alcunché alla presenza del successivo atto di amministrazione attiva che ha determinato il nuovo assetto giuridico degli interessi. In linea generale, e solo per corrispondere alla naturale funzione didattica della giurisprudenza, si può osservare che l’atto di affidamento di un servizio è espressione di un potere di amministrazione attiva che spetta al dirigente e non all’organo elettivo, o alla di lui espressione costituita dalla Giunta, salvo che la legge attribuisca espressamente a questa ultima la cura concreta di un interesse. L’atto di indirizzo in questione, quindi, è da considerare in generale atto politico e non di alta amministrazione. Nella specie, tuttavia, la Giunta non si è limitata ad esprimere un indirizzo capace di orientare l’organo di amministrazione attiva per il raggiungimento di un fine politico, nella scelta tra più soluzioni possibili, ma ha impartito un preciso ordine, vale a dire di revocare la precedente gara e di affidare il servizio in maniera diretta e senza gara, che non poteva non essere eseguito dal dirigente e non altrimenti che non bandendo la gara relativa. Nella fattispecie concreta, quindi, la Giunta ha, in effetti, emanato un provvedimento amministrativo vero e proprio, direttamente impugnabile dalla ricorrente. Il ricorso, quindi, per questo verso è ammissibile, infra si vedrà se e in quali termini sia anche fondato. 6. Entrando finalmente nel merito della questione occorre premettere alcune considerazioni generali sulla normativa europea di riferimento e sulla costituzione economica, formale e sostanziale, che essa ha indotto anche nel nostro Paese. Il principio della concorrenza è uno dei basamenti della costituzione economica europea, soprattutto in relazione al mondo delle commesse pubbliche. Nei considerando delle direttive “lavori”, “servizi” e “forniture” (oggi accomunate nella direttiva n. 18 del 2004), espressamente si fa riferimento alla volontà dell’Unione Europea di garantire la completa parità di accesso di tutte le imprese europee al monte dei contratti pubblici, che costituisce, e di ciò l’Unione ha piena coscienza, il volano economico più consistente nel sistema interventista in vigore in Europa. Tale attenzione e l’accentuazione del principio della concorrenza hanno conseguenze molteplici. Per ciò che qui interessa, la conseguenza rilevante è che le imprese europee (ma con ciò si intende anche quelle dello stesso Paese del cui ordinamento giuridico si giudica) devono essere poste sullo stesso piano, concedendo loro le medesime opportunità, sia sotto il profilo dell’accesso ai contratti pubblici (e quindi attraverso il sistema ordinario della evidenza pubblica), sia impedendo che particolari situazioni economiche pongano alcune di esse in una condizione di privilegio o comunque di favore economico. Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento. 7. L’Unione Europea è ben consapevole della esistenza di situazioni nelle quali l’interesse pubblico affidato ad un soggetto pubblico sia più proficuamente curato attraverso un soggetto imprenditoriale che ad esso risponda direttamente, in virtù di un rapporto di proprietà azionaria o comunque di controllo diretto. In tal caso non considera a priori contrario ai principi del trattato affidare il contratto senza procedere ad una gara, ma a precise condizioni. Infatti, una tale evenienza depaupera il monte contrattuale a disposizione di tutte le imprese europee, e per questo il sistema dell’affidamento diretto deve, in primo luogo, essere considerato un’eccezione di stretta interpretazione (quella che nel linguaggio giudiziario della Corte di giustizia viene, infatti, definita “eccezione Teckal”) al sistema ordinario delle gare; in secondo luogo deve rispondere alla sussistenza di ben precisi presupposti, in assenza dei quali l’affidamento è idoneo a turbare la par condicio e quindi a violare il trattato (e le direttive). 8. Il rispetto delle eccezioni dell’obbligo della gara, però, non è sufficiente per ricondurre l’affidamento diretto all’interno dell’alveo della concorrenza e della par condicio tra le imprese. Si è accennato poc’anzi al pericolo che si creino particolari situazioni di privilegio per alcune imprese. Una situazione di tal fatta si verifica quando un’impresa usufruisca, sostanzialmente, di un aiuto di Stato, vale a dire di una provvidenza economica pubblica atta a diminuirne o coprirne i costi. Il privilegio economico non necessariamente si concretizza, brutalmente, nel contributo o sussidio diretto o nell’agevola-zione fiscale o contributiva, ma anche garantendo una posizione di mercato avvantaggiata rispetto alle altre imprese. Anche in questo senso, il privilegio non necessariamente si realizza in modo semplicistico introducendo limiti e condizioni alla partecipazione delle imprese concorrenti, ma anche, ed in maniera più sofisticata, garantendo all’impresa una partecipazione sicura al mercato cui appartiene, garantendo, in sostanza, l’acquisizione sicura di contratti il cui provento sia in grado di coprire, se non tutte, la maggior parte delle spese generali, in sintesi: un minimo garantito. Non è necessario che ciò determini profitto, purché l’impresa derivi da tali contratti quanto è sufficiente a garantire e