Aggiornamento - Civile

 

Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 583, la decorrenza della prescrizione in caso di danno biologico (danno da emotrasfusione ed incidente sul lavoro)

 

Svolgimento del processo

Mattiello Giuseppina conveniva davanti al tribunale di Napoli il Ministero della Sanità, assumendo di essere affetta fin dalla nascita da talassemia intermedia, con necessità di trasfusioni di sangue periodicamente presso strutture pubbliche; che nel 1990 risultò che essa era affetta da epatite C; che negli anni successivi essa propose domanda di indennizzo al Ministero della salute a norma della 1. n. 210/1992, che le fu accordato nel 1996. Chiedeva quindi la condanna del Ministero al risarcimento del danno conseguente al contagio del virus dell'epatite C, causato dalle trasfusioni con sangue infetto. Si costituiva il Ministero, che eccepiva la prescrizione. Il tribunale di Napoli, con sentenza n. 3866/2001 rigettava la domanda per prescrizione del diritto. Proponeva appello l'attrice. La corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 19.3.2003, rigettava l'appello, ritenendo che nella fattispecie la prescrizione era quinquennale, anche se si fosse ritenuta l'ipotesi di lesioni personali gravissime colpose; che tale termine di prescrizione iniziava a decorrere dall'8.10.1990, in cui l'attrice acquisì la conoscenza della sua malattia; che, in ogni caso alla fattispecie non poteva applicarsi il termine decennale di prescrizione, in quanto la condotta del Ministero non poteva ritenersi idonea a consumare il reato di epidemia colposa. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'attrice. Resiste con controricorso il Ministero.