mantenere l’apparato aziendale. In una tale situazione, è fin troppo evidente che ogni ulteriore acquisizione contrattuale potrà avvenire offrendo sul mercato condizioni concorrenziali, poiché l’impre-sa non deve imputare al nuovo contratto anche la parte di costi generali già coperta, ma solo il costo diretto di produzione. Gli ulteriori contratti, sostanzialmente, diventano più che marginali e permettono o la realizzazione di un profitto maggiore rispetto all’ordinaria economia aziendale del settore, ovvero di offrire sul mercato prezzi innaturalmente più bassi, perché non gravati dall’ammortamento delle spese generali. Nell’uno o nell’altro caso, il meccanismo del minimo garantito altera la par condicio delle imprese in maniera ancora più grave perché con riflessi anche sul mercato dei contratti privati. L’impresa beneficiaria di questa sorta di minimo garantito, infatti, è competitiva non solo nelle gare pubbliche, ma anche rispetto ai committenti privati, sicché, in definitiva, un tale sistema diviene in sé assai più pericoloso e distorcente di una semplice elusione del sistema delle gare. Potenzialmente ciò induce ed incoraggia il capitalismo di Stato e conduce alla espulsione delle imprese private marginali. 9. Dai rischi sopra segnalati discendono direttamente le misure che l’Unione Europea ha adottato per contenere il fenomeno dell’affida-mento diretto. Esse si indirizzano, sostanzialmente, su due strade: da un lato assimilare quanto più possibile l’impresa assegnataria alla medesima amministrazione appaltatrice; dall’altro non introdurre nell’ambito del mercato privato l’elemento di disturbo, costituito da tale tipo di impresa. Al primo obiettivo corrispondono i principi che, sincreticamente, possiamo indicare come quelli del “controllo analogo”; al secondo, il principio della “attività prevalente”, vale a dire della tendenziale esclusività della attività economica a favore dell’azio-nista: l’impresa pubblica non può in nessun modo inserirsi nel mercato privato nel quale costituirebbe un elemento di disturbo e pericolo. 10. Dall’esame della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, di cui infra, emerge con chiarezza che questo imprenditore non può essere un vero imprenditore. Egli non rischia, costituisce solo un braccio operativo della Pubblica Amministrazione, professionalizzato e capace di acquisire sul mercato i mezzi e le professionalità necessarie, ma sostanzialmente equiparabile a quelle figure tradizionali del diritto amministrativo, ormai scomparse, quali le aziende autonome o gli organi con personalità giuridica. I motivi per cui un soggetto pubblico opera la scelta di agire attraverso una società per azioni ad hoc costituita, anziché apprestare all’uopo un ufficio tecnico, possono essere i più vari. Dalla esigenza di sottrarsi alla contabilità pubblica, a quella di acquisire uomini e mezzi in maniera flessibile attingendo al mercato, e quindi aderendo alle sue logiche dei prezzi e delle retribuzioni; dalla temporaneità della intrapresa, alla particolare professionalità non reperibile attraverso il reclutamento pubblico etc. Ciò non rileva molto, ciò che l’Unione Europea pretende è che tale esperienza rimanga confinata all’interno del soggetto pubblico azionista o proprietario, e che un tale imprenditore non abbia margini e discrezionalità per invadere il mercato libero. 11. E’ fin troppo facile, ormai, comprendere la genesi e il significato delle condizioni poste dalla giurisprudenza europea alla utilizzazione di un affidamento indiretto: 1. La totale proprietà delle azioni, o comunque del capitale, da parte del soggetto pubblico; 2. Il controllo totale della volontà formale della persona giuridica attraverso l’espressione degli amministratori; 3. La sussistenza di un controllo specifico non solo sulle procedure formali di manifestazioni di volontà (contratti), ma anche sulle politiche aziendali, per garantire che esse non si evolvano in direzione contraria o comunque diversa dai semplici e stringenti bisogni tecnici dell’azionista. E’ quello che, in sostanza, definiamo “controllo analogo”. 4. L’esclusività dell’attività a favore dei soggetti pubblici (uno o più non rileva) che l’hanno costituita o che ne sono proprietari. 12. Le condizioni sopra indicate non escludono l’autonomia gestionale ed operativa della impresa, allo stesso modo in cui nel caso di socio unico di una società privata, questi orienta secondo la sua indiscutibile ed insindacabile volontà la politica dell’impresa posseduta, ma questa attua gli indirizzi attraverso la professionalità e le scelte operative autonome dei suoi dirigenti ed impiegati. Allo stesso tempo, però, la volontà del socio unico è, in questo particolare caso, regolamentata dal diritto europeo nel senso che gli è del tutto interdetto perseguire obiettivi e risultati imprenditoriali in concorrenza nel mercato pubblico o privato dei contratti. Alcuni passi della giurisprudenza europea chiariranno ancor meglio il rapporto tra il controllo analogo ed i poteri dei consigli di amministrazione ed il concetto della attività prevalente o esclusiva. 