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c, in relazione all'art. 2947, c. 3 c.c. Assume la ricorrente che nella fattispecie era configurabile il reato di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, con un termine decennale di prescrizione dell'illecito civile.                   
1.2. Il motivo è infondato. Va escluso che nella fattispecie il fatto possa costituire un reato di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime. Sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato (1. 5.12.2005, n. 251), tuttavia la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947, c. 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre il principio di cui all'art. 2 c.p. (legge più favorevole) attiene solo agli aspetti penali. Per poter usufruire di un termine più congruo di prescrizione sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.
Nella fattispecie è anzitutto da escludere il reato di omicidio colposo, non essendo intervenuto alcun decesso.
E' da escludere anche il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono : a) la sua diffusività incontrollabile all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia). Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.                                                              
1.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza  sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso. Sennonché anche la prescrizione del reato di lesioni colpose è pari a cinque anni.                                                                             
2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c, in relazione agli artt. 2947 e 2935 c.c..
In ogni caso rileva la ricorrente che la prescrizione decorre non dal momento in cui essa ha avuto consapevolezza della malattia, per essersi esteriorizzata, ma anche dell'addebitabilità della stessa al comportamento colposo o doloso di un terzo e che essa tale consapevolezza la ebbe solo nel momento in cui il Ministero le comunicò di essere stata ammessa ai benefici di cui alla legge n. 210/1992, e cioè nel 1996, per cui la causa instaurata nel 1999 era tempestiva.
3.1. Il motivo è parzialmente fondato. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio. Si può ora cominciare con l'osservare come il legislatore italiano del '42 ebbe ad affidare la soluzione del problema dell'individuazione del dies a quo (exordium praescriptionis) ad indicazioni piuttosto scarne e molto generiche. Come noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947, 1° comma, c.c. aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è verificato». Quest'ultima norma, pur riferendosi al solo campo della responsabilità aquiliana, ha finito per costituire il terreno elettivo dell'indagine e dell'elaborazione giurisprudenziale sul dies a quo in tutte le azioni risarcitorie: a ben vedere, l'individuazione del momento iniziale della prescrizione è infatti sempre stata affrontata partendo dalla specificazione contenuta all'art. 2947 c.c. e dunque con riferimento al fatto originatore del danno, con un ruolo piuttosto defilato da quanto riportato nella prima norma menzionata. Il codice del 1942 optò per una netta cesura con la tradizione francese e l'impostazione del codice civile del 1865, in cui le azione risarcitorie, sia contrattuali che extracontrattuali, erano sottoposte ad un unico termine prescrizionale, individuato, sul modello francese, in trenta anni. Nel nuovo codice civile il sistema della prescrizione si poneva dunque nettamente sbilanciato a favore dei convenuti, con ovvie ricadute negative per gli attori, soprattutto nei casi aventi per oggetto la violazione di un bene tanto importante quanto quello costituito dalla salute: nel segno della certezza dei rapporti giuridici, si prescindeva infatti da qualsiasi considerazione che riguardasse le ragioni oggettive e soggettive del ritardo della vittima nell'instaurazione della sua pretesa risarcitoria; risultava inoltre esclusa qualsiasi operazione di bilanciamento tra gli interessi della vittima e quelli facenti capo al soggetto evocato in giudizio, la quale operazione permettesse di verificare in concreto la sussistenza in capo al responsabile di un effettivo pregiudizio sul piano della disponibilità della prova in conseguenza del decorso del tempo. Peraltro, il dies a quo fu inizialmente concepito come coincidente con il momento della verificazione dell'evento dannoso. Il quadro codicistico della prescrizione fu così successivamente avversato dagli interpreti sin dagli anni sessanta proprio per la sua rigidità e sostanziale indifferenza alla posizione degli attori. Ciò ebbe a  verificarsi soprattutto nel campo del danno alla persona e non fu certo un caso che tale processo di revisione delle norme del codice andò incontro ad una vera e propria svolta negli anni settanta in concomitanza con l'ingresso dirompente del danno biologico nella giurisprudenza italiana: il nuovo modo di concepire la tutela risarcitoria della salute finì per riflettersi non solo sul versante dei danni risarcibili con lo sgretolamento progressivo del 2059 c.c., ma anche sul piano delle regole relative all'an debeatur e della prescrizione.                                         
3.2 Negli ultimi tre decenni si è quindi assistito al sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del '42: ciò a tal punto che oggi l'istituto della prescrizione presenta ormai una vistosa differenza tra le regole operazionali ed il formante legislativo (principalmente, l'art. 2947,1° comma, c.c.), rimasto invariato nella forma. In particolare, a partire dagli anni settanta, la dottrina e le corti, in primis la Cassazione (24.3.1979, n. 1716) vennero a spostare il dies a quo dal verificarsi del «fatto» all'esteriorizzazione del danno, finendo così per soppiantare in larga misura lo schema codicistico o, perlomeno, l'interpretazione tradizionale di detto schema: se infatti, in virtù della regola della decorrenza dal momento della «manifestazione del danno», l'orizzonte della prescrizione può dilatarsi, è di tutta evidenza come lo schema delineato dal legislatore venga di fatto rovesciato, poiché il limite diventa «mobile». Il principio della conoscibilità del danno venne infatti ampiamente ripreso, sviluppato ed affinato dalla giurisprudenza successiva proprio all'insegna di una rilettura dell'art. 2947 c.c.. alla luce del principio generale sul dies a quo (Cass. n. 8845/1995; 5913/2000). Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte  (Cass. 10.6.1999, n. 5701;Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha nuovamente affrontato il significato da attribuirsi all'espressione «verificarsi del danno», specificando che il danno si manifesta all'esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e riconoscibile» anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. Nei casi sopra citati emerge peraltro come la Suprema Corte sia tendenzialmente incline a ritenere che il parametro della «conoscibilità del danno» debba necessariamente interpretarsi nel senso che, ai fini del decorso della prescrizione, non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di «stare male», bensì occorre che quest'ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la «gravità» delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro «rilevanza giuridica».