13. Come è noto nella prima sentenza dedicata all’argomento (causa Teckal C-107/98 sentenza del 18 novembre 1999) in un importante passaggio la Corte si espresse nel seguente modo: “Può avvenire diversamente (la stipulazione di un contratto tra un soggetto pubblico e una persona giuridicamente distinta senza il ricorso alla gara n. d. r.) solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano.” In quel procedimento l’Avvocato generale, nelle proprie conclusioni, aveva sottolineato che: “Se ammettiamo la possibilità delle amministrazioni aggiudicatrici di potersi rivolgere a enti separati, al cui controllo procedere in modo assoluto o relativo, per la fornitura di beni in violazione della normativa comunitaria in materia, ciò aprirebbe gli otri di Eolo per elusioni contrastanti con l'obiettivo di assicurare una libera e leale concorrenza che il legislatore comunitario intende conseguire attraverso il coordinamento delle procedure per l'aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture.” con ciò chiarendo l’obiettivo finale della impostazione giuridica, cui precedentemente si è accennato. Aggiungeva ancora l'Avvocato generale che si sarebbe dovuto procedere alla gara qualora si giungesse alla conclusione “che i rapporti tra il comune e **** sono conseguenza dell'incontro di due volontà autonome che rappresentano interessi giuridici distinti, conformemente all'abituale schema di rapporti che caratterizza i rapporti contrattuali di due soggetti distinti, e questa conclusione risulta anche dall'esame delle condizioni contrattuali” Questa ultima considerazione apre alla valutazione degli interessi in campo e quindi della realtà economica sottostante al fenomeno dell’affidamento diretto e sarà sviluppata dalla giurisprudenza comunitaria e del Consiglio di Stato. Come è stato osservato da autorevole giurisprudenza (Consiglio di Stato, V, 13 luglio 2006, n. 4440) l’espressione usata dalla Corte nella sentenza Teckal non chiariva cosa dovesse intendersi per “controllo analogo” fornendo però alcune indicazioni significative. Si ammetteva, infatti, che l’affidatario potesse non essere un ufficio interno della amministrazione e che questo soggetto ben poteva svolgere una parte della propria attività anche a favore di altri soggetti pubblici o privati. A questa ultima conclusione la Corte perveniva nel paragrafo 50 della sentenza dettando, sostanzialmente, due condizioni per quello che in futuro sarebbe stato chiamato affidamento in house o diretto: il controllo analogo, appunto, e la realizzazione della propria attività per “la parte più importante di essa” a favore del soggetto affidante. 14. La giurisprudenza della Corte ha successivamente meglio specificato il concetto di controllo analogo, astenendosi dal dettare un decalogo espresso e puntuale, ma utilizzando lo strumento tipicamente pretorio della decisione del caso concreto per indicare, quale sorta di precedente, la regola, vale a dire la ripetitività ragionevole della decisione, cui si atterrà in futuro. E così si è precisato (sentenze Truley/Bestattung Wien C-373/00 del 27 febbraio 2003, punto 68; Comm/Repubblica Francese. C-232/99 del 1 febbraio 2001, punti 48 e 49) che il concetto di controllo analogo si risolve in quello di “dipendenza”. Ed ancora che ciò presuppone (sentenze Stadt Halle, C-26/03, Parking Brixen C-458/03) un’influenza determinante da parte del soggetto affidante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti (sentenza Parking Brixen, punto 65), sia sulle attività gestionali direttamente connesse al raggiungimento degli scopi sociali. Poiché ciò determina l’insufficien-za degli usuali poteri di vigilanza e controllo previsti dal diritto societario per i soci unici o di maggioranza (art. 2497 bis del c.c.) (sentenza Parking Brixen, punto 69), è necessario predisporre procedure e strumenti di più incisivo intervento, quali un ufficio di interfaccia ad hoc. Il controllo analogo, nella visione della Corte europea, è costituito da una serie di poteri pregnanti: a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione, il che garantisce esattamente il controllo dell'indirizzo strategico ed operativo della società; b) indicazione dei dirigenti; c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale. Spetta, ovviamente, al soggetto controllante provare la sussistenza di tali circostanze che lo legittimino all’utilizzazione della “eccezione Teckal”, poiché l’affidamento diretto è l’eccezione (vedi su questi punti: C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440, V 30 agosto 2006, n. 5072). 15. Ha osservato ancora la Corte (sentenza Truley/Bestattung Wien C-373/00 punti 70-74) che “Per quanto riguarda, in particolare, il criterio relativo al controllo della gestione, … esso deve creare una dipendenza nei confronti dei poteri pubblici equivalente a quella che esiste allorché uno degli altri due criteri alternativi, (previsti dall’articolo 1 lettera b), secondo comma terzo trattino delle direttive allora in vigore 92/50, 93/36 e 93/37. ndr) è soddisfatto”, vale a dire il finanziamento che provenga in modo maggioritario dai poteri pubblici oppure la nomina da parte di questi ultimi di una maggioranza dei membri che costituiscono l'organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza di tale organismo, che permetta ai poteri pubblici d'influenzare le decisioni del suddetto organismo in materia di appalti pubblici (v. anche sentenza Commissione/Francia, C-237/99 punti 48 e 49). L’ingerenza sostanziale dell’ente controllante si deve realizzare non sotto un profilo formale ma sostanziale, impedendo, in concreto, l’attuazione di politiche aziendali che, di fatto, incidano sulla concorrenza nel modo sopra segnalato. Anche in questo caso l’atteggiamento pragmatico della giurisprudenza comunitaria, sostanzialmente sembra richiamarsi al meccanismo logico tipico del così detto ”effetto utile” che è, praticamente, uno dei fili conduttori dei principi ermeneutici europei. E quindi la Corte ha sottolineato (Truley/Bestattung Wien citata) che non è sufficiente un mero controllo a posteriori per soddisfare il criterio del “controllo analogo”, perché, per definizione, un tale controllo non consente alle pubbliche autorità di influenzare preventivamente (atteso che un’influenza successiva è una contraddizione logica) le decisioni dell'organismo interessato in materia di appalti pubblici. Nella stessa sentenza la Corte individua a contrario quale sia concretamente il tipo di organizzazione manageriale atto a soddisfare le esigenze segnalate, là dove, accogliendo le osservazioni dell'avvocato generale, ritiene che la città di Vienna in effetti, esercitasse un tale tipo di controllo per il fatto che la Bestattung Wien è direttamente assoggettata al controllo della città di Vienna, in ragione della sua appartenenza ad una società - la WSH - il cui intero capitale è nelle mani di tale ente locale. Ed ancora per il fatto che dall'ordinanza di rinvio emerge anche che il contratto sociale della Bestattung Wien prevede espressamente che il Kontrollamt della città di Vienna ha il diritto non solo di controllare il bilancio di esercizio di detta società ma altresì di accertarsi che «l'amministrazione corrente sia esatta, regolare, improntata a risparmio, redditizia e razionale». Lo stesso punto del contratto sociale autorizza inoltre il Kontrollamt a visitare i locali e gli impianti aziendali di detta società e a riferire sul risultato di tali verifiche agli organi competenti nonché ai soci e alla città di Vienna. Siffatte prerogative consentono quindi un controllo attivo sulla gestione della suddetta società. 16. Se estrapoliamo da questo passaggio i principi astratti riflessi dalla situazione di fatto, giungiamo alla conclusione che essenziale, ai fini del controllo analogo, sono: a) il possesso dell’intero capitale azionario (che tuttavia da solo è condizione necessaria, ma non sufficiente a determinare il controllo analogo come ritiene C. d. S. . V 22-12-05 n. 7345, vedi oltre): b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali. Ed infatti, testualmente, conclude la Corte: “Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve risolvere la questione nel senso che un mero controllo a posteriori non soddisfa il criterio del controllo della gestione figurante all'art. 1, lett. b), secondo comma, terzo trattino, della direttiva 93/36. Soddisfa per contro detto criterio una situazione in cui, da un lato, le pubbliche autorità verificano non solo i conti annuali dell'organismo considerato, ma anche la sua amministrazione corrente sotto il profilo dell'esattezza, della regolarità, dell'economicità, della redditività e della razionalità e, dall'altro, le stesse autorità sono autorizzate a visitare i locali e gli impianti aziendali del suddetto organismo e a riferire sul risultato di tali verifiche a un ente locale che detenga, tramite un'altra società, il capitale dell'organismo di cui trattasi.” Si può quindi concludere che è necessario si realizzi quello che è definito “controllo strutturale”, ma che questo non può limitarsi agli aspetti formali relativi alla nomina degli organi societari ed al possesso della totalità del capitale azionario. 17. Questo ultimo punto, del possesso del capitale sociale, richiede una precisazione. L’aspetto non era stato sufficientemente trattato nella sentenza Teckal, ma la Corte ha avuto modo di ulteriormente approfondirlo, giungendo a conclusioni molto trancianti vale a dire che condicio sine qua non perché si verifichi un legittimo affidamento diretto è che il capitale sociale appartenga interamente al soggetto pubblico, dato che “la partecipazione anche minoritaria di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi” (Stadt Halle, C-26/03, punto 49, 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32). Ancora una volta la Corte appunta la sua attenzione sulla situazione di vantaggio che deriverebbe indirettamente al soggetto privato il quale, per il solo fatto di essere associato con un soggetto pubblico, godrebbe di un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti privati, sia nei riguardi dell’appalto pubblico, sia nei confronti del mercato privato (punto 51 della sentenza Stadt Halle citata). Appare evidente dalla giurisprudenza citata, tuttavia, che il requisito del possesso totale della mano pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente. Ciò si ricava proprio dalla giurisprudenza in ordine ai poteri di indirizzo e controllo che si è sopra richiamata, atteso che, soprattutto nel nostro ordinamento giuridico, la condizione di socio unico proprietario non