3.3 Tuttavia il solo modello ancorato al parametro della «conoscibilità del danno» può, in taluni casi, rilevarsi del tutto insoddisfacente e fuorviante: infatti, sviluppare una malattia irreversibile (ad esempio, un'epatite cronica) o comunque duratura, oppure trovarsi permanentemente menomati a livello di integrità psicofìsica sono tutte situazioni che, se da un lato sostanziano la «conoscibilità del danno», dall'altro lato non necessariamente danno luogo alla «conoscibilità del fatto giuridicamente rilevante ai fini di un'azione risarcitoria», ovvero alla «conoscibilità del fatto illecito»; in tutta una serie di casi, infatti, la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi anche ai fini dell'istruzione di una causa sul piano probatorio e certo tali da escludere che l'inattività della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell'interruzione della prescrizione. Queste esigenze sono state recepite in un nuovo orientamento della Corte che ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947, 1° comma, c.c. non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il "fatto" che l'art. 2947, 1° comma, c.c. individua quale esordiodella prescrizione (Cass. 21/02/2003, n.2645 ; Cass. 05/07/2004, n.12287; Cass. 08/05/2006, n.10493).
Viene applicato, unitamente al principio della «conoscibilità del danno», quello della «rapportabilità causale».
Egualmente è a dirsi per le malattie professionali e per talune ipotesi di lesioni fisiche cagionate da infortuni sul lavoro. Anzi, proprio in relazione a quest'ultimo specifico ambito la Sezione lavoro della Suprema Corte, rapportando l'esigenza di certezza in capo alla vittima, ha ritagliato, attraverso una serie innumerevole di decisioni, una nozione piuttosto precisa di che cosa si debba intendere per «manifestazione del danno» comprensiva, anche della conoscenza della causa professionale della lesione (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 19575 del 2004; Cass. n. 23110 del 2004).
3.4. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'«esteriorizzazione del danno» può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
È quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno «occulto» a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medical malpractice). Va osservato che l'interpretazione dell'art. 2947, primo comma, c.c., nel senso di dar rilievo alla percepibilità e riconoscibilità del danno, nonché alla sua rapportabilità causale, trova conferma nell'espressa disciplina normativa in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall'impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi. L'art. 23, primo comma, della legge 31 dicembre 1962, n. 1860 ("impiego pacifico dell'energia nucleare"), nel testo novellato dal d.P.R. 10 maggio 1975, n. 519, dispone che "le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell'identità dell'esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza". Inoltre l'art. 13, primo e secondo comma del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (recante "attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi dell'art. 15 della legge 16 aprile 1987, n. 183") prescrive che "Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell'identità del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l'esercizio di un'azione giudiziaria".
3.5. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis , non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze  scientifiche  dell'epoca,  comunque  entrambi  verificabili dal  giudice senza  scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa. Ciò comporta una rigorosa analisi da parte del giudice di merito sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in suo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi. Ugualmente dovrà essere accuratamente ricostruito ai fini di una motivazione completa e corretta sul punto della prescrizione, lo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, onde inferirne se la riconducibilità della possibilità di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunità scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore.
4. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui all'art. 4 1. 210/1992, ai fini della decorrenza della prescrizione. In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito. Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perché offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perché potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi a decorrere anche a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell'azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico-legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso. Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche. Occorre che il giudice proceda ad un'accurata disamina, puntualmente motivata per sottrarsi al sindacato di legittimità, della diligenza che ha contrassegnato l'atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarità della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell'accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi alle sue cause, e, infine, al responsabile del danno.                                                                                                                                              
5. Ne consegue che è fondata la censura relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione quinquennale, avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data della trasfusione in luogo di quella in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto, mentre è infondata la censura secondo cui tale percezione potesse conseguirsi solo con il definitivo responso della Commissione medico-ospedaliera.                                                                                             
6. Il secondo motivo di ricorso va, pertanto, parzialmente accolto, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Napoli, che si uniformerà al seguente principio di diritto: "Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, c. l, c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche".

PQM

Rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie nei termini di cui in motivazione il secondo. Cassa, in relazione, l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.