necessariamente garantisce un potere diretto sulle strategie e sugli indirizzi della società, dovendo la volontà di esso comunque essere filtrata ed attuata dagli organi societari. Per tale motivo la Corte ha superato il precedente orientamento di cui era espressione C.d.S., V, 22 dicembre 2005 n. 7345 già citata. Ma ancora, la Corte si è spinta più avanti, prevenendo la possibilità concretamente realizzatasi in varie circostanze, che il soggetto economico avvantaggiato dall’affidamento diretto perché interamente pubblico, rientrasse successivamente nel circuito privato. Da ciò il principio per cui lo statuto dell’affidatario diretto non deve prevedere la cessione, anche solo di parte, del capitale azionario a futuri soci privati. Si è già osservato che nella sentenza Teckal la Corte richiama la situazione di dipendenza sostanziale tra il soggetto affidante e affidatario anche sotto il profilo della prevalenza della attività svolta dall’impresa affidataria (“la parte più importante ….”). Si sono già esplicitati i motivi economici sottostanti a questa impostazione. La limitazione della attività “privata” della impresa non rileva nei confronti del mercato pubblico delle commesse, quanto piuttosto nei confronti del mercato privato. I requisiti funzionali soddisfatti dal “controllo analogo” sono sufficienti per qualificare l’impresa come, sostanzialmente, un braccio operativo della amministrazione, sotto i due profili sostanziali della supremazia e della proprietà; essi, però, non sono sufficienti ad impedire la distorsione della concorrenza nel mercato privato, anzi, paradossalmente, la aggravano perché permettono, in astratto, che solide imprese pubbliche, ben governate dagli organi pubblici, acquisite remunerative commesse pubbliche, si presentino sul mercato privato in condizioni di forte concorrenza. Pertanto, unitamente agli altri elementi qualificanti, quali il controllo totalitario della partecipazione (sentenze Stadt Halle, C-26/03, punti 49 e 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32) l’esercizio diretto deve essere caratterizzato dalla quasi esclusività, quantitativa e qualitativa, delle attività svolte dall’impresa nei confronti dell’Ente controllante (sentenza Carbotermo spa C-340/04, punti 62, 63, 64). 18. Questo ultimo punto giova essere brevemente approfondito. Sembrano ormai chiari, ripercorrendo l’iter logico ed evolutivo della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, i motivi e gli scopi ultimi delle norme, anche pretorie, consolidatesi nella materia. La giurisprudenza traccia dell’affidatario diretto un ritratto stringente, che, in parole povere e sincreticamente, potremmo definire come una mera articolazione interna della pubblica amministrazione sia pure sotto una forma giuridica che ne separa la personalità. Che questa articolazione svolga i suoi compiti contrattuali esclusivamente nei confronti dell’Ente è, quindi, conseguenza logica ed ineludibile. La giurisprudenza della Corte si è astenuta dall’indicare parametri numerici, quali principalmente la quota di fatturato ”pubblico” rispetto a quello privato, e con saggezza. Più ancora che l’individuazione di una soglia percentuale necessita un giudizio pragmatico nel caso concreto che si basi, però, non solo sull’aspetto quantitativo, ma anche su quello qualitativo. In altri termini, la natura dei servizi, opere o beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto nel mercato pubblico e privato. Che un’impresa creata per gestire lo spin off immobiliare di un grande ente locale come una Provincia, fornisca, saltuariamente, una sola volta nell’anno, e in quantità irrisoria rispetto al fatturato pubblico, un servizio di global service ad una grande impresa privata dello stesso territorio, particolarmente importante sotto il profilo sociale, potrebbe non violare il principio della prevalenza. Ma se la stessa operazione, negli stessi limiti quantitativi, cominciasse ad inserirsi in un piano aziendale di espansione, anche territoriale, ciò implicherebbe una rilevanza “qualitativa” della operazione in contrasto con il principio della prevalenza. Sotto questo profilo la giurisprudenza della Corte e del Consiglio di Stato mostrano di ritenere a priori che l’espansione territoriale, anche a vantaggio di altri enti pubblici analoghi, violi la prevalenza. Questo Consiglio condivide pienamente questo indirizzo. Sembra piuttosto evidente che l’impresa controllata da un ente locale, nel momento in cui partecipa ad una gara fuori territorio, sia pure bandita da un ente locale analogo a quello che la controlla (in ipotesi comune e comune) si pone nei confronti del mercato imprenditoriale locale come concorrente sleale (per i motivi ampiamente sopra illustrati) e quindi non solo questa sua espansione può condurre da un lato alla inammissibilità della sua partecipazione alla gara, fino a che dura il regime di affidamento diretto nei confronti del suo ente controllante, ma anche al venire meno della sua qualifica di soggetto “affidatario diretto” (o soggetto in house come si dice nel gergo comune), sì che delle due l’una: o l’impresa non partecipa a gare fuori territorio, e mantiene così il suo status, o vi partecipa, e perde il suo status, con le ovvie conseguenze nei confronti della legittimità dell’affidamento diretto già realizzato o da realizzare. Già con la sentenza n. 4586 del Consiglio di Stato, sez. V, del 3 settembre 2001, si era ritenuto che il vincolo territoriale entrasse in gioco qualora la distrazione di mezzi e di risorse fosse realmente apprezzabile e tale da creare nocumento agli interessi della comunità locale espressione della società. Il Consiglio giudicava la questione sotto il profilo dell'interesse pubblico dell’ente promotore della società, preoccupandosi che non si verificasse una sorta di “peculato per distrazione” delle risorse dall’una all'altra comunità locale. L’extraterritoriale influenza, quindi, la legittimazione alla gara nella visione del Consiglio. La tesi è esatta e condivisibile, sotto questo profilo, ma deve essere integrata con le considerazioni di diritto comunitario sopra esposte. In effetti, la circostanza che l’affidatario diretto impieghi risorse consistenti fuori del territorio di competenza del suo ente promotore, è non solo indice di una possibile cura affievolita dell’interesse pubblico di questi, ma anche, e soprattutto, della rilevanza della attività a favore di soggetto diverso dal suo ente proprietario. Quindi l’extraterritorialità della attività incide, a priori, proprio sul concetto di prevalenza, particolarmente nel senso qualitativo che si vedrà infra. A fortiori, infine, è del tutto da escludere un affidamento diretto da parte del secondo soggetto pubblico, atteso che esso, pur rivestendo una qualificazione pubblica, non è proprietario del pacchetto azionario e dunque non esercita alcun controllo, né analogo né difforme, sull’impresa affidataria. Per concludere sul punto, si deve ritenere che il criterio della prevalenza (“la parte più importante…”) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante. A tale proposito si ricorda la più volte citata sentenza della Corte Europea in causa Spagna/Commissione, C-349/97 del 8 maggio 2003, punto 204, nella quale la Corte, interpretando se stessa, ha assimilato l’espressione “più importante”, in precedenza utilizzata, al termine “essenziale”, come pure ha fatto nella citata sentenza Parken Brixen, punto 71. Si veda, soprattutto, questa ultima sentenza, nella quale la corte esprime un concetto fondamentale. Essa, infatti, sincreticamente considera l’aspetto qualitativo e quantitativo, riferendosi al fatto che il soggetto “ha invece acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo del comune. In questo senso militano: a) la trasformazione della azienda speciale in società per azioni; b) l’amplia-mento dell’oggetto sociale; l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; c) l’espansione territoriale; d) i considerevoli poteri conferiti al Consiglio di Amministrazione.” Come è evidente il punto chiave è ”l’acquisizione di una vocazione commerciale” che, dietro lo schermo della forma giuridica della società pubblica, di fatto consegna questo imprenditore al mercato libero, pur in condizioni di privilegio. In tale motivazione cogliamo quindi, frammisti, i concetti del controllo analogo, ma anche della prevalenza della attività, sussunti nella rilevante definizione di: “voca-zione commerciale”. Da essa, per altro, C.d.S., V, 13 luglio 2006, n. 4440 che inserisce definitivamente tale giurisprudenza anche nel circuito giurisprudenziale pretorio del Giudice amministrativo italiano. Ma soprattutto la sentenza Carbotermo chiarisce i termini. Nel punto 62 utilizza l’espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale”, e nel punto successivo afferma: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altar attività risulta avere solo un carattere marginale”. Il cammino della giurisprudenza della Corte Europea, che ha sempre più ristretto il concetto espresso da quella espressione “parte più importante”, lascia prevedere che il traguardo definitivo della totale esclusività sia assai prossimo. Si parte infatti dalla espressione “parte più importante” della sentenza Teckal, redatta in lingua italiana, e Stadt Halle, redatta in lingua tedesca, alla complessa motivazione della sentenza Parken Brixen appena citata, alla espressione “sostanzialmente destinata in via esclusiva all’ente locale in questione”, sentenza Carbotermo, C340/04 del 11 maggio 2006, punto 62, sopra citata, anch’essa redatta in lingua italiana. Le differenze linguistiche sono essenziali per comprendere la volontà della Corte, perché, per quanto quella redatta nella lingua processuale faccia fede, le altre chiariscono, con le sfumature, il significato dei termini meno precisi ed integrano quello che potremmo definire “il diritto vivente” nella comparazione dei diversi linguaggi giuridici. L’espressione, in italiano nelle due prime sentenze, “parte più importante” è stata tradotta in tedesco con “im wesentlichen” che significa, in realtà, “essenzialmente”, e con il medesimo senso è stata tradotta in inglese: “the essential part of his activities”; in francese: “l’essentiel de son activité”. Nella sentenza Stadt Halle, redatta in tedesco, compare infatti direttamente l’espressione “im wesentlichen” (essenzialmente). Nella sentenza Parken Brixen, redatta in tedesco ma proveniente da un rinvio del TAR di Bolzano e successivamente recepita con gli stessi termini dai giudici italiani di lingua tedesca, ben coscienti delle sfumature di significato, si usa ancora il termine “im wesentlichen”, anche se la traduzione in italiano, tralaticiamente, torna ad usare l’espressione “più importante. Si comprende agevolmente come “essenziale” rinvii ad un concetto qualitativo, oltre che quantitativo, facendo riferimento all’”essenza”, ovvero all’ubi consistam dell’affidatario diretto. In altri termini, la Corte accetta un’attività esterna puramente marginale, insignificante, non essenziale, assai prossima ad un’inesistenza, che è il modo speculare di vedere l’esclusività. Ma infine, realmente conclusivi sono il punto 62 e 63 della sentenza Carbotermo. Nel punto 62 la Corte usa l’espressione, in lingua italiana, “sostanzialmente destinate in via esclusiva”, già sufficientemente chiara in italiano per la verità, essa è tradotta in tedesco: “im Wesentlichen nur für diese Körperschaft erbracht werden” cioè, esattamente esprimendo il concetto che l’attività sia essenzialmente riservata solo all’ente. In francese è stata resa con: “substantiellement destinées à cette seule collectivité”, ed in inglese, con il medesimo significato: “undertaking’s services be intended mostly for that authority alone”. In aggiunta, il punto 63 della medesima sentenza definisce, a contrario, quali siano le attività che non elidono il nesso dell’affidamento diretto: “solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione ed ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”. Il concetto di marginalità è reso in tedesco: “jede andere Tätigkeit rein nebensächlich ist” (espressione che sottolinea che l’attività è “veramente, autenticamente, puramente” (rein) marginale, di secondaria importanza), in francese: “toute autre activité ne revêtant qu’un caractère marginal”, in inglese: “marginal significance”, entrambe espressioni simili a quella italiana. Concludendo, si comprende che si sia ad un passo dalla totale esclusività, e che, per l’intanto, il giudizio deve essere espresso secondo parametri di eccezionale ristrettezza quantitativa e qualitativa. 19. Illustrati i principi guida derivanti dall’ordinamento comunitario ed italiano, dalla giurisprudenza della Corte Europea e del Consiglio di Stato, appare agevole concludere che, nella specie, l’affidamento diretto del servizio in questione alla W. s.p.a. sia illegittimo perché carente dei requisiti necessari a realizzare la così detta “eccezione Teckal”. In primo luogo si osserva che l’onere della prova della esistenza delle condizioni legittimanti l'eccezione, spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto, come ritenuto dalla giurisprudenza comunitaria sopra citata. Nella specie tali prove non sono state fornite. Il Comune di Catania si è limitato a postulare: 1. Il completo possesso pubblico del pacchetto azionario con Italia Lavoro s.p.a. La circostanza non solo è inconferente, ma anzi milita a sfavore dell’affidamento diretto. L’Italia Lavoro s.p.a. possiede, come è emerso in corso di causa, il 49 per cento del pacchetto azionario. Essa, inoltre, non è destinataria dei servizi della W. che sono peculiari alla attività comunale e non di una società come l’Italia Lavoro. Riesce difficile comprendere come possa ipotizzarsi un controllo completo delle strategie aziendali quando l’ente aggiudicante deve mediare il controllo proprietario con altro soggetto, sia pure pubblico, che persegue diversi interessi pubblici. In ogni caso, la Corte europea ha ammesso la pluralità di soggetti pubblici controllanti, ma la ha condizionata alla omogeneità degli interessi, oltre che alla costituzione, nel caso di pluralità ampia, di un ufficio apposito per il coordinamento del controllo strutturale. Quanto poi alla possibile pluralità dei soggetti pubblici proprietari, è evidente che gli stessi devono trovarsi in condizione di omogeneità di interessi e di bisogni. Vale a dire che la società in questione deve essere di proprietà di enti pubblici i quali, attraverso di essa, soddisfino i medesimi bisogni: più comuni per la gestione dei rifiuti o dei servizi di illuminazione, un comune ed un provincia per la gestione di un servizio di trasporto e così via. Identici i bisogni e quindi identici gli interessi pubblici. Solo in tal caso si può ammettere che lo stesso bisogno sia soddisfatto, da soggetti giuridicamente diversi, affidandosi in maniera diretta alla medesima impresa controllata. Solo incidentalmente si osservi, per altro, che già nella sentenza Parken Brixen la Corte ribadisce la convinzione, recepita dalla giurisprudenza italiana, che non siano soddisfatte la condizione del possesso interamente pubblico delle azioni nel caso in cui lo statuto della società partecipata preveda la dismissione delle o di parte delle quote. Nella specie la circostanza riguarda, come è evidente, non la W. s.p.a, ma l’Italia Lavoro s.p.a., cioè il soggetto proprietario. Ma poiché l’affidamento diretto troverebbe il presupposto nella totale partecipazione pubblica, la norma circa l’incedibilità a privati del pacchetto azionario deve essere riferita non solo all’affi-datario diretto, ma anche ai soggetti pubblici proprietari, poiché è evidente che se il soggetto proprietario divenisse partecipato dai privati, anche l’impresa controllata sarebbe, per interposta persona, di proprietà pro quota di privati, venendo meno la condizione richiesta. 2. La sussistenza del controllo analogo solo per il fatto di nominare il presidente del consiglio di amministrazione, i membri dell'intero consiglio e collegio sindacale. Si è già osservato che, nella struttura del nostro diritto societario, ciò non implica necessariamente il completo controllo ed indirizzo delle politiche aziendali. A tal proposito la Giurisprudenza comunitaria, e questo collegio condivide pienamente l’indirizzo, richiede la sussistenza di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri “di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo” (Cons. di Stato, V, 22 aprile 2004, n. 2316). Nessuna prova è agli atti della esistenza di un siffatto pregnante potere di indirizzo. 3. La prevalenza della attività. Dinanzi ad un’attività imprenditoriale pubblica del 62 per cento viene meno perfino la necessità di un giudizio sulla prevalenza qualitativa, atteso che un’attività sul mercato esterno all’ente proprietario pari al 38 per cento del fatturato non può certo definirsi irrisoria. Si aggiunga che la W. ha realizzato parte di questo 38 per cento di fatturato, fuori dell’ambito territoriale di competenza del comune di riferimento. Tale circostanza sarebbe sufficiente, per quanto si è detto, per ritenere la decadenza dello status di società affidataria diretta. E’ pertanto assente qualsiasi prova in merito alla sussistenza delle condizioni ampiamente illustrate in precedenza per la realizzazione della eccezione Teckal. Anzi, si osservi che proprio la W. s.p.a., nel suo atto di appello, fornisce la base argomentativa per una decisione ad essa sfavorevole. In essa si prospetta che “Premesso che le programmazioni strategiche di una società hanno obiettivi di lungo periodo, tali da ricomprendere non solo le attività tipicamente svolte, ma anche quelle che la società si propone di svolgere nel futuro, appare evidente che, ai fini della questione che ci interessa, rileva esclusivamente la concreta attività svolta dalla società e non le sue mire imprenditoriali.” Con ciò la società intimata ammette la presenza di strategie aziendali di lungo periodo che la vedranno impegnata in attività fuori ambito e comunque non con l’ente controllante, assai rilevanti nella gestione aziendale. Tutto ciò è perfettamente legittimo, anzi commendevole, nell’ottica di una sana gestione imprenditoriale, solo che è del tutto estraneo alle condizioni legittimanti l’affidamento diretto, dimostrando che la detta strategia aziendale si ispira a criteri del tutto opposti alla irrisorietà quantitativa ed alla irrilevanza qualitativa della attività non in essere con il soggetto controllante. 20. In conclusione, l’appello è infondato, poiché la W. s.p.a., allo stato, dimostra di non corrispondere minimamente alle condizioni necessarie per esser qualificata come soggetto di affidamento diretto. 21. Parzialmente infondato è altresì l’appello incidentale della X. s.n.c. nella parte in cui reitera le doglianze contro le deliberazioni di costituzione della società ed il contratto di servizio, assorbite dal TAR. A prescindere da qualsiasi considerazione di tardività, non sussiste l’interesse alla impugnazione di tali delibere poiché esse costituiscono solo l’atto con cui il Comune dà vita alla società potenzialmente ad affidamento indiretto. Una tale decisione non trova controinteressati, poiché determina conseguenze giuridiche solo all’inter-no della organizzazione dell’ente pubblico, proprio per le considerazioni sopra avanzate circa la sostanziale assimilazione della detta società ad un organismo interno della Pubblica Amministrazione. Solo la realizzazione dell’affidamento diretto, nella misura in cui esso avvenga in violazione dei principi italiani e comunitari estesamente citati precedentemente, è lesivo dell’interesse delle società del mercato. In altri termini l’affidamento diretto come strumento giuridico in sé considerato, l’utilizzazione se si vuole della “eccezione Teckal”, non produce alcuna lesione se non ove realizzato, concretamente, in violazione di legge. Ne consegue che qualunque impresa del settore è del tutto estranea ed indifferente alla decisione di costituire la società, mentre sarà tutelata quando, e se, l’affidamento diretto effettivamente avvenga in maniera illegittima. Sussistono giustificati motivi per la compensazione integrale delle spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio, attesa la novità della materia. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando respinge gli appelli riuniti, respinge il ricorso incidentale. Compensa integralmente le spese, competenze ed onorari dei due gradi del giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 29 novembre 2006 e del 12 dicembre 2006, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Claudio Zucchelli, estensore, Pietro Falcone, Antonino Corsaro, Francesco Teresi, componenti. F.to: Riccardo Virgilio, Presidente F.to: Claudio Zucchelli, Estensore F.to: Loredana Lopez, Segretario Depositata in segreteria il 4 settembre 2007.
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